ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 1 agosto 2017

Che pensarne, dunque?

Ancora su mons. Lefebvre, il Concilio e mons. Schneider

         Circola in questi giorni in rete un articolo di mons. Athanasius Schneider sull’«interpretazione del Concilio Vaticano II e la sua relazione con l’attuale crisi della Chiesa»[1]. Non è la prima volta, nel corso degli ultimi anni, che il Vescovo ausiliare di Astana interviene sull’argomento. È però la prima volta che afferma esplicitamente che il Concilio Vaticano II contiene delle proposizioni erronee (che ce ne fossero di ambigue, lo aveva già ripetuto a più riprese) su temi di notevole importanza della dottrina cattolica – l’ecumenismo, la collegialità, la libertà religiosa, le relazioni con il mondo moderno – e individua in questi errori del Concilio i prodromi della crisi attuale.
         Nell’articolo cerca anzi di fare una sintesi generale del suo pensiero attuale sul Concilio. L’evento non può lasciare indifferente il mondo tradizionalista. Che pensarne, dunque? Un paragone con le parole e l’operato di quella che è stata indiscutibilmente la principale figura di riferimento del movimento di reazione alle riforme conciliari, mons. Marcel Lefebvre, ci sarà di ausilio per trovare una risposta.

– 1 – Un parallelo storico

         Per illustrare il suo giudizio sulla gravità della crisi attuale nella Chiesa, mons. Schneider apre l’articolo con un paragone

         «con la crisi generale del 4° secolo, quando l’arianesimo aveva contaminato la stragrande maggioranza dell’episcopato, assumendo una posizione dominante nella vita della Chiesa».

         Il paragone si rivela particolarmente felice anche pensando a come si posizionava il mondo cattolico di fronte a questa crisi: ad una minoranza rimasta realmente fedele alla Tradizione della Chiesa (con alla testa due vescovi: sant’Atanasio sant’Ilario di Poitiers) si contrapponeva una minoranza di novatori (gli ariani) del tutto coscienti di esserlo (e che per diversi decenni hanno occupato le principali cariche di autorità nella Chiesa); in mezzo, c’era una maggioranza di persone che propendeva, senza però esserne veramente consapevole, per l’una o per l’altra parte (semiariani), ed era utilizzata sapientemente dalla minoranza al potere per imporre come maggioritarie le proprie idee, perché non schierarsi contro l’errore significava, in quel contesto, essere in misura più o meno grave connivente. Negli schieramenti presenti al Concilio Vaticano II (e, con qualche variazione numerica, in quelli odierni) ritroviamo esattamente lo stesso schema.
         A queste tre categorie, tuttavia, se ne aggiunse presto un’altra. Nel momento in cui alcuni ariani e semiariani cominciarono a rendersi conto del loro errore e – seppure non con la chiarezza e il vigore di chi aveva difeso fino a qual momento la sana dottrina – a condannarlo, nel fronte cattolico tradizionale, mentre sant’Atanasio si mostrava indulgente e pronto ad accoglierli e a spingerli ad un’adesione sempre più piena della dottrina tradizionale, si creò una frangia minoritaria di cristiani (detti, dal loro capofila Lucifero di Cagliari, «luciferiani») che non tolleravano questa indulgenza e sostenevano che finché un ariano o un semiariano non avessero ritrattato pienamente i loro errori e approvato in pieno quanto aveva fatto chi aveva resistito fino allora, non poteva essere annoverato fra le fila dei veri cattolici.
         Anche quest’ultima categoria appare oggi rappresentata. Di fronte a queste parole di mons. Schneider, infatti, non è mancato chi lo ha accusato di essere nient’altro che uno dei

         «tanti vescovi cattolici conservatori [...], i quali tengono la loro posizione sulla base del riconoscimento positivo del Vaticano II. Essi disconoscono la perniciosità di questo Concilio, che è stato il punto di arrivo di un processo teso a distruggere la Chiesa cattolica per sostituirla con una neochiesa più o meno protestante e in palese rottura con duemila anni di storia e di insegnamento della Chiesa cattolica»[2].

         E, non diversamente dai luciferiani, che non ammettevano nessuna possibile soluzione graduale alla crisi, i rappresentanti di questa corrente di pensiero ritengono che

         «l’unica soluzione alla crisi che attanaglia la Chiesa sta nella cassazione di questo nefasto Concilio, esattamente come la crisi ariana del IV secolo, qui richiamata da mons. Schneider, venne risolta con la cassazione dell’arianesimo»[3].

         L’ultimo è soltanto un errore storico: l’arianesimo, infatti, fu definitivamente debellato solo dopo diversi secoli e il superamento della crisi non avvenne da un giorno all’altro. Ma l’errore più profondo è l’idea stessa veicolata da queste parole, cioè quello di chi, credendo in questo modo di attaccare l’errore diametralmente opposto (il modernismo), conferma invece una volta di più che spesso gli estremi si incontrano. Errore, questo, contro il quale mons. Lefebvre ha spesso premunito: «È nostro dovere», diceva il fondatore della Fraternità San Pio X, «fare di tutto per conservare il rispetto della gerarchia e saper distinguere fra l’istituzione divina, alla quale dobbiamo rimanere attaccati, e gli errori che dei cattivi suoi membri possono professare. Dobbiamo fare tutto il possibile per illuminarli e convertirli con le nostre preghiere e con un esempio di dolcezza e fermezza»[4]. Dolcezza e fermezza: cioè dolcezza nel modo in cui si porgono le verità, suaviter in modo, e fermezza nel restarle fedeli senza concessioni, fortiter in re.

– 2 – Suaviter in modo

         Ma veniamo ad rem: in questo suo articolo, mons. Schneider rappresenta davvero nient’altro che la posizione dei «tanti vescovi conservatori», oppure è al contrario un esempio di quelle che, in una recente intervista, mons. Fellay ha definito «personalità ecclesiastiche che – magari non così fortemente come noi, non così pubblicamente come noi, ma sul piano dei princìpi non meno fortemente di noi – contestano il nuovo corso», le quali «naturalmente non costituiscono la maggioranza», ma sono comunque «un elemento molto importante in questa battaglia»[5]?
         È vero che mons. Schneider esordisce con una professione di rispetto nei confronti del Concilio:

         «Il Vaticano II fu una legittima assemblea presieduta dai Papi e dobbiamo mantenere verso questo Concilio un atteggiamento rispettoso».

         Ma, se queste parole fanno di lui un liberale, allora si dovrebbe dire lo stesso anche di mons. Lefebvre, che a più riprese ha dichiarato che

         «nel Vaticano II ci sono, in effetti, molte verità che sono delle verità dogmatiche, ma perché definite come tali da altri Concili, da altri magisteri […]. Che i documenti del Vaticano II siano atti importanti della Chiesa è senz’altro vero»[6].

         Il punto nel quale mons. Schneider appare più indulgente nei confronti del Concilio è quello in cui si sforza di metterne in evidenza aspetti positivi:

         «Il contributo originale e prezioso del Vaticano II consiste nella chiamata universale alla santità di tutti i membri della Chiesa (cap. 5 di Lumen gentium), nella dottrina sul ruolo centrale della Madonna nella vita della Chiesa (cap. 8 di Lumen gentium), nell’importanza dei fedeli laici nel mantenere, difendere e promuovere la fede cattolica e nel loro dovere di evangelizzare e santificare le realtà temporali secondo il senso perenne della Chiesa (cap. 4 di Lumen gentium), nel primato dell’adorazione di Dio nella vita della Chiesa e nella celebrazione della liturgia (Sacrosanctum Concilium, nn. 2, 5-10). Il resto si può considerare in una certa misura secondario, temporaneo e, in futuro, probabilmente dimenticabile».

         Certo, annoverare l’importanza data dal Concilio al ruolo dei fedeli laici nell’evangelizzazione è forse discutibile, visti gli sviluppi che questo principio ha conosciuto nel postconcilio. Ma dire che nel Concilio siano presenti anche proposizioni esatte, e anzi affermare un po’ provocatoriamente che un giorno (quando le autorità della Chiesa avranno corretto gli errori presenti in questi documenti) saranno proprio quelle poche proposizioni esatte a restare l’unico vero contributo dottrinale di questo Concilio, questo basta per essere liberali? In tal caso, è stato liberale anche mons. Lefebvre, che nel 1965, dopo la proclamazione (nel quadro del documento conciliare Lumen gentium) di Maria come «Madre della Chiesa» (cioè proprio uno di quelli che mons. Schneider annovera tra i punti positivi del Concilio), ebbe a definirlo un

         «avvenimento straordinario […], [di cui] non si parlerà mai abbastanza, perché nella storia della Chiesa, il Concilio Vaticano II resterà innanzitutto quello che ha proclamato Maria “Madre della Chiesa”. […] Nessuna delle verità affermate nel Concilio avrà, di fatto, la stessa importanza di questa»[7].  

         Si noti anche che in seguito mons. Lefebvre non ha mai ritrattato queste idee. Certo, a partire dalla metà degli anni ’70 si sentiranno sempre più raramente da parte sua parole di questo tipo; ma la ragione di questo spostamento d’accento risiede non già in un cambiamento di opinione, bensì nella constatazione che nella fase di applicazione dei testi conciliari questi punti positivi erano caduti in non cale, mentre il fulcro del Concilio erano diventati proprio i pronunciamenti contrari alla Tradizione. Inoltre, da autentico pastore d’anime, mons. Lefebvre aveva capito che in un’epoca in cui quasi nessun altro dei membri della gerarchia parlava dei disastri prodotti dal Concilio, la priorità era parlare appunto di questi; senza contare che citare come argomenti di autorità dei passaggi tratti da documenti che in altri punti contengono gravi errori contro la dottrina è inopportuno, perché si rischia di dare implicitamente autorità anche a questi ultimi. Ma tutto ciò non significa che avesse mutato il suo giudizio di merito originario. Di conseguenza, il fatto che menzionare punti positivi del Concilio non sia l’attitudine più opportuna nel contesto odierno non significa necessariamente che le osservazioni di merito di mons. Schneider in questo ambito siano false. Tra inopportuno ed erroneo passa comunque una differenza enorme. E, soprattutto, non sono questi pochi apprezzamenti su punti marginali dei testi del Concilio a inficiare il valore epocale e straordinariamente positivo delle sue parole di condanna sugli errori del Concilio. 
         Infine, più in generale, va senz’altro riconosciuto che il tono con cui l’articolo è stato scritto non è quello di un j’accuse, bensì pacato e diplomatico. Non è, ad esempio, il tono del noto opuscolo J’accuse le Concile (1976) di mons. Lefebvre. Ma neppure il tono degli scritti di mons. Lefebvre anteriori al 1976 era identico a quello di J’accuse le Concile[8], segno, questo, che il fondatore della Fraternità San Pio X è approdato gradualmente a prese di posizione pubbliche più dure, senza che questo faccia di lui negli anni precedenti un pavido o un liberale. E anche negli anni successivi, del resto, si può constatare sempre una differenza tra il tono dei suoi scritti a carattere più difensivo (come le numerose interviste giornalistiche) o rivolti ad un pubblico più vasto (come la celebre «Lettera aperta ai cattolici perplessi») o ancora ai membri ufficiali della gerarchia (come le lettere indirizzate al Santo Padre), che era sempre pacato e diplomatico, da quello, più incisivo e tagliente, delle omelie ad hoc o delle prese di posizione di fronte a scandali contro la fede, come la riunione interreligiosa di Assisi del 1986. Saper essere, quando l’occasione lo richiede, suaviter in modo, non è segno di debolezza, ma di forza: di solito è chi ha sempre bisogno di gridare che non sa trovare altri argomenti per essere convincente.

 – 3 – Fortiter in re

         Ma la pacatezza e l’equilibrio dei toni non sono un fine in sé: sono un mezzo per giungere più efficacemente a persuadere della veracità dei propri argomenti e della verità a cui si deve restare sempre incrollabilmente fedeli, fortiter in re. Vediamo – e continuiamo a confrontarlo col pensiero di mons. Lefebvre – che cosa dice in re, sul Concilio, mons. Schneider:

         «Il Vaticano II deve essere visto e ricevuto come è e come veramente fu: un concilio primariamente pastorale. Questo Concilio non aveva l’intenzione di proporre nuove dottrine o quantomeno di proporle in forma definitiva».

         Fin qui l’identità di pensiero è totale. Anche per mons. Lefebvre, infatti,

         «il Concilio Vaticano II ha un carattere particolare, come emerge in tutti i suoi atti. Ha un carattere pastorale. Lo stesso papa Giovanni XXIII ha avuto cura di dire che in quel Concilio non si voleva definire alcuna verità perché si riteneva che, allora, le verità di cui avevamo bisogno per la nostra fede fossero sufficientemente chiare, che per il momento non si vedeva la necessità di fare nuove definizioni o nuove condanne»[9].

         A questo punto mons. Schneider parla dell’atteggiamento che bisogna tenere nei confronti delle affermazioni del Concilio, distinguendo tra tre tipi di affermazioni: quelle conformi all’insegnamento tradizionale della Chiesa, quelle ambigue e quelle erronee.
         Riguardo alle prime, afferma che

         «nei suoi pronunciamenti il Concilio ha confermato in gran parte la dottrina tradizionale e costante della Chiesa».

         Per chiarificare le affermazioni ambigue, invece, propone il seguente criterio:

         «I pronunciamenti del Vaticano II che sono ambigui, devono essere letti e interpretati secondo le affermazioni di tutta la Tradizione e del costante Magistero della Chiesa».

         Quando, invece, le affermazioni del Concilio non sono conciliabili con la dottrina precedente, bensì realmente erronee,

         «le affermazioni del Magistero costante (i precedenti concili e i documenti dei Papi, il cui contenuto dimostra di essere una tradizione sicura e ripetuta nei secoli sempre nello stesso senso) prevalgono su quei pronunciamenti […] che difficilmente concordano con specifiche affermazioni del magistero costante e precedente (ad esempio, il dovere di venerare pubblicamente Cristo, Re di tutte le società umane, il vero senso della collegialità episcopale rispetto al primato petrino e al governo universale della Chiesa, la nocività di tutte le religioni non cattoliche e la loro pericolosità per la salvezza eterna delle anime)».

         Oltre agli esempi da lui chiamati in causa, che sono esattamente i punti che da sempre costituiscono l’oggetto delle critiche della Fraternità San Pio X (libertà religiosa, collegialità episcopale, ecumenismo), è l’approccio stesso utilizzato qui da mons. Schneider che ricorda molto da vicino quello fatto proprio e ribadito costantemente da mons. Lefebvre:

         «Dire che valutiamo i documenti del Concilio “alla luce della Tradizione” vuol dire, evidentemente, tre cose inscindibili: che accettiamo quelli che sono conformi alla Tradizione; che interpretiamo secondo la Tradizione quelli che sono ambigui; che respingiamo quelli che sono contrari alla Tradizione»[10].

         L’espressione «ermeneutica della continuità» allora non era ancora stata coniata, ma nella sostanza i rappresentanti della Santa Sede avevano già proposto a mons. Lefebvre quest’altro modo di “interpretare il Concilio alla luce della Tradizione”:

         «Nel pensiero del Santo Padre e del cardinale Ratzinger, se ho ben capito, bisognerebbe riuscire ad integrare i decreti del Concilio nella Tradizione, arrangiarsi per farveli entrare, ad ogni costo. Ma è un’impresa impossibile»[11].

         Anche mons. Schneider prende le distanze da questo tipo di interpretazione:

         «Non aiuta neppure un’applicazione cieca del principio dell’ermeneutica della continuità, dal momento che vengono create interpretazioni forzate, che non sono convincenti e che non sono utili per arrivare ad una più chiara comprensione delle immutabili verità della fede cattolica e della sua applicazione concreta».

         In effetti, secondo mons. Lefebvre, il problema di fondo degli uomini di Chiesa che hanno fatto e poi applicato il Concilio, è che

         «[lo] hanno voluto pastorale a causa del loro istintivo orrore per il dogma, e per facilitare l’introduzione ufficiale, in un testo della Chiesa, delle idee liberali. Ma, finita l’operazione, essi dogmatizzano il Concilio, lo paragonano a quello di Nicea, sostengono che è simile agli altri, se non superiore!»[12].

         Non diversamente si esprime mons. Schneider:

         «Il problema della crisi attuale della Chiesa consiste in parte nel fatto che alcune affermazioni del Concilio Vaticano II, oggettivamente ambigue o quelle poche affermazioni difficilmente concordanti con la costante tradizione magistrale della Chiesa, sono state “infallibilizzate”. In questo modo è stato bloccato un sano dibattito con una necessaria correzione implicita o tacita […]. Dobbiamo liberarci dalle catene dell’assolutizzazione e della totale “infallibilizzazione” del Vaticano II».

– 4 – Mitis et humilis corde

         Allora tutto è perfetto? Non si tratta di questo. Si tratta solo di non spezzare la canna infranta e non di non spegnere il lucignolo fumigante[13]. Insomma, per rispondere alla nostra domanda iniziale: se anche la sua posizione non è perfetta (ma chi lo è scagli la prima pietra), mons. Schneider è senza ombra di dubbio – tanto più dopo quest’ultimo articolo, che riveste un’importanza capitale, perché in esso condanna esplicitamente i principali errori del Concilio e evidenzia la loro relazione con la crisi attuale – una di quelle figure di cui parlava mons. Fellay, «che – magari non così fortemente come noi, non così pubblicamente come noi, ma sul piano dei princìpi non meno fortemente di noi – contestano il nuovo corso» e sono «un elemento molto importante in questa battaglia».
         L’attitudine che noi cattolici fedeli alla Tradizione – compresi quelli della prima ora, che hanno avuto (a loro grande merito) la forza di opporsi con chiarezza agli errori attuali fin da subito e senza esitazioni – dobbiamo avere di fronte a queste persone che ritornano gradualmente, ma con sempre maggiore chiarezza, alla fedeltà alla Tradizione (e tanto più quando si tratta di successori degli apostoli), non deve essere quella dei luciferiani del IV secolo, bensì quella che ha ricordato con estrema chiarezza mons. Alfonso de Galarreta a Ecône nell’omelia per le ordinazioni sacerdotali del 29 giugno 2017:

         «C’è comunque qualcosa di buono che non esisteva prima, ma che comincia a venire, c’è una reazione che è buona: dei laici di valore, dei sacerdoti, dei vescovi, dei cardinali… Certo, si tratta di una minoranza, e qualche volta di reazioni un po’ timide, o a metà strada, ma comunque sia si tratta di reazioni autentiche e sane, che vanno nella direzione della Tradizione e della restaurazione della fede, della difesa della Chiesa, del sacerdozio di Nostro Signore. E questo è appunto un segno dell’assistenza di Nostro Signore sulla sua Chiesa. Noi non possiamo fare altro che rallegrarcene. E questo fenomeno non possiamo fare altro che incoraggiarlo. La Fraternità ha per scopo la santificazione, non soltanto dei suoi membri, ma in generale la santificazione dei sacerdoti. E c’è qui un immenso campo di apostolato. Noi dobbiamo approfittare – certo, con la debita prudenza, questo va da sé – di queste aperture apostoliche, anzi questo deve incoraggiare anche noi stessi»[14].

         Così facendo, saremo realmente fedeli al venerato fondatore della Fraternità San Pio X, mons. Lefebvre, che è sempre stato suaviter in modo e fortiter in re. Saremo fedeli anche al patrono dei nostri seminari, san Tommaso d’Aquino: il sano tomismo ha sempre saputo prendere il bene da qualsiasi parte venisse (l’Aquinate non esitò a ricorrere, con scandalo dei dotti di allora, al pagano Aristotele come fondamento della sua filosofia). Ma soprattutto saremo fedeli a Nostro Signore Gesù Cristo, il quale, «mite ed umile di cuore»[15], nella conversazione con lo scriba che, anche se gli restava ancora molta strada da percorrere, mostrava di aver già colto l’essenziale e di avere il cuore aperto alla Verità[16], non gli disse: «Ecco, sei il solito scriba conservatore che sa solo citare a memoria i precetti della Legge», bensì, con tutt’altro afflato di carità: «Non sei lontano dal regno di Dio».
  di don Angelo Citati
  
[3] Ib.
[4] Mons. M. Lefebvre, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, a cura di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Sugarco Edizioni, Milano 2010, pp. 230-231.
[6] Mons. M. Lefebvre, op. cit., Milano 2010, p. 90.
[7] Mons. M. Lefebvre, Marie, Mère de l’Eglise, in Lettres pastorales et écrits, Editions Fideliter, Escurolles 1989, p. 212-213. In questo testo mons. Lefebvre sostiene esattamente la stessa tesi: che cioè i pochi punti buoni dei testi conciliari potranno essere il punto di partenza per la condanna degli errori contenuti negli stessi testi. Questo mostra una volta di più l’equilibrio dell’arcivescovo, che fin quando non ebbe dai fatti, pochi anni dopo, l’evidenza del contrario, volle ancora sperare che il Papa avrebbe applicato i pronunciamenti conciliari nel senso della Tradizione.
[8] Cfr. ad esempio Mons. M. Lefebvre, Un évêque parle, Dominique Martin Morin, Parigi 1974, che raccoglie i suoi scritti i più importanti dagli anni del Concilio al 1974. 
[9] Mons. M. Lefebvre, op. cit., Milano 2010, p. 88.
[10] Ib., p. 91.
[11] Ib.
[12] Mons. M. Lefebvre, Accuso il Concilio, Editrice Ichthys, Albano Laziale (Roma) 2002, p. 37.
[13] Cfr. Mt 12,20.
[15] Cfr. Mt 11,29.
[16] Cfr. Mc 12,28-34.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.