ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 13 agosto 2017

La felicità non è arrivata


ILLUSIONE DELL'UOMO MODERNO   
    
Incapace di pensare l’essere, l’uomo moderno vaga da un’illusione all’altra. Da Kant: il più rovinoso pensatore a Eco via Freud, Darwin e Marx l’umanità verso il progresso porta dell’immancabile felicità che non è arrivata
di Francesco Lamendola  

  
Se mai, in futuro, qualcuno si prenderà la briga di fare l’inventario dei guadagni e delle perdite nella storia del pensiero occidentale, crediamo che a Kant toccherà la palma del più rovinoso pensatore di tutti i tempi: colui che, non distruggendo, ma mettendo fra parentesi la philosophia perennis, ha dichiarato irraggiungibile la cosa in sé e affermato che il solo ambito ragionevole di cui occuparsi è quello dei fenomeni. A partire da quel momento, la filosofia è caduta verticalmente e nessuna speranza di farla volare di nuovo verso le altezze è mai stata neppure tentata, visto che, dopo di lui, tutti i pensatori, per una ragione o per l’altra, hanno accettato il suo presupposto fondamentale (cfr. il nostro vecchio saggio L’”Io penso kantiano” e l’autocastrazione del pensiero moderno, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 10/05/2007). Tutti, tranne quelli d’ispirazione cattolica; ma anch’essi, a ben guardare, hanno pesantemente risentito del nuovo paradigma instaurato dal criticismo kantiano, tanto è vero che c’è ben poco in comune fra i pensatori cristiani del XIX e XX secolo e tutti quelli che li hanno preceduti: ben poco in comune in quanto filosofi, beninteso, anche se poi, in quanto credenti, hanno sostenuto analoghe conclusioni. E che altro avrebbero dovuto fare? Per arrivare a tanto, cioè a mettere in dubbio il cristianesimo da un punto di vista cristiano, o apparentemente tale, ci voleva ancora del tempo, passando per la teologia liberale di marca protestante; i cattolici ci stiamo arrivando adesso, con la “teologia della strada” dei seguaci di papa Bergoglio (e con Bergoglio stesso).

Naturalmente, si farebbe troppo onore a Kant se gli si attribuisse l’intero merito - o demerito, secondo i punti di vista - di una simile svolta: essa era nell’aria da tempo, e aspettava solo qualcuno che la rendesse esplicita, cogliendo il momento favorevole e sfruttando le mutate aspettative del pubblico. Ci si sono stati grandi pensatori anche dopo Kant, e nonostante Kant, ma hanno avuto un peso scarsissimo, quasi nullo nella evoluzione complessiva della filosofia moderna. La linea tracciata era ormai quella, e non condividerne il dato essenziale equivaleva, automaticamente, a vedersi squalificati al livello di fossili viventi. Kant, infatti, non merita la qualifica di grande filosofo, se non altro per questa ragione di fondo: che non ha fatto altro che dare ai lettori del suo tempo ciò che essi desideravano, non ciò che è vero. E siccome il pubblico del tardo XVIII secolo non era più capace di pensare l’essere, però coltivava – in omaggio alle nuove idee libertarie ed egualitarie – l’idea di essere molto colto e intelligente, non era disposto ad ascoltare un filosofo che proclamasse la verità dell’essere e mostrasse la via, intellettualmente faticosa, per giungere a comprenderla; preferiva un piccolo filosofo che dichiarasse irraggiungibile, perché troppo ambiziosa, una tale meta, e assicurasse che il vero compito della filosofia è  pensare il fenomeno, non il noumeno. Il pubblico, infatti, nell’ambito della filosofia come in quello della letteratura, del teatro, della musica, dell’arte, cominciava a farsi insistente e petulante: voleva essere ascoltato dagli intellettuali, voleva che questi ultimi rispecchiassero le sue capacità medie. C’erano molte dame che leggevano i romanzi piccanti di Diderot e quelli lacrimosi di Rousseau, ma anche i trattati di matematica di D’Alembert e i libri di filosofia di Kant. Non si sottovaluti il potere culturale delle dame dell’epoca: esse tenevano salotto, erano brillanti, affascinanti: da Madame Récamier a Madame De Staël, erano loro a dettare le regole del gioco, o, quanto meno, ad imprimere il tono generale del dibattuto culturale. Kant era l’Umberto Eco del tardo 1700. Intorno alla sua modestissima figura, non solo intellettuale, ma anche umana, sono fioriti aneddoti, parabole, leggende. Si è voluto farne persino un maestro spirituale, ciò che assolutamente non era; un papà saggio e buono, disposto a distribuire i suoi ponderati consigli a chi si avvicinasse a lui con fiducia (non era ancora arrivato Freud e quindi non era ancora un crimine odioso impersonare la figura paterna). Si è voluto adornare la sua banale personalità con tutti gli orpelli atti a nobilitarla, trasformandolo in un campione della libertà, della dignità, della fierezza. Gli si è permesso di deridere un pensatore come Emanuel Swedenborg che, come filosofo e come mistico, valeva cento volte più di lui. Intanto le dame andavano in visibilio, perché si sentivano intelligenti leggendo la Critica della ragion pura e pensando d’averla capita. Il femminismo cominciava a produrre i suoi incalcolabili guasti, ad abbassare il livello intellettuale della società europea, ancor prima di nascere ufficialmente.
La vera filosofia è, prima di tutto, filosofia dell’essere. Ogni altro aspetto – l’etica, l’estetica, la politica – non ne è che il riflesso. Aver liquidato la filosofia dell’essere ha portato con sé la liquidazione della filosofia in quanto tale. Tutto quel che è venuto dopo Kant – a parte i pazzeschi vaneggiamento di Hegel – non è stato più filosofia, ma psicologia; e cattiva psicologia, per giunta.  Il male è penetrato talmente in profondità che a stento possiamo rendercene conto. Prendiamo, per esempio, la fenomenologia, una delle più importanti correnti del pensiero della prima metà del XX secolo, che ha influenzato, a sua volta, gran parte del pensiero successivo. Husserl è partito, in teoria, da una giusta esigenza del pensiero: invece di pensare le idee, tornare a pensare le cose. Benissimo. Ma quali sono le cose che vengono pensate dalla fenomenologia? Non le cose in se stesse, bensì le cose come ci appaiono. È la maledizione del criticismo kantiano, ancora una volta. Niente noumeno, quello è al di là del nostro pensiero; solo i fenomeni, cioè le cose come ci appaiono. Solo che questa, ripetiamo, non è più filosofia, è solo psicologia. La sostituzione della psicologia alla filosofia ha portato con sé un ulteriore restringimento degli orizzonti: non potendo più pensare l’essere, il pensiero si è concentrato nel pensare le cose divenienti, cioè le apparenze; e siccome l’istinto del pensiero è quello di pensare l’essere (ci voleva un castratore come Kant per bloccare questo istinto naturale), il pensiero ha incominciato a pensare gli enti finiti secondo la prospettiva assoluta dell’infinito: cioè assolutizzandoli. Era inevitabile. Cacciato dalla porta, il noumeno è rientrato dalla finestra; e la metafisica si è presa la sua sterile rivincita: sterile, perché del tutto fuori contesto, e quindi impazzita. Assolutizzare le cose significa pensarle secondo la triplice categoria dello storicismo, del naturalismo e del relativismo. Lo storicismo, perché tutto viene ricondotto all’evoluzione storica, e spiegato secondo il contesto storico; il naturalismo, perché tutto viene naturalizzato, e spiegato in quanto prodotto di istinti, di pulsioni, di movimenti inconsci (ecco ancora la dittatura della psicologia, anzi, della psicanalisi!); il relativismo, perché, in un mondo di soli fenomeni, nulla è più vero, certo e definitivo, tutto è probabile, relativo, provvisorio. La storia, la natura e la relatività diventano gli idoli della cultura moderna. Tutti i sedicenti filosofi moderni posteriori a Kant, con rarissime eccezioni che confermano la regola (come Kiergkegaard, che, guarda caso, non è stato capito mai così poco come quando è esplosa la Kierkegaard renaissance e, qualche tempo dopo, hanno fatto la comparsa sulla scena del crimine gli “esistenzialisti”, discepoli immaginari e degeneri del filosofo danese) sono stati, in realtà, psicologi, con la pretesa, però, di essere filosofi, cioè di pensare il tutto. Ma il tutto è l’essere; e chi lo sa pensare, come diceva Platone, è filosofo, e chi non lo sa fare, non lo è. Non per caso la cultura del Novecento ha salutato come filosofo Sigmund Freud, il quale, attualmente, occupa un capitolo d’onore nei manuali scolastici di storia della filosofia: un (cattivo) psicologo che ha assolutizzato le sue osservazioni sulle persone mentalmente disturbate, e ne ha fatto un filosofia generale. E come mai nessuno si è accorto della mistificazione, a cominciare dai professori di liceo, i quali non vedono l’ora di arrivare col programma a parlare di Freud, per rintronare la testa dei loro poveri studenti con le prodezze “filosofiche” di questo ciarlatano della filosofia? Semplice: perché il pensiero speculativo occidentale è stato castrato da Kant, e, da allora, nessuno si è più sentito all’altezza di ritentare le ardue vie della metafisica. Così, un poco alla volta, se n’è  perso perfino il ricordo, e, col ricordo, la nozione. La filosofia è diventata questa cosa qui: le fumisterie di Hegel, le cialtronerie di Freud (e i suoi sinistri rituali di magia nera, chiamati psicanalisi), i malintesi di Husserl, le demagogie e le fanfaronate dei decostruttivisti, i belati e gli squittii del pensiero debole. Che tristezza, mio Dio. Ci voleva e ci vuole tutta la miopia della cultura moderna per non vedere quanto siamo scivolati in basso; e per chiamare progresso questa ritirata su tutti i fronti, questa disfatta rovinosa del pensiero.

Incapace di pensare l’essere, l’uomo moderno vaga da un’illusione all’altra

di Francesco Lamendola
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