ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 30 novembre 2017

Tornare a Dio


DIO E IL PESSIMISMO CRONICO



Ottimismo o pessimismo cronico ? Tornare a Dio per poter amare la vita. La vita ha bisogno dell’ottimismo per potersi propagare; se le creature viventi non ne fossero dotate in misura sufficiente, la vita si estinguerebbe 
di Francesco Lamendola  


Se ci troviamo in presenza di una persona veramente pessimista, di un pessimista cronico e non di un pessimista occasionale, la sensazione che proviamo è un misto di tristezza, abbattimento e indefinibile disagio, e non desideriamo altro che di liberarci della sua presenza, aspettando con impazienza che se ne vada, oppure andandocene noi, magari con la prima scusa plausibile. C’è una ragione precisa per tutto ciò: il pessimismo cronico – che è cosa diversa, ovviamente, dalla depressione, essendo uno stato d’animo che si sovrappone permanentemente al carattere, e non una patologia specifica – è, puramente e semplicemente, contro natura; e tutto ciò che è contro natura suscita, nelle persone normali, una reazione di orrore, disgusto, rifiuto, per quanto la nostra parte razionale possa tentare di sdrammatizzare la situazione e per quanto la nostra pare affettiva possa provare un certo grado di compassione nei confronti di quella persona. Sì, lo sappiamo bene: sia l’espressione “contro natura” (che implica il concetto opposto, “secondo natura”), sia la parola “normale” (che evoca immediatamente l’aborrita parola “anormale”), suscita il prurito in tutte le persone politicamente corrette: pazienza. A loro non ci rivolgiamo, perché è inutile discutere con una persona che ha venduto il proprio cervello all’ammasso e che si crede intelligente solo perché riflette il pensiero dominante, credendosi, però una persona autentica, come il cane di Pavlov potrebbe credere di aver fame veramente allorché gli viene la saliva in bocca, anche se noi sappiamo che è solo un riflesso condizionato, prodotto dall’accostamento del suono di un campanello con l’arrivo puntuale della sua razione di cibo.

Ora, se il pessimismo è un atteggiamento esistenziale contrario alla natura, e noi tutti lo sentiamo istintivamente, ciò significa che l’atteggiamento opposto, ossia l’ottimismo, è secondo natura; e le cose, in effetti, stanno proprio così. La vita ha bisogno dell’ottimismo per potersi propagare; se le creature viventi non ne fossero dotate in misura sufficiente, la vita si estinguerebbe, perché la loro riproduzione si farebbe sempre più incerta, precaria e contrastata. Di fatto, al livello degli esseri umani, o meglio, al livello della civiltà occidentale moderna (perché altre civiltà, quella islamica ad esempio, non ne sono afflitte), è proprio questo che sta accadendo: stiamo assistendo a una sorta di estinzione di massa, a un suicidio biologico della nostra civiltà, per disamore verso la vita, il quale a sua volta provoca un crollo demografico: e tutto questo è una conseguenza del dilagare di una visione della vita sempre più cupa e tetra, sempre più marcatamene pessimista. Perciò, o noi troveremo la maniera di invertire la tendenza e di far re-innamorare della vita le nuove generazioni, partendo dai bambini, oppure possiamo preparare il testamento non solamente per noi stessi come individui, ma come esponenti della nostra intera civiltà. Precisiamo che ottimismo, qui, riveste un significato non già di tipo filosofico, o, comunque, intellettualmente elaborato, bensì il significato più generico che si possa immaginare: sta semplicemente per “atteggiamento favorevole alla vita”, ossia l’atteggiamento di chi si alza, la mattina, pensando che, sì, vale la pena di mettersi in gioco, iniziando una nova giornata e affrontando anche i suoi eventuali imprevisti e contrattempi; di chi, guardando fuori dalla finestra, quando il mondo incomincia a destarsi, e la luce a diffondersi sulla terra, prova un senso istintivo di benessere, di conforto, e non già un senso di disgusto, di fastidio, d’irritazione o di tristezza.
Osservava a questo proposito lo psicologo francese André Missenard (1901-1989), che aveva particolarmente approfondito tale aspetto della problematica esistenziale (in: A. Missenard, Verso un uomo migliore; titolo originale: Vers un homme meilleur…  par la sciernce expérimentale de l’homme, Paris, Librairie Istra, 1970; traduzione dal francese di Cecilia Festa, Roma, Paoline/SAIE, 1973, pp. 154-155):

La vita in comunità non è sopportabile e nemmeno possibile che con un mimo di “amore del prossimo”, per parlare come i cristiani, e di senso della responsabilità. Responsabilità tanto più grande quanto più elevata è la funzione nell’organismo. Forse si potrebbe parlare di “grazia di stato” – aspetto della legge della sopravvivenza  per necessità dell’adattamento – perché se l’uso non crea l’organismo, come credeva Lamarck, per lo meno lo sviluppa.
La perennità della vita implica l’ottimismo, persino la gioia di vivere, testimonianza psichica del buon funzionamento dell’organismo, dato che tutte le attività vitali sono delle fonti di diletto, anche le più animali. E si capisce come i credenti che “stanno al gioco” accettino con gioia l’esistenza rendendo grazie al creature. Il pessimismo, rifiuto dell’accettazione lieta della vita, è contro natura. In mancanza di una pena morale o affettiva, generalmente temporanea, esso può essere provocato da qualche sofferenza fisica che attesta un cattivo stato dell’organismo e in ragione della dipendenza del psichico dal fisico, il diletto o anche la semplice compiacenza nella sofferenza attesta il disordine organico. Quando questo pessimismo è una disposizione congenita, senza causa apparente, probabilmente ha per origine qualche malformazione nervosa o cerebrale, innata o accidentale, e poiché è contro natura, deve eliminarsi con la selezione. Di fatto, i veri pessimisti – d’altronde meno numerosi di quelli che affettano di esserlo… - sono poco fecondi, dati che non prendono nessun gusto alla vita e non hanno alcuna gioia a trasmetterla. Le popolazioni primitive divenute infelici per un mutamento troppo brutale delle condizioni di vita ancestrali, si sono rapidamente estinte.
La felicità implica l’attività vitale - la “vita traboccante fino all’orlo” – come diceva pateticamente Guyau che la lodava quando essa lo abbandonava nella pienezza dell’età – e vi è più felicità nella ricerca che nel possesso. Prima di tutto perché il desiderio, come il ricordo, abbellisce tutto, e anche perché il possesso lascia un’impressione di vuoto provocato non tanto dall’eventuale disillusione quanto dalla fine dell’azione. “Da lontano è qualcosa e da vicino è niente”. Ed è proprio per questo che bisogna che l’oggetto bramato e giudicato accessibile sia tuttavia lontano ed elevato. È così vero che la ragione d’essere della vita é la ricerca, che dei moribondi si aggrappano alla vita quando desiderano fare ancora qualcosa, mentre coloro che hanno rinunziato ad ogni progetto e ad ogni responsabilità, si lasciano morire.
Beninteso, se la vita felice implica l’azione, bisogna tuttavia che essa resti nei limiti normali, perché quando lo sforzo eccessivo genera la sofferenza, la felicità risiede più nel possesso che nella ricerca: ma ogni sforzo doloroso fino a questo punto è contro natura.

E invero, al di là di ogni esagerato psicologismo – Jean-Marie Guyau celebrava la “vita traboccante fino all’orlo” perché essa lo stava abbandonando, ma la stessa cosa accadeva a Leopardi, il quale invece celebrava la morte come la sola cosa buona concessa all’uomo dalla natura matrigna – resta un fatto certo e incontestabile: che la vita chiama la vita, non la morte; e che se la vita invoca o corteggia la morte, ciò significa che qualche fattore anormale è penetrato dentro di essa e ne ha inquinato le sorgenti, deviando la natura dal suo fine naturale, che è quello riproduttivo.
Ora, prendendo come soddisfacente la definizione data da Missenard del pessimismo, cioè il rifiuto dell’accettazione lieta della vita, dobbiamo domandarci per quale ragione esso si presenta sempre più frequentemente ai nostri dì, sia nella vita delle persone comuni, sia nelle teorizzazioni di pesatori, scrittori, artisti; solo così, infatti, potremo pensare a quali vie battere per cercar d’invertire la tendenza e per ristabilire la normale tendenza sociale verso l’ottimismo, senza la quale una società è condannata ad esaurirsi biologicamente. Evidentemente, c’è qualcosa nel nostro sistema di vita, che “produce” sempre più individui scontenti dell’esistenza, non solo della loro esistenza particolare, ma dell’esistenza in generale; di persone le quali ritengono che l’esistenza non sia affatto un bene e che guardano alla vita come a un pesante fardello, che sarebbe meglio deporre alla prima occasione, anzi, che sarebbe stato meglio non caricarsi mai sulle spalle. Infatti, all’origine del crollo demografico della nostra società vi è anche la diffusa convinzione che mettere al mondo dei bambini sia una responsabilità troppo grande, non per i genitori – così, almeno, si sente dire – ma proprio per i bambini stessi: che non è giusto, cioè, scaraventare i nascituri “innocenti” in un luogo così brutto e malefico come il mondo in cui viviamo. L’atto di mettere al mondo una prole, nella nostra società, è divenuto, così, agli occhi di molte persone, un atto d’irresponsabilità e di egoismo, laddove, fino a un paio di generazioni fa, e cioè in una società sana (= naturalmente orientata verso la vita), esso era considerato come l’atto supremo di responsabilità e di amore verso le generazioni future.
Tornare a Dio per poter amare la vita

di Francesco Lamendola
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Più falsi diritti per pochi, meno veri diritti per tanti


Well done, girls!” Avreste mai immaginato che dire “Ben fatto, ragazze,” costasse la sospensione e mettesse a rischio il posto di un insegnante per averla pronunciata in classe? Ecco, non è fiction, è realtà. Il fatto è accaduto in Inghilterra nella scuola Oxfordshire al povero professor Joshua Sutcliffe, ventisettenne docente di matematica, colpevole di essersi rivolto alle proprie studentesse senza considerare che tra di loro ce n’era una affetta da disforia di genere, cromosomi femminili, vagina, utero, ovaie, caratteri sessuali secondari femminili, ma che si percepisce maschio.
Fatto notare l'”errore” dall’interessata, il professore Sutcliffe si è immediatamente scusato, ma ciò non è bastato, perché il margine di tolleranza per chi viola le regole imposte dal P.U.D., il pensiero unico dominante, è pari a zero. La madre ha infatti inoltrato formale reclamo da cui è scaturito il provvedimento disciplinare per “misgendering”. “Un’esagerazione”, così l’ha definita un giovane collega. Davvero si tratta di un’esagerazione, cioè un’estremizzazione di un’idea giusta? O non è forse la conseguenza logica di un’idea sbagliata?
Come scrive Eric Metaxas, “Le idee hanno conseguenze che portano lontano, ed uno deve essere molto attento a ciò che consente venga alloggiato nel proprio cervello“. Dunque, qual’è l’idea di base che è stata alloggiata nello slot cerebrale di molti e che sembra avere trovato un angolino anche in quello del mio giovane collega? È il principio che l’identità personale non è determinata dalla realtà, ma dalla percezione soggettiva; o meglio ancora, secondo il linguaggio inaugurato dalla filosofa lesbica Judith Butler, è la percezione soggettiva che crea performativamente la realtà.
Avere attribuito alla ragazza affetta da disforia di genere il pronome femminile, quando invece ella si percepisce maschio, costituisce un’offensiva violazione della propria identità personale. L’offesa consisterebbe nella dimostrazione pubblica da parte del professore di non credere alla realtà affermata dalla studentessa. Ora, qualcuno sa dire perché questo principio di totale indifferenza rispetto alla materia e al reale, a ciò che posso vedere, toccare, odorare, gustare, a ciò che esiste e rimane cubico, un prisma a 6 facce uguali, anche se il mio cristallino malato me lo fa vedere sferico, dovrebbe rimanere limitato all’identità sessuale? Perché non dovrebbe valere per l’età e dunque consentire l’accesso gratuito nei musei al cinquantenne che si sente ancora un fanciullino, o la pensione se si sente un vecchio d’ottanta anni? Perché non dovrebbe valere per la razza di Rachel Anne Dolezal, accusata di frode per essersi spacciata di colore, quando, pur essendo di razza caucasica, è cresciuta con 4 fratellini adottivi di colore e preferisce vivere come donna di colore? Ammesso che il professor Sutcliffe venga reintegrato come docente di matematica, come farà a contestare errori nell’elaborato di qualsiasi suo studente che percepisca il compito come perfetto se ha dovuto accettare il principio che non la realtàgenera la percezione, ma la percezione genera la realtà? Perché 5 non è uguale a 7, ma la vagina deve essere uguale al pene?
Giorni fa ho scritto del ministro Fedeli, al centro di polemiche per non essere laureata. Ma non dovremmo tutti autodenunciarci per “misgraduation” (graduation è il termine inglese che indica la laurea) se da parte dell’interessata ci fosse la percezione di essere laureata? Va bene, facciamo che per un attimo ci lasciamo impiantare il chip del gender che gli addetti indicano con l’appellativo “queer” (strano). Qualcuno sa dire perchéla percezione del professor Sutcliffe dovrebbe valere di meno di quella della studentessa? Perché il docente dovrebbe essere obbligato ad auto-ingannarsi ed auto-offendersi? Dov’èil “più diritti per tutti” con cui ci hanno riempito la testa? La realtà è assai diversa ed è la seguente: “Più falsi diritti per pochi, meno veri diritti per tanti“.
E noi in Italia siamo lontani da questi approdi? Niente affatto. La Corte Costituzionale nella recente sentenza n.180 del 2017, ha identificato il principio necessario affinché il giudice ordini la “correzione” anagrafica in “un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata; percorso che corrobora e rafforza l’intento così manifestato”. Per i giudici del palazzo della Consulta “va escluso che il solo elemento volontaristico possa rivestire prioritario o esclusivo rilievo ai fini dell’accertamento della transizione”. Tuttavia a ben vedere si tratta di un paletto meno solido dell’incisivo di latte di un bambino di 5 anni. Anche ammettendo di riuscire nella titanica impresa di distinguerli, perché la sincera percezione dovrebbe essere pubblicamente riconosciuta e il sincero desiderio no? E se un giorno la persona dovesse ripensarci?
A questo mondo di certo, come si dice, c’è solo la morte e le tasse. Fatto sta che anche in Italia persone con il pene possono fare la doccia accanto a signore, ragazzine e bambine con il timbro della legge 164 del 1982 che le ha dichiarate donne.
Quella legge ebbe come promotore il deputato radicale Francesco De Cataldo. Tutti e solo radicali erano gli altri firmatari del progetto: Maria Adelaide Aglietta, Aldo Ajello, Pio Baldelli, Marco Boato, Emma Bonino, Roberto Cicciomessere, Marcello Crivellini, Adele Faccio, l’ex suora delle Minime Oblate Maria Luisa Galli (ora ritiratasi a vita monastica sul Lago d’Orta con un nuovo nome religioso e una nuova vita), Gianluigi Melega, Mauro Mellini, Domenico Pinto, Francesco Roccella, Leonardo Sciascia, Massimo Teodori e Alessandro Tessari, oltre al guru e dominus del partito Pannella. L’intero stato maggiore del partito del divorzio e dell’aborto presenta un disegno di legge che sancisce il principio che con un po’ di ormoni, tagliando il pene a chi ce l’ha o facendo un salsicciotto con un muscolo dell’avambraccio a chi il pene non c’è l’ha, si diventa maschi e femmine, e il mondo cattolico presente in parlamento che fece? Lo approvò senza alcun dissenso. Nella seduta del 1 aprile 1982 la quarta commissione della Camera votò all’unanimità il testo; su 24 votanti non ci fu nessun voto contrario né astenuto. I democristiani Bianco, Carta, Casini, De Cinque, Fontana, Garavaglia, Gitti, Mora, Pennacchini, Russo, Sabbatini, Speranza, ed il missino Trantino furono tutti d’accordo, la teoria del gender era legge, con gli immancabili e futili paletti e l’altrettanto immancabile vacua e miope approvazione dei politici cattolici.
Articolo comparso sul quotidiano La verità

Belli Teologo?


Molti pensano che Giuseppe Giocahino Belli (1791-1863) sia semplicemente un poeta che appartiene a Roma e che ha poco senso al di fuori della città. Sarebbe come rinchiudere Dante a Firenze o Tagore in India. Attraverso il linguaggio che gli è proprio, questi poeti parlano all'umanità, pur restando profondamente "locali".

E Belli era profondamente romano, non solo, era profondissimo osservatore del popolo semplice romano al quale, con la sua opera, edificato un monumento. Infatti proprio così diceva il poeta introducendo i suoi sonetti: "Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che è oggi la plebe di Roma". Ma in questo monumento abbiamo anche una vera "teologia del popolo", cioè possiamo vedere un sensus catholicus che, spesso nascosto fra storpiature e fraintendimenti, è comunque presente nel profondo delle persone semplici.

Ed egli diede il meglio di sé proprio in questi sonetti in lingua romanesca. Quelli in lingua italiana, come ci dice la voce a lui dedicata dalla Treccani, non reggono al confronto: "Di evidente derivazione petrarchesca, o meglio filtrati attraverso la mediazione dei lirici cinquecenteschi, raziocinanti e discorsivi, questi sonetti in lingua risultano alla lettura stucchevoli e monotoni, benché tra stanche ripetizioni e immagini d'accatto non manchino scenette di sapore realistico che si ricollegano alla costante tendenza del Belli a rappresentare le cose viste". Sempre alla voce "Belli" della Treccani, curata da Giovanni Orioli, così invece si dice della sua produzione romanesca: "L'ambiente dei più bassi strati sociali, con il parlare sboccato, le miserie morali e materiali, i bisogni elementari, l'ignoranza, la superstizione, attrae il poeta perché rappresenta l'antitesi netta di quello in cui egli vive. Lo infastidiscono le ipocrisie e i falsi rapporti sociali, mentre la simpatia va tutta al mondo primitivo della plebe, sebbene non ne nasconda i difetti. Il mondo del volgo romano sembra come immerso in un'aura d'incantesimo magico, in attesa della rovina imminente. Lo sfondo favoloso creato dall'immaginazione popolare, la presenza e l'angoscia della morte e del mistero che ci circonda, sono motivi romantici che il Belli fa suoi perché congeniali al suo temperamento. Dietro la descrizione d'una società arida ed egoista, e quella dei vizi e delle colpe dell'uomo, affiora in questa poesia una decisa esigenza moralistica: l'aggressivo sarcasmo, la rivolta aperta contro la finzione, l'inattesa affermazione di principi morali, la denuncia della menzogna che pare regolare la vita terrena, ne sono gli indizi. Nel poema romanesco sono sfiorati tutti i motivi e le tonalità, dalla elementare comicità schietta e spontanea, dalla satira carica di fiele, dall'invettiva amara contro persone e istituzioni, alla risata sfrenata, al sarcasmo cupo, al dramma e alla elegia, infine alla rappresentazione trepida e insolitamente raccolta. Giustamente la critica più recente ha additato nel Belli uno dei maggiori poeti dell'Ottocento europeo, precorritore persino di fermenti e idee che troveranno una soluzione artistica nella seconda metà del secolo". Quindi varrà la pena tuffarsi nella produzione del nostro con occhio a questa "teologia del popolo romano" per riscoprire, per qualcuno scoprire, la voce di questo grande poeta. 
di Aruelio Porfiri
http://www.campariedemaistre.com/2017/11/belli-teologo.html

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