La morale cattolica è un’esortazione alla santità. Anche il papa può sbagliare?
Domandiamo a chiunque sia dotato di retto giudizio e onestà intellettuale di confrontare un brano di san Paolo con un paragrafo di Amoris laetitia
di Francesco Lamendola
Si rilegga il § 303 e l’inizio del § 304 della esortazione apostolica Amoris laetitia, nella quale il papa Francesco parla della situazione morale delle persone che hanno ricevuto il Sacramento del matrimonio cattolico, e poi si sono separate ed unite more uxorio ad una nuova compagna o ad un nuovo compagno:
A partire dal riconoscimento del peso dei condizionamenti concreti, possiamo aggiungere che la coscienza delle persone dev’essere meglio coinvolta nella prassi della Chiesa in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio. Naturalmente bisogna incoraggiare la maturazione di una coscienza illuminata, formata e accompagnata dal discernimento responsabile e serio del Pastore, e proporre una sempre maggiore fiducia nella grazia. Ma questa coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo. In ogni caso, ricordiamo che questo discernimento è dinamico e deve restare sempre aperto a nuove tappe di crescita e a nuove decisioni che permettano di realizzare l’ideale in modo più pieno.
È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano.
Dopo di che, per rafforzare ulteriormente quest’ultimo concetto, ossia che è meschino soffermarsi a considerare solo, ecc. ecc, cita un passo di san Tommaso d’Aquino (povero Dottore angelico!) che dovrebbe, secondo l’estensore, servire allo scopo (Summa Theologiae, I-II, q. 94, art. 4), ma che serve solo a evidenziare ulteriormente – ne avevamo avuto già innumerevoli prove – l’imbarazzante confusione che regna nella cultura teologica del papa “misericordioso”. In effetti, il pensiero di san Tommaso viene distorto, con incredibile disinvoltura, per fargli dire, ci sembra, il contrario di ciò che egli voleva dire: cioè che, sul terreno della morale pratica, sostanzialmente non ci sono norme generali che tengano, e che ogni caso particolare fa testo a se stesso: una vera e propria enormità, non solo rispetto all’insieme del pensiero del grande filosofo, ma anche, e quel che più conta, rispetto all’insieme della dottrina cattolica. Come se Gesù Cristo avesse rifiutato la Legge in nome del discernimento individuale! Niente affatto; ma all’adultera, sorpresa in flagrante adulterio, Gesù non ha chiesto come e perché ella stava tradendo suo marito; ha semplicemente messo in dubbio che, fra gli astanti, vi fosse qualcuno talmente esente dal peccato, da poterla giudicare e condannare; dopo di che l’ha rimandata, dicendole: Vai, e d’ora in avanti, non peccare più. Il che significa che, per Gesù Cristo, il peccato è peccato, e resta sempre tale, con o senza il discernimento individuale, con o senza la particolarità di questa o quella situazione. Anche perché, se ci si mette su quella strada, va a finire che la norma sparisce, sparisce la Legge, spariscono anche i Dieci Comandamenti, e quel che resta è solo il singolo caso, la singola situazione, nei quali, guarda caso, ciascuno è autorizzato a regolarsi secondo la propria coscienza. Ma questa sarebbe la fine del Vangelo! Questo equivale a togliere ogni significato all’Incarnazione, alla Passione e alla Redenzione di Gesù Cristo. Se ciascuno di noi è libero di farsi e ritagliarsi la propria morale su misura, e di giustificare davanti a Dio il proprio peccato, cosa ci stanno a fare i Dieci Comandamenti, e a che cosa è servito il sacrificio di Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra redenzione? Una volta imboccata questa strada, crolla tutto, e il cristianesimo perde qualsiasi significato; si riduce a una debole norma morale: debole, perché ciascuno diviene libero di seguirla oppure no.
E adesso, andiamo a rileggerci quel che dice san Paolo a proposito del peccato e della norma di vita cui deve ispirarsi, e naturalmente anche attenersi, colui che vuol essere seguace di Gesù Cristo (dalla Prima lettera ai Tessalonicesi, 4, 1-8):
Per il resto, fratelli, voi avete imparato da noi come dovete comportarvi per piacere a Dio. E già vi comportate così. Ma ora, nel nome del Signore Gesù, io vi prego e vi supplico di migliorare ancora. Perché voi sapete quali sono le istruzioni che vi ho dato da parte del Signore Gesù. Questa è la sua volontà: vivete in modo degno di Dio! E quindi state lontani da ogni immoralità. Ognuno sappia vivere con la propria moglie con santità e rispetto, senza lasciarsi dominare da indegne passioni, come fanno invece i pagani, che non conoscono Dio. In queste cose, nessuno deve offendere o ingannare gli altri. Ve l’ho già detto e vi ho già avvertiti seriamente: il Signore punisce chi commette questi peccati. Dio non ci ha chiamati a vivere nell’immoralità, ma nella santità. Perciò, chi disprezza queste istruzioni, non disprezza l’uomo, ma Dio che vi ha dato il suo Spirito Santo.
Domandiamo ora a chiunque, beninteso a chiunque sia dotato di retto giudizio e di onestà intellettuale e morale, di confrontare il brano di san Paolo con il paragrafo sopra citato di Amoris laetitia. Ci rivolgiamo soprattutto a quei cattolici i quali, in buona fede, ritengono impossibile che il papa possa avere sbagliato, e che sono, pertanto, in un atteggiamento di chiusura preconcetta verso quanti criticano quella sua proposizione, così come altre, del medesimo tenore; ed accusano noi, e quelli come noi, di estremismo, di fanatismo, di eccessiva rigidezza e di fondamentale incomprensione e prevenzione verso il suo insegnamento. Magari si trattasse di questo! Che importanza avrebbe quel che pensiamo noi, se il papa insegnasse lealmente e fedelmente la dottrina cattolica, e le sue parole fossero di edificazione, rasserenamento ed elevazione spirituale per i fedeli, in conformità al Vangelo di Gesù Cristo! Dio sa quanto preferiremmo avere torto ed essere esposti alle severe conseguenze di una sconsiderata presunzione, piuttosto che vedere innumerevoli anime turbate e confuse da un insegnamento non solamente ambiguo, ma, in parecchi punti, sostanzialmente difforme, e perfino contrario, al vero e santo Magistero, a quel Deposito della fede che la Chiesa cattolica ha custodito integro per una ventina di secoli, affrontando, per questo, lotte e persecuzioni innumerevoli, e versando il sangue dei martiri.
Dunque: confrontando i due testi, emerge che sono l’uno la perfetta antitesi dell’altro. San Paolo, che si rivolge a una comunità che già sta osservando la morale cristiana, esorta i suoi interlocutori a migliorare ulteriormente, perché, afferma, la vita umana consiste nella ricerca di ciò che piace a Dio e non di ciò che piace all’uomo; in altre parole, in una costante tensione verso la santità. Viceversa, papa Francesco, il quale si rivolge a delle anime peccatrici, le quali hanno infranto il Sacramento del matrimonio (Sacramento, non contratto civile!), assicura loro che, a fronte della complessità concreta dei limiti (?), tutto quel che possono fare, e che piacerà probabilmente a Dio, è di rimanere nel loro stato di peccato. Dire che si tratta di un’affermazione inaudita, inaccettabile, scandalosa, è ancora poco: scrivendo queste parole, in uno stile tortuoso e sfuggente che invano si sforza di camuffare il senso dei concetti espressi, il papa si è assunto una responsabilità gravissima: non solo ha autorizzato i peccatori a restare nel peccato, ma ha spinto la sua audacia fino a sostenere che Dio stesso non chiede all’uomo peccatore niente di meglio che restare così com’è: senza pentimento, senza conversione, senza riparazione. A san Paolo, il quale afferma che Dio non ci ha chiamati a vivere nell’immoralità, ma nella santità, è come se il papa replicasse che Dio si accontenta, anzi, non si aspetta altro, dal peccatore, che di vederlo restare nel proprio peccato, se non riesce a vivere in un altro modo, né a realizzare nella sua pienezza l’ideale cristiano. San Paolo esorta a fare quel che si deve fare, coerentemente con il Vangelo; papa Francesco dice che, in concreto, si può anche fare tutto il contrario, stante la nostra debolezza e la complessità delle situazioni nelle quali ci veniamo a trovare. Ma che vuol dire, questo? Forse che al tempo di Gesù Cristo, o al tempo di san Paolo, le situazioni esistenziali erano meno complesse, o la natura umana era meno debole, di quel che non accada oggi?
La nota finale, quella frecciata contro la “meschinità” di quanti ricordano che esiste una norma morale propriamente cristiana, e che si deve vivere coerentemente con essa, è veramente un capolavoro di perfidia e di disorientamento pastorale. Ma davvero colui che ha scritto quelle frasi non si rendeva conto della portata devastante che esse avrebbero avuto, e hanno, su centinaia di milioni di fedeli? Cioè, per rassicurare i peccatori, e convincerli che possono rimanere nel peccato, il papa non esita e gettare nel turbamento e nella confusione tutti gli altri, a cominciare da coloro i quali, fra quotidiane difficoltà, si sforzano di vivere in coerenza con il Vangelo, che non è un “ideale”, come dice lui, ma un modello vivo e presente nella vita di tutti i cristiani, e operante con l’aiuto e per mezzo della grazia. Si direbbe che il papa non tenga in gran conto l’apporto della grazia; si direbbe che, per lui, di fronte alla complessità e alla difficoltà delle situazioni concrete, l’uomo debba fare tutto da solo. Logico che un simile compito risulti, prima o poi, letteralmente irrealizzabile: nessuno di noi è un superuomo, tutti siamo deboli e fragili nella carne. Ma la grazia, dove la mettiamo? E l’aiuto soprannaturale dei Sacramenti, a cominciare dalla Confessione e dalla santa Eucarestia, dove li mettiamo? Non contano nulla? Se fossimo dei superuomini, non avremmo bisogno di Gesù Cristo; non avremmo avuto bisogno della sua Incarnazione, della sua Morte e Passione, né della sua Resurrezione; insomma, saremmo capaci di redimerci da soli. Ma chi pensa così, ancora un cristiano e un cattolico, o è tutt’altra cosa?
La morale cattolica è un’esortazione alla santità
di Francesco Lamendola
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