ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 12 novembre 2017

Proprio il giorno di san Martino..?

La Chiesa dei tre papi     
   

Seicento anni fa l’elezione “miracolosa” di Martino V pose fine allo scisma d’occidente. Tra divisioni e lotte, una soluzione sembrava impossibile. Lezioni utili per l’oggi


Il conclave dal quale l’11 novembre 1417 il cardinale Odo Colonna uscì come Papa Martino V, rappresenta un evento straordinario nella storia della Chiesa. Sia la situazione di partenza e le circostanze dell’elezione, sia il collegio degli elettori e la procedura stessa non avevano precedenti nella storia dei Papi. Diamo anzitutto uno sguardo alla situazione in cui si trovava la Chiesa quando gli elettori entrarono in conclave a Costanza. La Chiesa, a quel tempo, stava vivendo ormai da quarant’anni in una situazione di scisma. O meglio: dopo l’elezione dell’antipapa Clemente VII, avvenuta a Fondi il 20 settembre 1378, c’erano prima due e poi, dopo il fallito tentativo di composizione a Pisa nel 1409, addirittura tre “Papi”, ognuno dei quali rivendicava la propria legittimità come successore dell’apostolo Pietro.


Per porre fine a quella infelice divisione della Chiesa, nel 1414 il Rex Romanorum Sigismondo, insieme con uno dei tre concorrenti, Baldassarre Cossa, ovvero Giovanni XXIII, convocò un concilio a Costanza, che di fatto fu il sinodo più grande e splendido della Chiesa nel medioevo. In seguito alla rinuncia alle proprie rivendicazioni, fatta lì da due dei tre “Papi” – vale a dire Gregorio XII e Giovanni XXIII (quest’ultimo in seguito alle forti pressioni del concilio) –, rimaneva solo Benedetto XIII, ovvero Pedro de Luna, residente nel regno di Aragona, che venne destituito dal concilio nel 1417. 
La strada per un Pastore supremo della Chiesa riconosciuto da tutti era dunque stata spianata. Pertanto, non fu la morte di un Papa legittimo a portare alla sede vacante e al conclave – come di norma accade – bensì la rinuncia, ovvero la destituzione di presunti Papi la cui legittimità era discutibile. E’ dunque questa la prima peculiarità. 
La seconda è rappresentata dalle circostanze di questa insolita elezione. La sua straordinarietà non consiste nel fatto che è avvenuta fuori Roma, bensì che si è svolta durante un concilio appositamente convocato, senza che il concilio stesso partecipasse all’elezione. E questo ci porta al terzo punto: il collegio degli elettori. 
Dopo il decreto sull’elezione del Pontefice di Papa Niccolò II del 1059, questo normalmente era costituito solo da cardinali. 
Ora, però, a Costanza si pose la domanda se in realtà esistevano ancora cardinali legittimi, poiché quelli che si trovavano lì erano stati tutti creati da uno dei tre antipapi. Ma potevano dei cardinali illegittimi eleggere un Papa legittimo? Con un’urgenza senza precedenti sorse dunque la domanda su chi, in quelle straordinarie circostanze, avesse il diritto di eleggere il Papa. Occorreva senz’altro trovare una soluzione che non potesse essere contestata da nessuna delle parti se non si voleva mettere a repentaglio la riuscita dell’elezione già in partenza. Si trattava di eleggere un unicus et indubitatus pontifex.
Come raggiungere tale obiettivo se la legittimità dei cardinali – anche se riuniti in un unico collegio – comunque non era al di sopra di ogni sospetto? Comunque, se c’erano dubbi circa la legittimità dei cardinali, non c’erano però sui partecipanti al concilio. Furono queste considerazioni ad animare le lunghe consultazioni, in seguito alle quali venne elaborato un sistema elettorale assai complicato. Ma che aspetto aveva? E’ fuori questione che il peso decisivo dovesse spettare al concilio. Essendo costituito da cinque nazioni – italiana, francese, inglese, tedesca e spagnola – fu deciso che ognuna di loro dovesse scegliere tra i propri membri sei elettori, che si sarebbero uniti al collegio cardinalizio. Riguardo alla votazione stessa, per l’elezione erano necessari almeno due terzi da ciascuno di questi sei gruppi.
Il rischio che tale procedura comportava è evidente: bastavano tre voti di una sola nazione per bloccare l’elezione! Sarebbe mai stato possibile mettersi d’accordo? Che tipo di conclave si profilava? Quali conflitti incombevano? E per quanto tempo si sarebbe stati costretti a sopportare il freddo invernale nelle stanze non riscaldate?

Nondimeno – disse il cardinale francese Fillastre, uno tra i principali artefici del concilio – fu scelto questo sistema di elezione. I cardinali, inoltre, si erano dichiarati disposti ad associarsi a un voto unanime delle nazioni e a rimettere l’intera questione dell’elezione al cielo. Quando il 28 ottobre 1417 fu comunicata questa conclusione, a Costanza suonarono tutte le campane. La regolamentazione fu sancita nella sessio solemnis del concilio del 30 ottobre. 
Fu altresì deciso di procedere alla votazione anche in assenza dei cardinali rimasti con Benedetto XIII, a meno che non fossero arrivati a Costanza prima della conclusione del conclave e si fossero uniti al concilio. Al tempo stesso venne istituita una commissione composta da due cardinali e due deputati di ciascuna nazione, che doveva riunirsi subito per occuparsi dei preparativi tecnici e giuridici del conclave. 
Bisognava poi scegliere i conclavisti, vale a dire i due segretari o servitori che potevano accompagnare ogni elettore. Tra questi ci furono senz’altro personaggi di rango e di spicco, al cui consiglio non si voleva rinunciare e che a loro volta consideravano questo compito un onore. Inoltre, avrebbe potuto dare loro la possibilità di esercitare una certa influenza. Infine furono nominati anche i guardiani del conclave.
Durante la sessio solemnis dell’8 novembre tutte queste persone prestarono giuramento dinanzi al cardinal decano de Brogny, dopo la lettura delle disposizioni per il conclave di Clemente II, che attenuavano un poco le rigide disposizioni di Ubi periculum di Gregorio X. Pertanto, gli elettori poterono farsi accompagnare da due conclavisti e fu abolita la limitazione a pane e acqua. Si pranzò presto, cavalcando poi verso la piazza antistante il palazzo vescovile, dove re Sigismondo salutò ognuno dei 53 elettori con una stretta di mano. Riuniti intorno a lui, tutti si inginocchiarono, dopodiché il vice-camerlengo di Santa Romana Chiesa Manroux, Patriarca titolare di Antiochia, uscì dalla cattedrale con il servizio liturgico, pronunciò alcune preghiere e impartì la benedizione a quanti erano lì presenti. Poi tutti montarono di nuovo a cavallo e si recarono – Sigismondo in testa – al “magazzino” sulle rive del lago, dove era stato allestito il conclave. 
Davanti al portone, il Rex Romanorum accolse di nuovo ogni singolo elettore, chiedendo a ciascuno di mettere da parte qualsiasi passione e considerazione umana e dare alla Chiesa, in pace e amicizia, un Pastore gradito a Dio. 
Il Gran Maestro dell’Ordine cavalleresco di Rodi – oggi di Malta – chiuse il portone e da quel momento rimase lì giorno e notte. Era accompagnato da due principi, che avevano appeso al collo le chiavi del conclave, mentre sei uomini armati facevano la guardia sulle scale. L’osservatore, al quale dobbiamo questo racconto, notò che nessuno osò dire anche una sola parola. 
Davanti alle scale che portavano al magazzino, gli scrutatores ciborum avevano un grande tavolo, sul quale dovevano esaminare tutto il cibo e le bevande che venivano portati, per verificare che non ci fossero, per esempio, messaggi nascosti. Il mattino seguente sarebbero poi iniziate anche le processioni rogatorie quotidiane, per impetrare la benedizione di Dio sull’elezione. 
Gli elettori erano quindi entrati in conclave. La vista che si offrì loro probabilmente li rallegrò, poiché da agosto erano stati compiuti grandi sforzi per rendere il magazzino un teatro degno dell’evento storico. Nei due piani superiori erano state create, separandole con dei tendaggi, cinquantasei celle doppie, tutte arredate, di cui tre erano riservate ai cardinali che eventualmente sarebbero giunti da Peñíscola. Naturalmente era stata allestita anche una cappella. Probabilmente non fu accolto con altrettanto piacere il fatto che le finestre del primo piano fossero state murate e che quelle del piano superiore fossero state sprangate con delle assi, costringendo gli elettori a vivere giorno e notte alla luce delle candele. 
E’ sempre il cronista Richental, con il suo amore per i dettagli e le sue conoscenze, a darci informazioni precisissime sull’allestimento del conclave, raccontandoci perfino che c’erano due “camere segrete”, una per piano. L’arredamento delle singole celle consisteva in un letto e un tavolo. Davanti alla cella c’era una cameretta per il conclavista. La distribuzione era organizzata in modo che nessuno avesse un vicino della propria nazione. Ora potevano sistemarsi – nessuno sapeva per quanto – nelle loro camerule. 
Era già notte e ancora non era stato chiamato l’extra omnes. Sigismondo, sapendo che il vice-camerlengo Louis Aleman – persona a lui non grata – doveva trovarsi lì d’ufficio, agitato si recò dagli elettori riuniti nella cappella del conclave lamentandosi amaramente della nomina di Aleman: o se ne va lui – concluse – o me ne vado io! Per evitare uno scandalo, gli elettori spinsero il vice-camerlengo a nominare per quella volta un suo sostituto. La sua scelta cadde sull’abate di Tournus e Sigismondo lasciò il conclave, che dunque venne chiuso. 
Il racconto più dettagliato e cronologicamente preciso degli eventi nel conclave è quello indirizzato dall’ambasciatore aragonese Felip de Malla al suo re. Secondo tale racconto, l’elezione vera e propria iniziò la mattina del 9 novembre, dopo che Fillastre ebbe celebrato la messa e Brogny ebbe rivolto un discorso agli elettori, ricordando l’immensa responsabilità a loro affidata. Per prima cosa le persone riunite chiarirono la maniera in cui si sarebbe proceduto, in particolare la questione del modo della votazione, decidendo che si doveva votare per iscritto, ma non in segreto. Durante questi chiarimenti, nel conclave si udirono le preghiere e i canti della grande processione rogatoria quotidiana del concilio, che era appena passata per la prima volta davanti al magazzino. Il testimone racconta che in seguito anche nel conclave si era diffuso un clima di contemplazione e di devozione. Non pochi avevano versato lacrime di pia commozione e de Malla vedeva in ciò un segno della serietà e della purezza d’intenzione che animavano gli elettori. Dopo essersi accordati sulla procedura dell’elezione, la maggior parte di loro si ritirò nella propria cella per meditare e, come osserva in particolare lo stesso de Malla, malgrado gli spazi ristretti, nei piani superiori del magazzino regnarono silenzio e raccoglimento. La mattina del 10 novembre ci si alzò molto presto per assistere a tre messe celebrate dal vescovo de Dominicis e dai cardinali de Chalant e Fillastre. Seguì poi il primo scrutinium. Naturalmente nelle settimane precedenti erano già stati fatti nomi di papabili, e generalmente si pensava a un italiano. L’aragonese Macià des Puig riferì al suo re che si parlava di Colonna e Foix, ma anche di Bertrands, il vescovo di Ginevra, e di Conzié. Si attendeva dunque con grande interesse il risultato della prima tornata.
Dopo che l’ultimo votante ebbe depositato la sua scheda nell’urna, il cardinale diacono più anziano – si trattava di Saluzzo – si avvicinò, estrasse ogni singolo foglio, lesse a voce alta i nomi che vi erano scritti, chiedendo poi se l’elettore riconosceva la scheda come propria. Emerse così che spesso su una scheda erano stati scritti più nomi, fino a dodici, secondo Fillastre. Successivamente uno dei notai lesse quanto da lui scritto, per confrontarlo con quanto annotato da altri, dopodiché ci fu il conteggio. Per un caso fortuito, nell’Archivio di stato di Torino ho trovato le annotazioni di un anonimo partecipante al conclave, che ha preso appunti durante la lettura del risultato della votazione. Fillastre nella sua relazione si limita a osservare che non è stata raggiunta la maggioranza dei due terzi. 
Tuttavia, i dettagli del risultato non sono privi d’interesse, poiché rappresentano più la selezione di possibili candidati che una vera e propria elezione. In effetti, compaiono alcuni nomi di personaggi notoriamente considerati papabili. Basta analizzare il voto dei cardinali in tal senso. Essi erano concentrati su Brogny (8), Lando (12), Saluzzo (13), Colonna e Fillastre (5 ciascuno). Dalle nazioni degli inglesi e dei tedeschi i cardinali ottennero solo qualche singolo voto. 
Di nuovo, il pomeriggio del 10 novembre non ci fu alcun atto ufficiale del conclave, ma ci furono colloqui privati, dai quali emersero diverse preoccupazioni e timori. L’accumulo di nomi su una singola scheda era considerato inopportuno da alcuni, che invitavano a una votazione chiara, palese. Altri invece vedevano questo accumulo piuttosto come una facilitazione dell’accesso, che alla fine era ciò che importava. Non pochi espressero la loro preoccupazione che potessero scoppiare momenti di discordia, e che dunque si potesse profilare un conclave molto lungo. Ma tutti ci tenevano in modo evidente a mantenere la concordia e la pace. 
Passò così un altro giorno. Quello seguente, festa di san Martino, iniziò con una messa, celebrata questa volta dal cardinale Panciera, e con preghiere per una buona votazione. Seguì dunque il secondo scrutinium. Mentre venivano contati i voti e la tensione cresceva, la processione rogatoria quotidiana si avvicinò di nuovo al magazzino. Il canto degli inni – c’erano 150 voci bianche – penetrò anche le mura del conclave, e il nostro testimone catalano afferma di non avere mai sentito un canto tanto commovente, addirittura celestiale, come quello. Molti di quanti erano lì riuniti si erano commossi fino alle lacrime e avevano seguito spontaneamente l’invito a inginocchiarsi e pregare. Con voce smorzata venne cantato il Veni creator, de Brogny pronunciò l’orazione Deus, qui corda fidelium, poi tutti tornarono al proprio posto e fu completato il conteggio dei voti. Il risultato non fece presagire ancora nessun cambiamento di tendenza. Il numero dei voti dei cardinali per i favoriti cambiò in modo poco rilevante. Colonna guadagnò tre voti, arrivando a otto. Anche questa volta non era stata presa alcuna decisione. La ragione per cui non ci fu una terza tornata non viene spiegata da nessuno dei nostri testimoni, i quali raccontano solo che a quel punto avvenne l’accesso. 
Gli eventi iniziarono a precipitare. Gli spagnoli si accordarono sul vescovo di Ginevra e i cardinali Brogny e Saluzzo, gli italiani e gli inglesi su Colonna; a loro si unirono – improvvisamente – anche Correr e Condulmer, e poi l’intera Natio Germanica. Da quella Hispanica, a Colonna mancavano solo i voti dei vescovi di Cuenca, Badajoz e Dax. E anche tre da quella Gallicana. Nemmeno il tempo di due Padre nostro, e l’elezione fu fatta. Mai come in quel momento – così Felip de Malla – aveva sentito tanto la forza della preghiera. Nel giro di mezz’ora – il “protocollo” di Torino parla addirittura di soli venti minuti – era avvenuta l’accesso e c’era stata una votazione unanime in plena et perfecta concordia
Alla domanda se accettasse l’elezione, Colonna rispose: “Dio Onnipotente, tu rendi giusto il peccatore, tu hai fatto questo, a te onore e gloria”. 
Poi, in ordine di rango e dignità, i singoli elettori e conclavisti si fecero avanti per baciare piede, mano e labbra al Papa. Così venne accettato da tutti come Pontefice massimo e romano – dice Fillastre – e gli venne suggerito di prendere il nome del santo del giorno, Martino, cosa che egli fece. Il Papa si recò poi nella sua cella e indossò le vesti pontificali, dopodiché fu sollevato sull’altare della cappella del conclave e venne intonato il Te deum, questa volte ad alta voce. Il vice-camerlengo Louis Aleman fu fatto entrare nel conclave attraverso la finestra, dopodiché venne aperto il portone e annunciato: Habemus Papam. Sigismondo, raggiante di gioia, fu il primo a entrare, seguito dagli altri guardiani del conclave, per rendere l’obbedienza al Papa. 
Subito, e senza pranzare, fu poi organizzata la processione solenne, che a causa dell’incredibile folla accalcata nelle strade, raggiunse la cattedrale solo a fatica. Lì il Papa impartì la benedizione, e poi tutti a tavola. “Gloria e lode all’Altissimo, che ha fatto accadere questo in pace e ha fatto unire la Chiesa sotto un solo capo”, così Fillastre. 
L’elezione unanime di un verus, unicus et indubitatus pontifex fu il vero e storico atto del concilio. Con essa, il concilio, che solo poche settimane prima era diviso in partiti, aveva superato se stesso. Questo, perlomeno, ritenevano i partecipanti al concilio de Malla e il senese Mignanelli. Se avevano nutrito grandi timori proprio in considerazione della procedura elettorale complicata e per questo suscettibile di creare contrattempi, nelle loro relazioni sul conclave diedero ampia espressione alla loro meraviglia e allo stupore per l’effettivo svolgimento dell’elezione. Furono unanimi anche nell’esprimere, con parole convinte, perfino commosse, la loro gratitudine per la pace, la concordia e l’amore, come anche l’alto senso di responsabilità e di pietà che secondo avevano regnato nel conclave. Essi sono ancor più convincenti in quanto le loro relazioni – se si prescinde forse da quella di Fillastre – non erano destinate al pubblico, bensì alla cancelleria reale di Aragona e al Concistoro di Siena, quindi a uso interno. 
Questo conclave di Costanza appare dunque come un evento di straordinaria spiritualità, che veniva percepito tanto più come un dono del cielo, in quanto gli antefatti erano di tutt’altro genere. Non solo i testimoni diretti, ma anche l’intera cristianità furono colmati di grande gioia e gratitudine per questa elezione e per la fine dello scisma che essa portò. Una testimonianza eloquente di ciò sono per esempio le cronache cittadine tedesche del tardo medioevo, nessuna delle quali menziona il concilio senza ricordare la felice elezione di Martino V: Item an sant Martins tag ward der babst Martinus erwölt, ain ainiger babst, gott sei gelopt. (Proprio il giorno di san Martino è stato eletto Papa Martino, un unico Papa, sia lode a Dio).
L’autore è presidente emerito del Pontificio comitato di Scienze storiche. Arcivescovo, il 20 novembre 2010 è stato creato cardinale da Benedetto XVI

Selfie, Santità?
I monsignori non hanno molto da fare, parlano solo delle foto di Benedetto XVI nel suo monastero

"Lasciate in pace il povero Benedetto XVI!", intima il vescovo che mi sorprende al baretto di piazza della Città leonina, a due passi dalla vecchia casa di Joseph Ratzinger. Poi si siede, sistema il faldone di carte sul tavolino sporco di zucchero e controlla in modo compulsivo il suo Samsung. Lo saluto, gli chiedo come va, lui mi mostra la carrellata di fotografie scattate al Papa emerito nel suo monastero. Prima sorridente, poi sorretto da due suore, quindi col cappellino, di nuovo seduto a fare colazione col fratello e un ospite, poi con un libro in mano, infine con un occhio nero. Embè?, chiedo. “E’ tutta colpa di quelle cornacchie, di quei corvacci che per un mese mettevano in giro voci su un presunto peggioramento delle condizioni di salute di Benedetto. Solo che così ne hanno alimentato un culto della personalità. Ora c’è la gara a ritrarlo in tutte le pose, come Breznev, per sbandierarne la presenza in una chiave chiaramente anti Francesco”. Mi pare capziosa come argomentazione, assecondo il presule (peraltro entusiasta del nuovo corso), esco dal baretto e per strada incontro un monsignorino rimasto al 10 febbraio 2013, di quelli che si stracciano le vesti e rimpiangono le babbucce rosse come fossero un simbolo di Cristo pari alla croce: “Ha visto le foto del Santo Padre? Sta bene, è presente e vigila. Guarda tutto”. Assecondo pure lui, che saluto cordialmente. Poi salgo sul bus e mi lascio andare a un sintetico Miserere mei, Domine.

di La Gran Sottana

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