ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 5 settembre 2017

I corifei della conservazione

Liturgia al centro I progressisti ora sono conservatori
Riconciliazione liturgica o riforma irreversibile? Il fronte progressista è arroccato in una posizione conservatrice per cui la riforma conciliare non si può toccare. Però 50 anni fa si toccò la messa gregoriana che di anni ne aveva 1500. La posta in gioco è grande: la forma liturgica esprime la fede. E oggi si stanno compiendo epocali cambiamenti di contenuti dottrinali bimillenari che produrranno un cambiamento di contenuto della Messa e dei Sacramenti.

Ancora una volta la questione liturgica è tornata al centro dell’attenzione della vita della Chiesa e non solo, visto che anche numerosi mezzi di informazione ‘laici’ ne hanno dato un certo risalto: alcuni giorni fa papa Francesco ha rivolto un discorso denso e articolato ad un importante organismo (il CAL) che si occupa di liturgia e che compie settant’anni di vita; quasi in contemporanea è uscita l’intervista che il cardinal Sarah, prefetto del dicastero per il Culto Divino, ha rilasciato ad una rivista cattolica francese (la Nef). Pur tenendo presente che si tratta di due interventi di tenore diverso per destinatari e per contesto, sarebbe comunque difficile negare che vi sia tra essi una difficoltà di sintonia. Infatti mentre il cardinale Prefetto rilancia ancora una volta, e nonostante le ripetute opposizioni ad essa, l’idea di un possibile intervento correttivo sulla ‘riforma’ liturgica in corso da cinquant’anni, il Papa dichiara questa stessa riforma irreversibile, aggettivo che a questo punto pare sinonimo di irreformabile.

Dunque, dicevamo, la questione liturgica è di nuovo al centro. E lo è in una forma sorprendente: il fronte progressista, che sta dietro a questo discorso di papa Francesco e agli altri suoi interventi in materia, è ora paradossalmente arroccato in una posizione conservatrice per cui la riforma liturgica postconciliare non si può toccare; il fronte conservatore invece sostiene, pur con mille distinguo, l’esigenza di interventi correttivi sulla scorta della ‘riforma della riforma’ ratzingeriana o, per meglio dire, della ‘riconciliazione liturgica’ di cui parla il cardinal Sarah. Inutile dire che le forze in campo sono assolutamente sproporzionate e che il destino della tesi riformistica è, nello stato attuale, già segnato. Non di meno la questione è di importanza capitale e merita qualche riflessione.

Anzitutto resistiamo alla tentazione di pensare che si tratti di problemi di lana caprina, di ‘roba da preti e che se la vedano loro’. La liturgia è sempre espressione di una visione della fede, del cristianesimo, della Chiesa; e mentre la esprime ne è anche il veicolo: cinquant’anni fa la Chiesa (nel senso dell’autorità ecclesiastica) ha cambiato la messa, e in questi cinquant’anni la (nuova) messa ha cambiato la Chiesa (nel senso della comunità dei fedeli e della loro mentalità). D'altronde gli stessi operatori della riforma liturgica postconciliare hanno motivato l’esigenza del cambiamento del rito e coerentemente hanno proibito con forza per decenni la forma liturgica tradizionale, poiché – sostenevano – solo il nuovo rito era pienamente adeguato ad esprimere il rinnovamento della visione teologica ed ecclesiologica di cui erano portatori i documenti conciliari. Dunque non si tratta di dettagli. Non possiamo non citare ancora una volta le parole, più attuali che mai, dell’allora cardinale Ratzinger: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (La mia vita, Ed. San Paolo 1997, pag. 113).

Detto questo, occorre quindi valutare con attenzione la forma liturgica in corso e la congruenza di una sua presupposta irreversibilità. Riguardo a questo, infatti, non si possono evitare alcune osservazioni.

Per prima cosa, già stando alla semplice cronologia, c’è un problema di logica: pare strano infatti che si dichiari intoccabile una storia liturgica che ha cinquant’anni, mentre i suoi fautori cinquant’anni fa non si sono fatti problema a mettere le mani su una storia liturgica che di anni ne aveva mille e cinquecento! Infatti è vero che il messale in uso fino alla riforma postconciliare è stato codificato da san Pio V (XVI secolo), ma l’ordo, cioè la struttura e i testi, della messa tradizionale risale a san Gregorio Magno (VI secolo) tanto che essa può a giusto titolo essere chiamata anche messa gregoriana.

In secondo luogo c’è un altro problema di coerenza. Stiamo vivendo un momento di attuati o previsti mutamenti non della forma ma addirittura del contenuto della messa e dei sacramenti: in seguito ai due sinodi sulla famiglia è ampiamente mutata la prassi circa la ricezione dei sacramenti della confessione e della comunione ai divorziati risposati e ai conviventi; riguardo al sacramento dell’ordine è ufficialmente al lavoro ai più alti livelli una commissione che studia la possibilità del diaconato femminile e contemporaneamente la Civiltà cattolica, organo sempre più quasi ufficiale della santa Sede, lascia intendere che l’esclusione delle donne dal presbiterato non sia poi così definitiva come sembrava ai tempi di Giovanni paolo II; quanto poi al battesimo, è da un pezzo che il suo valore è stato relativizzato, visto che ben pochi lo considerano ancora davvero necessario alla salvezza eterna; infine veniamo alla messa: è noto, anche se non ufficialmente confermato, che a Roma si stia lavorando per produrre un rito che consenta a cattolici e protestanti di mettersi intorno allo stesso altare; come si intenda realizzare questo non è dato saperlo, ma visto che i protestanti hanno una dottrina opposta circa l’essenza stessa della messa, cioè circa il sacrificio, il sacramento e il sacerdozio, i mutamenti richiesti da una presunta ‘concelebrazione’ non saranno quisquiglie… E dunque con tutto questo in ballo, mentre si stanno compiendo o almeno preparando epocali cambiamenti di contenuti dottrinali bimillenari, contemporaneamente si proclama l’intangibilità delle forme rituali codificate pochi decenni fa?

Alla luce di tutto questo la barriera messa in atto in questo momento dall’Autorità ecclesiastica e dai corifei della conservazione dello status quo contro qualunque ipotesi di correzione della riforma liturgica postconciliare è più che comprensibile: l’idea di ‘riforma della riforma’ o di ‘riconciliazione’ tra le due forme liturgiche, quella preconciliare e quella postconciliare, porta con sé l’idea di un benefico reciproco influsso tra di esse (che Benedetto XVI auspicava nella promulgazione del Summorum Pontificum) e quindi di un riequilibrio rispetto alle spinte innovatrici che hanno estremizzato la riforma in ambito liturgico, ma anche, di conseguenza, in ambito teologico, morale, pastorale, ecc… Ora, è evidente che questo è incompatibile con la visione di coloro, e sono la maggioranza in alto e in basso, che ritengono che il problema sia invece non aver portato ancora a radicale compimento il cambiamento iniziato cinquant’anni fa.
di Claudio Crescimanno05-09-2017

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-liturgia-al-centroi-progressisti-orasono-conservatori-20937.htm

Compositori cattolici in rivolta: “Basta brutta musica in chiesa”
Convegno con i maestri di cappella dopo 25 anni di silenzio. «I preti non sanno più cantare. Stop alle messe-Sanremo»


ANSA
Santa Cecilia. Il convegno dei Compositori di Musica Sacra si è tenuto a Roma per iniziativa dell’Associazione Italiana Santa Cecilia


La Chiesa cattolica è muta. Quando canta, lo fa male, in un modo che profana la liturgia. «Dopo l’ubriacatura di “Batti le mani, alzale in alto”, degli Alleluia a grappolo, di “Bella, bella, bella Maria”, dopo le Ave Maria reinventate e i Padre Nostro blasfemi, non sarà il caso di darsi una calmata e tornare a cantare la Parola di Dio invece dei repertori orrendi che si sentono nei coretti delle nostre parrocchie?», si domanda don Valentino Donella, direttore emerito della Cappella di Santa Maria Maggiore a Bergamo. 

«Nelle funzioni dilaga un atteggiamento populista. Ma cantare la liturgia non significa allietare una riunione di amici, come purtroppo è all’ordine del giorno. La musica sacra deve possedere tre caratteristiche: essere santa, essere arte vera, essere universale. Nel nostro terreno sono cresciute le erbacce», denuncia, con tutta la sua autorevolezza, Monsignor Valentino Miserachs Grau, direttore della cappella di Santa Maria Maggiore a Roma. «Siamo afflitti, almeno nelle Marche, dalla bonghite: le chiese sono invase dai bongo», dice don Marco Mascarucci, della diocesi di Fano e direttore del Segretariato Istituti Diocesani di Musica Sacra. Michele Manganelli, direttore della Cappella Musicale di Santa Maria del Fiore a Firenze e docente al Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, insiste sull’assenza dell’insegnamento musicale nei Seminari: «I primi che non sanno quello che vogliono sono i liturgisti, i parroci, i vescovi. Non sanno quello che si deve fare e non cantano. Pigiano i tasti dell’“animatore liturgico” e trasmettono delle musiche registrate, ma se il celebrante non canta, non canta neppure l’assembla e il rito è dimezzato. Inoltre, non c’è alcuna committenza: oggi il compositore di musica sacra fa la fame».  

LE CRITICHE  
Queste voci radicalmente critiche sono emerse dal convegno dei Compositori di Musica Sacra, tenuto a Roma per iniziativa dell’Associazione Italiana Santa Cecilia. L’occasione è stata il centenario della nascita di Domenico Bartolucci, nel 1956 nominato da Pio XII «direttore perpetuo» della Cappella Sistina, la Cappella personale del Papa, ma sostituito da Giovanni Paolo II nel 1997, poi elevato alla porpora cardinalizia da Benedetto XVI nel 2010, scomparso nel 2013. Compositore e direttore, Bartolucci credeva possibile conservare nel nostro tempo la ricchezza delle tradizioni del canto gregoriano e della polifonia rinascimentale, declinandole però con una saggia semplicità che rendesse possibile la partecipazione dei credenti al canto, «perché la parola di Dio vive nella musica sacra». Oggi, la sua battaglia appare sconfitta. 

«Mancano anche i poeti, gli autori. Vengono pubblicati da case editrici cattoliche dei testi che andrebbero bene per Sanremo, dove si parla indistintamente di amore o di lontananza da lui, da lei, senza alcun riferimento al sacro», aggiunge il presidente dell’Associazione Santa Cecilia, monsignor Tarcisio Cola che ha concluso il convegno officiando una Messa molto degnamente cantata nella Cappella del Coro della Basilica di San Pietro. La scelta del luogo non è stata casuale: qui, dove canta la Cappella Giulia, è tumulata la salma di Pio X, il Papa che con il Motu Proprio sulla musica sacra del 1903 pose le premesse per una riforma nel segno dell’identità del canto liturgico, chiamato a distinguersi dagli altri stili, soprattutto da quello dell’opera lirica, allora dominante al punto che in chiesa o in teatro si ascoltava la stessa musica. Cambiavano le parole, ma armonie, melodie, arie e duetti erano del tutto simili. 

IL CONFRONTO  
Una strategia che, un secolo dopo, non è riuscita a imporsi. Il confronto con la dignità musicale e vocale della Chiesa luterana è impietoso; ma anche all’interno del cattolicesimo, le chiese italiane si distinguono per la mediocrità. In un saggio di imminente pubblicazione per la Treccani scrive don Alberto Brunelli, storico della musica e eminente organista: «Ogni parrocchia ha una propria raccolta di canti in continua evoluzione o involuzione. La cultura dell’effimero ha raggiunto anche la liturgia. Ci si è accorti che il Concilio Vaticano II non proibiva proprio nulla dell’antico e apriva senza problemi al moderno. Questa assoluta libertà ha portato a un livellamento verso il basso dal quale si stenta a rialzarsi». E Papa Francesco? «Paolo VI stonato com’era, cantava sempre. Benedetto XVI conosce e ama la musica e sa cantare. Papa Francesco non canta, purtroppo», constata intristito don Gonella.  

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.