Torna di attualità il tema della cosiddetta “correzione
formale” del Papa a seguito dell'intepretazione ambigua del capitolo VIII di
Amoris Laetitia. Burke ribadisce la necessità di affermazioni positive su ciò
che la Chiesa ha sempre insegnato mentre l'altro estensore dei dubia,
Brandmuller, parla di una professio fidei. Nel frattempo i canonisti dibattono
sulla liceità di un provvedimento del genere.
In questa torrida estate torna di attualità il tema della cosiddetta “correzione formale” del Papa, una eventualità richiamata dal cardinale statunitense Raymond Leo Burke fin dal novembre 2016, poco tempo dopo la pubblicazione dei cinque dubia sottoposti a Francesco per l'ambigua interpretazione di alcuni passaggi dell'esortazione Amoris laetitia.
Negli stessi giorni un grande teologo domenicano, padre Aiden Nichols, con insegnamenti a Oxoford e all'Angelicum di Roma, ha sollevato una questione importante connessa alla possibile “correzione formale”. In una conferenza presso una società ecumenica, la Fellowship of St. Alban e St. Sergius, ha detto che, a suo parere, né i codici occidentali, né quelli orientali della legge canonica contengono una procederua che comprende la possibilità di una “correzione formale” del pontefice. Eppure, sostiene Nichols, «tenendo conto dei limiti previsti dall'indeffettibilità papale, la legge canonica potrebbe prevedere una procedura formale per indagare se un papa avesse insegnato errori». La prospettiva di studio indicata è suggestiva e riguarda, appunto, un lavoro da compiere sul codice di diritto canonico. L'interesse è alto anche perchè la formalizzazione di una ipotesi di questo tipo andrebbe in qualche modo ad approfondire i contorni del dogma dell'infallibilità stabilito dal concilio Vaticano I.
Quindi, secondo Nichols, per poter veramente procedere alla cosiddetta “correzione formale” richiamata da Burke sarebbe necessario prima definire una procedura che tenga conto di questa possibilità. In effetti, a ben vedere, la spiegazione offerta dal cardinale Burke in merito all'essenza di questa correzione, così come lui la intende, assomiglia di più ad una affermazione positiva dell'insegnamento della chiesa, piuttosto che una indicazione diretta dell'eventuale errore nel magistero da parte del Papa.
Ma non tutti concordano con Nichols e l'eventualità che occorra metter mano al codice per procedere alla correzione. Il canonista statunitense Edwar Peters, dopo l'intervento di Nichols, ha scritto nel suo blog che già ora il canone prevede limiti alla libertà di azione del pontefice, inoltre, «la tradizione, non la legge canonica, impegna la Chiesa ad accettare una serie di verità (…) in modo tale che un Papa che improvvisamente le sfidasse, o avesse accondiscendenza per altri che lo fanno, avrebbe bisogno di preghiere urgenti e sarebbe un oggetto appropriato per una qualche correzione».
In questo dibattito estivo dobbiamo segnalare anche lo studio che il cardinale Walter Brandmuller ha pubblicato sulla rivista tedesca Die Neue Ordnung. Da storico, il cardinale rileva la presenza di una tradizione, che risale al V secolo, per cui un papa appena eletto comunicherebbe la sua professione di fede (Professio fidei). In uno di questi testi, risalente forse al VII secolo, «il nuovo papa dichiara la vera fede così come è stata fondata da Cristo, passata a Pietro, e poi trasmessa dal suo successore fino all'ultimo papa appena eletto, così come l'ha trovata nella Chiesa e che ora desidera proteggere con il proprio sangue». Inoltre, il nuovo papa si impegna a confermare e conservare tutti i “decreti” dei suoi predecessori. Secondo Brandmuller la Professio fidei dei papi sono sempre state fatte e concepite in «reazione a gravi minacciose crisi di fede», e conclude il suo studio dicendo che «chiunque considera questa scoperta storica alla luce del nostro tempo può ben chiedersi quale conclusione si possa trarre per la Chiesa dei nostri giorni». Sembra perciò che questo studio auspichi, forse in modo un po' ingenuo, che il Papa stesso, in relazione ai dubia, procedesse con una sorta di “auto-correzzione” mediante una dichiarazione.
A quanto apprende La Nuova BQ possiamo dire che è molto difficile, nonostante le varie pressioni che vengono fatte a livello mediatico, che si possa arrivare ad una correzione formale che indichi in modo diretto l'errore del Papa. Lo stesso Burke nella sua intervista ha detto che «è assolutamente contrario a qualunque forma di scissione formale, uno scisma non potrebbe mai essere corretto».
Questo riaccendersi del dibattito segnala però una significativa riflessione sul tema, forse punta dell'iceberg di una difficoltà rispetto alle oggettive ambiguità che si sono verificate in ordine all'interpretazione del capitolo VIII di Amoris laetitia tra vescovi e teologi. Come ha rilevato il teologo Nichols, alcuni hanno interpretato il testo come se i divorziati risposati, in certi casi, possono ricevere la Comunione anche senza l'impegno a vivere “come fratello e sorella”. Altri, invece, hanno detto che ciò sarebbe possibile, nonostante l'insegnamento della Chiesa, riaffermato più volte dai papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, dica il contrario.
22-08-2017
BRANDMÜLLER: FORSE SAREBBE OPPORTUNA UNA NUOVA PROFESSIONE
DI FEDE DA PARTE DEL PONTEFICE…
È necessario che il Papa faccia una professione di fede, come si usava nei tempi antichi? Il card. Brandmüller fa capire che sarebbe opportuno.
Il cardinale Walter Brandmūller, già presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, uno dei quattro porporati che hanno firmato i “Dubia” rivolti al Pontefice, in un lungo articolo di carattere storico pubblicato nel numero di agosto del giornale Die Neue Ordnung (qui trovate l’articolo di 1P5) ricorda l’abitudine, mantenuta per molti secoli, da parte dei papi di riaffermare la propria aderenza ai dogmi di fede. E fa capire in maniera trasparente che sarebbe utile e opportuno che il Pontefice regnante seguisse questo esempio.
Il titolo dell’articolo è “Il Papa: credente; Maestro dei fedeli”. Il porporato tedesco ricorda che Gesù Cristo diede a San Pietro la missione di essere la roccia sulla quale doveva essere fondata la Chiesa, dopo che Pietro aveva espresso la sua fede: “Tu sei il Messia, il figlio del Dio vivente”.
Il cardinale spiega che il papa stesso, anche se a capo della Chiesa, ne è un membro, e di conseguenza è importante e vitale che la Chiesa possa essere certa che il papa ne preservi la fede autentica.
Il porporato ricorda che c’è una tradizione in questo senso che risale al V secolo, e che vedeva il papa neo-eletto comunicare la sua Professione di fede. Una tradizione che nel corso della storia ha assunto forme diverse, ma si è mantenuta. Documenti dell’alto medioevo dimostrano che i papi dovevano, prima e dopo l’elezione, fare una professione di fede, che era la base dell’unità fra il papa e i fedeli della Chiesa. In uno di questi testi, del VII secolo, forse, chiamato Indiculum Pontificis, “Il nuovo papa dichiara la vera Fede come è stata fondata da Cristo, passata da Pietro,e poi trasmessa dal suo successore fino all’ultimo, il papa neo-eletto, così come l’ha trovata nella Chiesa e che desidera ora proteggere con il suo sangue”.
Il nuovo papa si impegnava a confermare e difendere i decreti dei suoi predecessori. Brandmüller commenta così: “E’ notevole come esplicitamente, specialmente nell’ultimo paragrafo del testo, è sottolineata la stretta conservazione di ciò che è stato dato e trasmesso; il papa promette di conservare i canoni e i decreti dei nostri papi come comandi divini”.
Ci sono state interruzioni, in questo uso, che è rimasto in vigore però almeno fino al XV secolo. La professione di fede doveva essere letta ogni anno nell’anniversario dell’elezione, per ricordare le promesse fatte. Il porporato conclude che quelle professioni di fede sono sempre state “reazioni a crisi serie e minacciose della Fede”; e cioè “risposte di papi a minacce alla genuina fede cattolica nel suo mutevole contesto storico”.
Si può intuire, anche se non è detto apertamente, che forse stiamo vivendo uno dei quei particolari momenti storici e che una professione di fede potrebbe essere uno strumento utile per preservare l’unità all’interno della Chiesa cattolica.
La sua conclusione è piena di significato: “In una situazione analoga, cioè nella confusione che riguardava la corretta interpretazione del Concilio vaticano II, quando il papa Paolo VI ha dovuto lamentare persino, il 30 giugno 1972, che il fumo di Satana era entrato all’interno della Chiesa, ha proclamato con grande preoccupazione per la verità e la chiarezza della fede, alla fine dell’’Anno della Fede”, il 30 giugno 1968 il suo ‘Credo del Popolo di Dio’. Lui per primo ha così fatto la sua professione di fede personale di fronte a decine di migliaia di fedeli”.
“Chiunque considera questi fatti storici alla luce del nostro tempo presente si può ben chiedere quali conclusioni bisogna trarre per la Chiesa dei nostri giorni”.
L’articolo in spagnolo è su Como Vara De Almendro
http://comovaradealmendro.es/2017/08/brandmuller-tal-vez-orportuna-una-nueva-profesion-fe-parte-del-pontifice/
MARCO TOSATTI
http://www.marcotosatti.com/2017/08/21/brandmuller-forse-sarebbe-opportuna-una-nuova-professione-di-fede-da-parte-del-pontefice/
Pietro e la professione di fede. Contro le adulterazioni
Tempo fa è stato monsignor Nicola Bux, in un’intervista a Edward Pentin («Monsignor Bux: We Are in a Full Crisis of Faith», in «National Catholic Register», 21 giugno 2017) a proporre che il papa, quando la crisi della fede si manifesta con particolare evidenza, proceda con una professione di fede, per ribadire i punti centrali del «depositum fidei» e confermare così i fratelli. E adesso sulla questione torna il cardinale Walter Brandmüller, uno dei quattro porporati dei «dubia».
Nel saggio «Der Papst: Glaubender – Lehrer der Glaübigen» («Il papa: credente e maestro dei fedeli»), pubblicato nel fascicolo di agosto di «Die Neue Ordnung», il porporato tedesco dimostra che per secoli i romani pontefici, appena eletti, hanno fatto professioni di fede, perché Gesù assegnò a Pietro la missione di diventare la roccia sulla quale costruire la Chiesa solo dopo che l’apostolo dichiarò apertamente: «Tu sei il Messia, il Cristo, il figlio del Dio vivente».
Prima di tutto un credente
Anche il papa, argomenta Brandmüller, è prima di tutto un credente e solo come tale può insegnare la fede ed essere garanzia del rispetto della retta dottrina. Pertanto «è interesse vitale della Chiesa poter essere sicuri della fede autentica di quell’uomo che è il successore del principe degli apostoli e, in quanto tale, possiede l’autorità».
A partire dal quinto secolo, le professioni di fede dei papi hanno assunto forme diverse, ma la sostanza è rimasta la stessa: ribadire la fede nel mistero della Trinità e dell’incarnazione, nonché riconfermare i dogmi e i decreti dei predecessori, minacciando con l’anatema chiunque si proponesse di contraddire il «depositum fidei» e la tradizione.
Brandmüller spiega che in uno di questi testi, l’«Indiculum Pontificis», forse risalente al settimo secolo, «il nuovo papa dichiara che la vera fede è stata fondata da Cristo, data a Pietro e poi trasmessa, come si è sempre fatto nella Chiesa, dal suo successore fino all’ultimo papa appena eletto, il quale desidera ora proteggerla a costo del proprio sangue».
Le professioni di fede, che spesso dovevano essere lette pubblicamente, ad alta voce, avevano anche lo scopo di rispondere alle eresie, diventando così strumenti dell’unità della Chiesa sottoposta a dure prove.
Non è certo un caso che sulla questione della professione di fede papale torni uno dei cardinali dei «dubia», che si sono rivolti al pontefice prendendo spunto da alcuni passi di «Amoris laetitia».
In gioco non è tanto il problema dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione, ma il problema generale del possibile scivolamento verso il soggettivismo nel momento in cui, in base alla cosiddetta etica della situazione, si introducono deroghe alle norme morali generali. Se si adotta l’etica della situazione, aperta diventa la contraddizione con «Veritatis splendor», là dove (n. 103) san Giovanni Paolo II scrive: «Sarebbe un errore gravissimo concludere… che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”».
A proposito di professioni fede, abbiamo già raccontato (http://www.aldomariavalli.it/2017/07/17/quella-straordinaria-avventura-del-credo-di-paolo-vi/) di come Paolo VI, in un altro momento tormentato per la Chiesa, sentì il bisogno di proclamare il «Credo del popolo di Dio», per un «ritorno alle sorgenti» in una fase storica in cui gli «sperimentalismi dottrinali» stavano incrinando le certezze dei fedeli e degli stessi sacerdoti.
L’esempio di Celestino I
Fin dai primi secoli i papi si sono trovati ripetutamente a confrontarsi con eresie manifeste o striscianti, e uno dei casi più significativi è quello di Celestino I, che guidò la Chiesa dal 422 al 432, in piena crisi nestoriana sulla natura di Cristo.
Prima, durante e dopo il Concilio di Efeso (che condannò le tesi del vescovo siriano Nestorio), Celestino mantiene un fitto epistolario nel quale a un certo punto critica Nestorio per il suo «eccessivo discorrere» che porta confusione perché il vescovo, con la pretesa di «ragionare del Dio Verbo diversamente da come ritiene la fede comune», «ha preferito mettersi al servizio delle proprie idee piuttosto che di Cristo»,
La condanna della verbosità e della contraffazione dice qualcosa anche a noi: «Non si deve turbare la purezza della fede tradizionale con parole blasfeme su Dio. Chi mai non è stato giudicato degno si anatema se ha aggiunto o tolto qualcosa alla fede? Infatti la fede trasmessa dagli apostoli con pienezza e con chiarezza deve essere salvaguardata da aggiunte e da detrazioni. Leggiamo nei nostri libri che non si deve aggiungere né detrarre alcunché». E poi: «La custodia della dottrina tramandata non è meno importante del compito di chi la tramanda».
Nella sua semplicità, Celestino I aveva capito che uno dei grandi pericoli, per la fede, sta nell’opera di adulterazione di chi invece è chiamato a tramandarla: un aggiungere e un togliere che va a discapito della custodia e della vigilanza. «Se cominciamo a ricercare la novità, calpesteremo le norme trasmesse dai padri e faremo spazio a superstizioni senza valore. Dunque non dobbiamo spingere le menti dei fedeli verso tali esteriorità. Infatti vanno educati e non illusi».
Da sottolineare il riferimento all’importanza della «pienezza» e della «chiarezza»: sono passati milleseicento anni e, più o meno, ci confrontiamo con gli stessi problemi.
Vissuto in tempi burrascosi, con la Chiesa sottoposta alle pressioni di svariate eresie, Celestino I fu instancabile nel raccomandare la fedeltà agli antichi canoni. Ma non per questo fu un papa inerte. Fu in contatto anche con Agostino e alla fine della sua vita, come ultimo atto ufficiale da papa, prese una decisione davvero di portata storica per l’evangelizzazione dell’Europa: inviò san Patrizio in Irlanda.
Sulla sua tomba, presso le catacombe di Priscilla, nel luogo scelto da Pietro per i battesimi dei primi cristiani, c’è un epitaffio che è a sua volta una dichiarazione di fede: «Qui è il sepolcro del corpo. Ossa e ceneri riposano, né muore nulla. La carne tutta risorge nel Signore».
Se la fede è arrivata fino a noi lo dobbiamo anche a papi come Celestino I, in una sequela ininterrotta che permette alla Chiesa cattolica la cura pastorale perché è custode della Verità. Con una consapevolezza: poiché «il novanta per cento di ciò che chiamiamo nuove idee sono semplicemente vecchi errori», ecco che «uno dei principali compiti della Chiesa cattolica è far si che la gente non commetta questi vecchi errori in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino» (Gilbert Keith Chesterton, «Perché sono cattolico e altri scritti»).
Aldo Maria Valli
http://www.aldomariavalli.it/2017/08/20/pietro-e-la-professione-di-fede-contro-le-adulterazioni/
Francesco, Brandmuller o Brian Moore?
di Associazione San Benedetto Brixia
L’intervista di Brandmuller per Die Neue Ordnung, tradotta da 1P5 e rilanciata da Marco Tosatti, è di estremo interesse e di nessuna inopportunità e ora dirò il motivo.
Correva l’anno 1973 quando Jack Gold produsse il film “The Catholics”, ispirato all’omonimo romanzo di Brian Moore e proiettato in Italia con il titolo “Il conflitto”. La trama è semplice: un monastero irlandese di osservanza tradizionale viene commissariato dal Vaticano. Il commissario è un sacerdote modernista che pratica yoga e l’obiettivo è far desistere la comunità dalla celebrazione del Vetus Ordo. Lungo il film il sacerdote riesce a ottenere il consenso dell’abate, che in virtù dell’obbedienza impone il cambio di rotta ai suoi monaci. La pellicola termina con i religiosi in ginocchio, mentre pregano il Padre Nostro, e il loro abate che - preda di forti crisi di fede - non riesce a concludere l’orazione… ma facilmente concluderà la riforma.
La sceneggiatura, a tratti un po’ lenta, tiene il pari con sorprendente tempismo alla polemica tra tradizione e progresso, superstizione e secolarismo. La domanda finale dello spettatore è semplice: ha senso obbedire in nome della fede a un superiore che abbia smarrito la fede? Mi sono sempre chiesto come si sarebbe comportata la Chiesa in casi simili, al di fuori della finzione.
Risponde a tale quesito l’articolo di Tosatti: “c’è una tradizione in questo senso che risale al V secolo, e che vedeva il papa neo-eletto comunicare la sua Professione di fede” e Brandmuller precisa che in tali confessioni, per esempio nell’Indiculum Pontificis, “il nuovo papa dichiara la vera Fede come è stata fondata da Cristo, passata da Pietro, e poi trasmessa dal suo successore fino all’ultimo, il papa neo-eletto, così come l’ha trovata nella Chiesa e che desidera ora proteggere con il suo sangue. Il nuovo papa si impegnava a confermare e difendere i decreti dei suoi predecessori. Brandmüller commenta così: E’ notevole come esplicitamente, specialmente nell’ultimo paragrafo del testo, è sottolineata la stretta conservazione di ciò che è stato dato e trasmesso; il papa promette di conservare i canoni e i decreti dei nostri papi come comandi divini”.
Interessante, dunque l’obbedienza nella fede presuppone che il superiore condivida tale fede (come attestano le dichiarazioni dei pontefici medievali) e/o si impegni a comandare ciò che ad essa è conforme (vincolandosi ai canoni e decreti e alle tradizioni ricevute).
Se convenga proporla a Francesco, non sta a me indagarlo. Che sia nei diritti-doveri di un cardinale pronunciarsi a tal riguardo, è fuor di discussione. Io perintanto mi procuro fotocopia dell’Indiculum Pontificis da tenere nel giustacuore: può sempre tornare utile con qualche parroco o parrocchiano poco versato in storia ecclesiastica e troppo incline alle mode del tempo.
Iscrivetevi alla nostra newsletter settimanale, che conterrà una rassegna dei nostri articoli. Utilizzeremo agosto come mese di prova, poi a settembre si parte a regime.
L’intervista di Brandmuller per Die Neue Ordnung, tradotta da 1P5 e rilanciata da Marco Tosatti, è di estremo interesse e di nessuna inopportunità e ora dirò il motivo.
Correva l’anno 1973 quando Jack Gold produsse il film “The Catholics”, ispirato all’omonimo romanzo di Brian Moore e proiettato in Italia con il titolo “Il conflitto”. La trama è semplice: un monastero irlandese di osservanza tradizionale viene commissariato dal Vaticano. Il commissario è un sacerdote modernista che pratica yoga e l’obiettivo è far desistere la comunità dalla celebrazione del Vetus Ordo. Lungo il film il sacerdote riesce a ottenere il consenso dell’abate, che in virtù dell’obbedienza impone il cambio di rotta ai suoi monaci. La pellicola termina con i religiosi in ginocchio, mentre pregano il Padre Nostro, e il loro abate che - preda di forti crisi di fede - non riesce a concludere l’orazione… ma facilmente concluderà la riforma.
La sceneggiatura, a tratti un po’ lenta, tiene il pari con sorprendente tempismo alla polemica tra tradizione e progresso, superstizione e secolarismo. La domanda finale dello spettatore è semplice: ha senso obbedire in nome della fede a un superiore che abbia smarrito la fede? Mi sono sempre chiesto come si sarebbe comportata la Chiesa in casi simili, al di fuori della finzione.
Risponde a tale quesito l’articolo di Tosatti: “c’è una tradizione in questo senso che risale al V secolo, e che vedeva il papa neo-eletto comunicare la sua Professione di fede” e Brandmuller precisa che in tali confessioni, per esempio nell’Indiculum Pontificis, “il nuovo papa dichiara la vera Fede come è stata fondata da Cristo, passata da Pietro, e poi trasmessa dal suo successore fino all’ultimo, il papa neo-eletto, così come l’ha trovata nella Chiesa e che desidera ora proteggere con il suo sangue. Il nuovo papa si impegnava a confermare e difendere i decreti dei suoi predecessori. Brandmüller commenta così: E’ notevole come esplicitamente, specialmente nell’ultimo paragrafo del testo, è sottolineata la stretta conservazione di ciò che è stato dato e trasmesso; il papa promette di conservare i canoni e i decreti dei nostri papi come comandi divini”.
Interessante, dunque l’obbedienza nella fede presuppone che il superiore condivida tale fede (come attestano le dichiarazioni dei pontefici medievali) e/o si impegni a comandare ciò che ad essa è conforme (vincolandosi ai canoni e decreti e alle tradizioni ricevute).
Se convenga proporla a Francesco, non sta a me indagarlo. Che sia nei diritti-doveri di un cardinale pronunciarsi a tal riguardo, è fuor di discussione. Io perintanto mi procuro fotocopia dell’Indiculum Pontificis da tenere nel giustacuore: può sempre tornare utile con qualche parroco o parrocchiano poco versato in storia ecclesiastica e troppo incline alle mode del tempo.
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