Si dice: un uomo di Dio. Certo: ma anche il monaco lo è così come la suora è una donna di Dio. Che cosa distingue il prete dal religioso? Riportiamo qui una riflessione di Antonio Cunial già vescovo di Vittorio Veneto
di Francesco Lamendola
Chi è il prete? Cosa attendersi da lui? Intendiamo: che cosa ci si può aspettare legittimamente?
Cominciamo da quello che il prete non è. Non è un sociologo, anzitutto: il suo compito non è quello di analizzare i fatti sociali o di offrire spiegazioni di carattere generale, anche se è ovvio che possiede una certa pratica, una certa esperienza in materia. Non è un sindacalista o un consulente del lavoro: non è affar suo difendere il salario minimo o il posto di lavoro dei suoi parrocchiani, per quanto sia logico e naturale che si senta partecipe dei loro problemi e che soffra con loro se versano nelle angustie. Non è un agitatore politico, tanto è vero che, per fare politica, ha bisogno di ottenere una speciale dispensa; e, anche se vi sono stati dei politici illustri che erano anche sacerdoti, come don Sturzo, resta il fatto che la politica non è, non può essere e non deve essere il normale campo d’azione del sacerdote; e ciò per una ragione ovvia: il prete è al servizio di tutti e non di alcuni, ma, se prende una esplicita posizione politica, inevitabilmente si identifica con quelli della sua parte e si separa dagli altri. Non è neppure uno psicologo: anche se si trova a dare consigli, qualora richiesto, e anche se i bisogni e i malesseri della mente non sono del tutto separabili da quelli dell’anima, si tratta pur sempre di due sfere distinte e di due prospettive differenti, l’una immanente, l’altra trascendente. Infine, va detto con estrema chiarezza che il prete non è il surrogato di alcuna figura della realtà profana: non può essere visto come un padre per l’orfano, tanto meno come un (quasi) marito per la vedova, e sia pure in senso spirituale; né come un assistente sociale per il povero o l’immigrato; e neppure, a maggior ragione, come un terapeuta o uno psichiatra per il depresso, per l’alcolista o per il tossicodipendente. Per ciascuno di costoro può essere un valido interlocutore, una specie di amico o di fratello maggiore, però evitando qualsiasi confusione di ruoli. Per tutte le problematiche specifiche di tipo puramente umano, ci sono i singoli specialisti: il prete non è chiamato a fare le loro veci, a colmare la loro assenza. Non può improvvisarsi tuttologo; e, per quanto bene intenzionato, deve stare attento a non provocare guai, cosa che accadrebbe se prendesse troppo sul serio la sua parte, in ambiti ove non ha una vera competenza.
Ma che cos’è, allora, un prete? Si dice: un uomo di Dio. Certo: ma anche il monaco lo è; così come la suora è una donna di Dio. Che cosa distingue il prete dal religioso? Il fatto di vivere nel mondo, immerso nella realtà del mondo e prendendosi cura di una parrocchia. Attenzione, perché già qui potrebbe insorgere un pericolosissimo equivoco – e, di fatto, l’equivoco si concretizza: egli è nel mondo, ma non è del mondo; esattamente come qualunque cristiano. Non appartiene al mondo, ma a Dio: è Dio che lo ha chiamato e lo ha mandato nel mondo. La sua vocazione consiste in questo: andare nel mondo a predicare il Vangelo di Gesù Cristo.Vi sono dei preti che si credono indispensabili nelle cose del mondo; che si caricano di un senso esagerato di responsabilità per tutto ciò che riguarda le problematiche terrene: siano esse sociali, politiche, psicologiche, e perfino economiche. Vi sono preti che, per una viscerale tendenza al buonismo, magari con forti coloriture ideologiche, cadono nel ricatto dei parassiti di professione: persone che non hanno voglia di lavorare e che vanno continuamente a bussare alla loro porta, lamentando di dover sostenere spese mediche o di altro genere, di avere mogli e figli malati, bisognosi, disperati. Ma il buonismo non è la bontà: è la sua versione sciocca e sbagliata. Il prete è solidale coi poveri, ma non ha affatto il dovere di mantenerli tutti quanti in senso materiale. Non è affar suo. Certo, è affar suo intervenire, se qualcuno sta morendo di fame sotto i suoi occhi; ma non è affar suoi raddrizzare tutte le storture e le ingiustizie sociali, né assicurare il pane quotidiano a un numero illimitato di bisognosi, veri e, non di rado, anche falsi, i quali approfittano della sua disponibilità. Se il buon Samaritano si fosse accorto che l’uomo da lui soccorso era d’accordo coi briganti e stava recitando una commedia per scroccare la sua beneficenza (e la fantasia dei parassiti sociali è pressoché inesauribile, come lo è la loro bravura di commedianti nell’impietosire il prossimo), non solo non avrebbe pagato il conto della locanda, ma, crediamo, avrebbe preso un grosso bastone e avrebbe insegnato a quel miserabile che non è cosa da uomini, cioè da figli di Dio, vivere facendo la vittima di professione. Dio non ha creato l’uomo perché si abbassi al livello di un commediante; e non gli ha dato l’intelligenza perché l’adoperi allo scopo di far lavorare gli altri al suo posto, facendosi mantenere gratis.
E ora vediamo che cosa il prete è. Vi abbiamo appena accennato: è un chiamato; un chiamato da Dio. È un uomo che ha avuto una vocazione speciale, preziosissima, insostituibile: essere discepolo attivo di Cristo, diffondere il Vangelo, amministrare la Penitenza e l’Eucarestia: cioè assolvere (o non assolvere) e comunicare con il Corpo e il Sangue di Cristo i fratelli credenti. Non è un uomo come gli altri; la sua non è una professione come le altre (e che pena, vedere dei preti che cercano di mimetizzarsi nella folla, evitando di vestirsi da prete); è un unto del Signore, un alter Christus, quando è nell’esercizio solenne delle sue funzioni. Come uomo, è una povera creatura peccatrice, come tutte le altre; ma come sacerdote consacrato, è un altro Cristo, con l’immenso potere di dare o negare la riconciliazione con Dio, e di celebrare il rinnovarsi del Sacrificio di Gesù per tutti gli uomini. Il suo ministero è cosa essenziale alla salute delle anime: anche se molti lo odiano, è certo che, senza di lui, la società sarebbe perduta. Lasciate gli uomini per vent’anni senza un prete, diceva il santo Curato d’Ars, e si metteranno ad adorare le bestie. Perciò, il prete non deve avere il minimo complesso d’inferiorità nei confronti del mondo. Non deve pensare che, siccome non lavora come gli altri uomini, né deve mantenere una famiglia, né occuparsi di una moglie e dei figli, vale meno degli altri uomini; non deve sentirsi in colpa per il fatto di avere responsabilità diverse da quelle dei comuni fedeli. Con tutto il rispetto dovuto agli sposi, perché anche il matrimonio è un sacramento, resta il fatto che la sua vocazione è superiore a quella del matrimonio: lo sposo si vota al bene del coniuge e della sua famiglia; il prete si vota al bene di tutti. Siamo convinti che, dietro il fenomeno dei preti-operai, ci fosse, almeno in alcuni casi, anche un certo senso di colpa nei confronti della condizione operaia. Ora, con tutto il rispetto dovuto a quella scelta, è certo che il prete, per poter assistere spiritualmente i suoi fratelli, non deve, per forza, andare a lavorare in fabbrica, così come non è necessario che vada in miniera, sui pescherecci, nei cantieri edili o nelle aziende agricole: perché mai dovrebbe farlo? Per essere più vicino ai lavoratori? Ma il suo compito non è quello di correre dietro ai cristiani, bensì di costituire, per essi, un costante punto di riferimento, non come uomo, come singolo individuo, ma come alter Chrtistus, cioè, appunto, come sacerdote. E il luogo da dove può abbracciare, nel modo più idoneo, tutti i fedeli della parrocchia, è la chiesa: non la fabbrica, o la miniera, o la flotta peschereccia. Ma, si dirà, anche Gesù andava a cercare gli uomini nelle loro case, compresi i peccatori. Vero: andava nelle loro case, ma non si recava al lavoro nei loro vigneti, non andava a pascolare le loro greggi. Il che non lo faceva sentire in colpa, non lo induceva a sentirsi un privilegiato: semplicemente, per poter recare agli uomini il Vangelo, aveva bisogno della sua libertà di movimenti. In particolare, aveva l’assoluta necessità di poter disporre del tempo per la preghiera: e, anche se lo rubava sovente al sonno, mentre gli altri dormivano, quello della notte non gli era sufficiente. Gesù pregava moltissimo e raccomandava ai suoi discepoli di fare altrettanto, perché solo con la preghiera il cristiano rimane intimamente legato a Dio Padre: per il credente, la preghiera non è un lusso, ma una necessità vitale. È dalla preghiera che Gesù attingeva la forza, la serenità, il coraggio per fare sempre, pienamente, sino in fiondo, cioè sino alla morte di croce, la volontà del Padre. I preti che si occupano di mille cose, che si affaccendano in mille iniziative e attività, per quanto in se stesse lodevoli, ma non trovano il tempo di pregare, sono dei cattivi preti. Peggio: sono dei falsi preti; perché un prete che perde la connessione con Dio non è più un prete. Sarà (forse) un buon sociologo, psicologo, sindacalista, eccetera; ma non sarà mai un buon prete. È solo pregando che il prete riceve da Dio i doni soprannaturali che gli consentono di rispondere positivamente alla chiamata; senza la preghiera, egli viene sopraffatto dalla sua umana fragilità e, non di rado, cede alla tentazione della superbia. La forma più esecrabile di superbia è quella di cercare l’approvazione e l’ammirazione dei parrocchiani, attirando la loro attenzione sulla propria persona e annunciando il Vangelo secondo la propria interpretazione. Ma questo lo fanno, semmai, i pastori protestanti; e ciò perché non credono alla missione speciale del sacerdote (dottrina luterana del sacerdozio universale dei credenti) e perché negano al Magistero ecclesiastico la sola, retta interpretazione della Bibbia (dottrina luterana della libera interpretazione delle Scritture). Vero è che, da alcuni anni, si assiste a uno sconcertante fenomeno di protestantizzazione del clero e della Chiesa cattolica. Poco a poco, idee e pratiche protestanti sono passate nella liturgia, nella pastorale e perfino nella dottrina cattolica. La tendenza di certi preti a vedere l’Eucarestia come una sorta dicommemorazione dell’Ultima Cena, ad esempio, si configura come un vero e proprio cambiamento della dottrina, cioè, per chiamar le cose col loro nome, apostasia. Quei (cattivi) preti cattolici che invitano i fedeli a rivolgere meno devozioni ai Santi e alla Madonna, non parlano più del peccato e della Grazia, e presentano Gesù come un predicatore di giustizia puramente umana, stanno trascinando i fedeli nell’apostasia, cioè stanno tradendo atrocemente la loro divina vocazione.
Riportiamo qui una riflessione di Antonio Cunial (Possagno, 1915-Lourdes, 1982) - anche se non condividiamo tutto di essa, come l’accenno al Vaticano II e al Cardinale Suhard -, che fu vescovo di Vittorio Veneto dal 1970 alla morte (A. Cunial, Il prete: uomo di preghiera, ritiro spirituale ai sacerdoti, 12-13/09/ 1979, in: Una vita per la Chiesa, Vittorio Veneto, TIPSE, 1985, pp. 43-45):
CHI È IL PRETE? Quante volte in questi anni abbiamo sentito e letto tale domanda, in riferimento alla identità, all’essere e all’attività del prete. Le risposte, sappiamo, sono di fatto varie, da parte degli scrittori. Chi sottolinea un aspetto, chi un altro della realtà sacerdotale, riducendo il prete ad “uno come gli altri”. Noi troveremo la genuina figura e missione del prete nella parola di Dio, nella dottrina della Chiesa, nella vita dei pastori santi. Non prenderemo mai abbastanza in mano il testo del Concilio e dell’insegnamento pontificio a ben conoscere la identità del prete.
Sappiamo che il prete è stato inventato dall’Amore divino; è un chiamato, consacrato, mandato ad essere ministro e dispensatore dei divini misteri. Il prete è investito, come attraversato dal mistero di Cristo Sacerdote, che lo grande per responsabilità, lo rende padre nello spirito, pastore delle anime. Il prete “è come un dono concesso dall’alto, da Dio, e invocato dal basso, dall’angoscia degli uomini" (Card. E. Suhard). Il prete è “un uomo che tiene le veci di Dio, un uomo rivestito di tutti i poteri di Dio” (S. Curato d’Ars), a trasmettere l’azione di salvezza di Cristo, seguendone l’esempio, Lui che fu il perfetto religioso del Padre.
IL PRETE È PER IL SACRIFICIO. Partendo dal genuino fondamento della realtà sacerdotale, alla domanda: chi è il prete?, conviene pure la risposta: è un uomo di preghiera. S. Agostino, in materia, conclude: “Il sacerdote è per il sacrificio”; l’Eucarestia è l’atto più alto e perfetto di culto e di amore al Padre. Non sempre il prete è compreso e accettato per quello che il Signore lo ha stabilito. Il Card. Suhard, ancora, osservò: “Fino alla fine del mondo il prete sarà il più amato e il più odiato degli uomini, il più incarnato e il più trascendente, il fratello più vicino a noi e l’unico avversario”. Noi però vogliamo essere veri preti, quindi anche uomini di preghiera. Dobbiamo farci particolarmente attenti su questo punto; ci richiama allo scopo Giovanni Paolo II nella Lettera di Giovedì Santo scorso. Afferma il papa: “Forse negli ultimi anni – almeno in certi ambienti - si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’identità del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo ecc., ed al contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per confermare l’identità sacerdotale. È la preghiera che indicalo stole essenziale del sacerdozio; senza di esso questo stile si deforma. La preghiera ci aiuta a ritrovare sempre la luce, che ci ha condotti fin dall’inizio della nostra vocazione sacerdotale, e che incessantemente ci conduce, anche se talvolta sembra perdersi nel buio. La preghiera ci permette di convertirci continuamente, di rimanere nello stato di tensione costante verso Dio, che è indispensabile se vogliamo condurre gli altri a Lui. La preghiera ci aiuta a credere, a sperare, e ad amare, anche quando la nostra debolezza umana ci ostacola” (Novo Incipiente, 10).
Abbiamo bisogno di preti autentici, sullo stampo di Gesù, che trasmettono l’Amore di Gesù, del quale gli uomini hanno fame e sete. Preti ricolmi dello spirito del Signore, e capaci di spendersi nella volontà del Padre per i fratelli. Preti, se si vuole, anche dotti, capaci di fare schemi e rilievi; ma soprattutto preti che abbiano per recapito il Tabernacolo, che sappiano adorare, impetrare, espiare, insomma preti impastati di preghiera.
Chi è il prete?
di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio
Già pubblicato il 08 Luglio 2016
CHE COS'E' LA SANTA MESSA?
Siamo sicuri che i cattolici della odierna generazione cresciuti a Nutella e teologia della liberazione, istruiti da un clero modernista, sappiano esattamente che cos’è il rito centrale, essenziale della loro religione ?
di Francesco Lamendola
Siamo sicuri che i cattolici, i cattolici della odierna generazione, cresciuti a Nutella e teologia della liberazione, e, spesso, formati da un catechismo svuotato e banale, da una Comunione e una Cresima quali pretesti per un bagno di consumismo, e istruiti da un clero modernista che parla sempre di diritti, di libertà, di centralità dell’uomo, poco di Dio e nulla del peccato, e nulla di nulla della vita eterna, dell’Inferno e del Paradiso; siamo sicuri che costoro sappiano esattamente che cos’è il rito centrale, essenziale, indispensabile, della loro religione e della Chiesa cui appartengono da che sono stati battezzati, ossia la santa Messa?
Ce lo domandiamo perché abbiamo visto e udito con i nostri occhi e con i nostri orecchi, in certe parrocchie, celebrare delle Messe in cui il sacerdote si prende la libertà di parlar male della sua stessa Chiesa, di spargere a piene mani dubbi teologici tra i fedeli, di magnificare Lutero, Zwingli e Calvino, di portare ad esempio il giudaismo e l’islamismo, e riservare amare critiche solo ai cattolici, alla loro grettezza, alla loro iniquità, alla loro ipocrisia. Ce lo chiediamo perché, in certe chiese d’Italia, e di altri Paesi, vi sono dei preti che mettono in scena uno spettacolo di burattini, per render le cose più attraenti e più simpatiche: non ha forse detto Gesù Cristo (o Dio, fino a che punto si può travisare il Vangelo, e in perfetta mala fede!) che, se non si torna ad essere semplici come dei bambini, non si entrerà nel regno dei Cieli? E ce lo domandiamo perché, in altre chiese, il prete ha pensato bene di offrire ai fedeli che si vi recano, l’aperitivo, anzi, l’aperimessa, concludendo il tutto con balli e rinfreschi da spiaggia.
Se Gesù Cristo, rivolto ai suoi apostoli, domandò: E voi, chi dite che io sia?; oggi una persona qualsiasi, purché intellettualmente onesta, potrebbe domandare ai cattolici, o sedicenti tali: E voi, cosa credete che sia la santa Messa?; e non è detto che ne verrebbero fuori delle risposte molto chiare e ortodosse. Oggi il catechismo non si fa più come una volta, con parole chiare e precise, con concetti semplici, ma inequivocabili, come sta scritto nel Vangelo: Sia il vostro parlare sì, sì, e no, no. Quando noi eravamo bambini, c’era il Catechismo di san Pio X, in 100 domande e risposte, che i bambini imparavano a memoria; e che, al numero 70, recitava: Che cos’è la santa Messa? La santa Messa è il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo che sotto le specie del pane e del vino, si offre dal sacerdote a Dio sull’altare, in memoria e rinnovazione del sacrificio della Croce. Allora, però, il contesto era leggermente diverso; e questo, i giovani di oggi, non lo sanno, o lo sanno in maniera estremamente vaga, per sentito dire, e, quel che è assai peggio, in maniera vergognosamente travisata, quasi fossero stati tempi bui e superstiziosi, dopo i quali, per fortuna loro e di tutti quanti, è sorto il sole radioso del Concilio Vaticano II.
Pensate, ragazzi, che allora il sacerdote officiava la santa Messa stando rivolto verso l’altare del Santissimo; e che tale altare era posto verso il fondo del presbiterio, e non orientato verso i fedeli, ma verso l’abside: sicché, incredibile dictu, tutta la sacra cerimonia era indirizzata idealmente verso Dio e non a celebrazione dell’assemblea dei fedeli. Se poi si aggiunge che era celebrata in latino, e che ciò proseguì fino al 1969, quando tale lingua venne abbandonata, pur senza che alcun decreto ne vietasse o ne sconsigliasse l’uso, la cosa sembrerà ancora più strana. Ma che dire del fatto che il sacerdote, celebrandola, si sforzava di trasmettere ai fedeli una intensa spiritualità, e che a ciò concorrevano la musica sacra - musica d’organo - e il canto - gregoriano -, nonché i paramenti, la solennità dell’atmosfera, il fumo e l’odore dell’incenso, la compunzione dei cappellani e fin dell’ultimo chierichetto, mentre le donne si coprivano i capelli con un velo e gli uomini, anche d’estate, non si presentavano in bermuda e canottiera, ma sobriamente vestiti a festa? E se qualcuno vi dicesse, ragazzi, che il prete non poteva essere un omosessuale notorio e dichiarato, perché, in tal caso, sarebbe stato espulso dal seminario e non sarebbe mai giunto a predicare dal pulpito, né ad amministrare la santa Eucarestia, anzi, nemmeno ad essere ordinato prete, come invece oggi fanno certi arcivescovi, come quello di Santiago, in Spagna, monsignor Juan Barrio? Eh, so bene che questa non riuscireste a mandarla giù. Figuriamoci: con tutto quel che avete sentito dire a proposito del brutto vizio, e fra poco anche reato, di omofobia; e con tutte le volte che avete sentito predicare dal pulpito, anche dalle più alte autorità della Chiesa cattolica, che quest’ultima deve essere accogliente, clemente e non giudicante: come potreste mai credere che la Chiesa, in tempi relativamente recenti (neanche due generazioni or sono) fosse così omofoba e così poco cristiana? Scommetteremmo che riuscireste a mandar giù più facilmente il fatto che gli eretici, nel Medioevo, venivano mandati al rogo, che non l’esclusione degli omosessuali dall’accesso all’ordine sacro e alla possibilità di dir la santa Messa e celebrare il Sacrificio eucaristico di Gesù Cristo.
Eppure, ci duole dovervelo dire, quel che credete di sapere sulla santa Messa, alla luce della educazione religiosa aberrante che avete ricevuto, da indegni ministri e da altri adulti irresponsabili, e, comunque, da persone che si spacciano per cattoliche, senza esserlo affatto, è, in buona parte falso o inesatto; la Messa non è quella cosa lì, che oggi va di moda in certe chiese (non in tutte, grazie a Dio): non è quella dei burattini, né quella dell’aperitivo e del ballo, e nemmeno quella dei preti omosessuali. Niente affatto; è tutta un’altra cosa. E, più in generale, dovete sapere innanzitutto questo: che la santa Messa non è una cerimonia incentrata sui fedeli; che non ha per protagonista l’assemblea dei fedeli; che non è, in alcun modo, una celebrazione dell’uomo; ma è, al contrario, una celebrazione e un rinnovarsi del Sacrificio di Cristo per gli uomini, nella forma della santa Eucarestia. Ci sarebbe la santa Messa anche dove il prete dovesse officiarla da solo, dato che non c’è più nessuno, in certe parrocchie e in certe comunità, che abbia voglia di recarvisi; perché là dove il sacerdote spezza il pane e versa il vino, dopo averli benedetti e, invocando la santissima Trinità, reso possibile la loro transustanziazione nel Corpo e nel Sangue di Cristo, lì c’è la Messa, lì c’è Dio. Viceversa, se pure una chiesa fosse affollata da mille o duemila persone, tutte eleganti e venute apposta per sfoggiare pellicce e stivali di cuoio, perle e orecchini di pietre preziose, e tre o quattro vescovi o sacerdoti celebrassero insieme una messa fastosa, vi sarebbe, sì, comunque, la presenza di Cristo nel Sacrificio eucaristico, ma non vi sarebbe il vero spirito evangelico, bensì una sua penosa contraffazione. Di conseguenza, chi ardisse amministrare le sacre Specie, pur avendo l’animo impuro, e chi ardisse accostarsi alla santa Comunione senza essersi debitamente confessato e pentito dei suoi peccati, commetterebbe un sacrilegio, e mangerebbe non già il Corpo di Cristo, bensì la sua stessa condanna e la sua stessa dannazione.
E adesso, dopo aver cercato di chiarire cosa la santa Messa non è, proviamo a dire positivamente cosa essa è. Ci serviamo, per fare questo, di un Messale antecedente al Concilio Vaticano II; non perché, dopo quell’evento, non si siano più stampati messali perfettamente cattolici, o perché tutto ciò che è uscito dalla stagione posteriore al Concilio sia da guardarsi con sospetto o con disprezzo, ma perché, innegabilmente, la chiarezza teologica e didattica che pervadeva la Chiesa fino alla vigilia degli anni Sessanta del ‘900 appare esemplare, a fronte del variegato e confuso panorama odierno, ove a opere, documenti e ministri veramente esemplari, si affiancano, nella massima confusione, opere, documenti e ministri dalle idee confuse o, peggio, dalle idee non cattoliche: idee moderniste, per esempio, o neomoderniste. E a quei giovani che non lo sapessero, giova ricordare che il modernismo non è, come taluno, interessato, vorrebbe far credere, specialmente a coloro i quali son poco infornati sulla recente storia della Chiesa, una versione aggiornata, e, ovviamente, migliorata e più simpatica del cattolicesimo, bensì la sua contraffazione e la sua radicale negazione: tanto è vero che il santo papa Pio X, nel 1907, con l’enciclica Pascendi Dominci gregis e con il decreto Lamentabili Sane Exitu, definì il modernismo come “la sintesi di tutte le eresie”, e comminò la scomunica per i suoi aderenti.
Leggiamo, dunque, nel Messale Romano Quotidiano (a cura di Giacomo Alberione (Alba, Edizioni Paoline, 1935, pp. 8-10):
La Messa è il sacrificio della nuova Legge, in cui, sotto le specie del pan e del vino, sono offerti pel ministero del sacerdote il Corpo e il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo è il sacrificio del Calvario rinnovato, non colla morte reale e cruenta, ma colla morte mistica, che si verifica per la separazione della sacre specie e, cioè, per la separazione del Corpo e del Sangue di Gesù. Il Sacerdote è lo stesso che sul Calvario, Cristo, il quale, invece di offrirsi da sé, si offre per mezzo dei suoi Ministri; la vittima è la stessa, Gesù Cristo, misticamente svenato dalla consacrazione, che divide il sangue dal suo corpo. Se il sacrificio del Calvario compì la Redenzione, quello dell’Altare ne applica i frutti; e può dirsi “la distribuzione e applicazione, a noi, dei meriti di Cristo, e la nostra partecipazione abituale alla sua Redenzione”. La Messa è l’atto più sublime della Religione ed ottiene mirabilmente i suoi fini: di adorazione, ringraziamento, impetrazione e propiziazione. Infatti la Messa è sacrificio latreutico, perché riconosce il sommo ed universale dominio di Dio sulle creature, colla mistica morte di Cristo; è eucaristico, perché ringrazia Dio, per mezzo di Gesù, Sommo sacerdote, dei benefici che ci ha concessi; è impetratorio, perché Gesù, colla voce del suo sangue ci ottiene favori e grazie; è propiziatorio, morendo misticamente, placa la divina giustizia. La Messa è pure un sacramento, e, cioè, una cosa sacra, un banchetto spirituale istituito da Cristo nell’ultima Cena, e che esige la Comunione. Il Ministro è il sacerdote, ma, uniti qui e per mezzo di lui, anche gli assistenti offrono il Sacrificio; quindi logico che vi prendano parte anche colla S. Comunione. Il miglior modo per fare la preparazione e il ringraziamento alla S. Comunione è la Messa, ascoltata devotamente. […]
La Messa rinnova l’ultima cena del Signore e, quindi, il suo primitivi rito non fece che riprodurre l’ultima cena, che finì col sacrificio della Messa, celebrato, la prima volta, da Gesù avanti di offrirlo cruento sul Calvario. La Messa dei primi cristiani agape fraterna, che alternava le preghiere, le letture e le spiegazioni dei libri santi, e poi col santo Sacrificio e la santa Comunione. L’agape fraterna, innestandosi suggi usi della Sinagoga, cominciava sul far della sera del sabato e si protraeva nella notte; qualche volte le preghiere, le letture e le istruzioni si protraevano fino all’albeggiare della domenica, dando così origine alla Mesa domenicale, che terminava l’agape notturna. Così la domenica fu la prima festa cristiana santificata dalla Messa. […]
Nei primi tre secoli la Messa si celebrava di notte; all’epoca della pace, invece, di giorno; ora si può celebrare dall’aurora a mezzodì…
Colpisce anche quest’ultima circostanza, ossia il fatto che la Messa, fino al principio degli anni Settanta del ‘900, si svolgeva esclusivamente di domenica; è stato solo il 16 giugno del 1972 che, avvalendosi di una facoltà concessa da Paolo VI, i vescovi italiani hanno acconsentito che la Messa domenicale si potesse anticipare alla sera del giorno precedente, e ciò per gravi motivi di lavoro o altro, che avrebbero reso difficile la partecipazione alla Messa della domenica. Si raccomandava, però, che tale scelta fosse dovuta a circostanze realmente eccezionali e cogenti; mentre è accaduto che, quasi subito, la Messa del sabato sera ha semplicemente sostituito quella domenicale, e ciò per lasciar libere le famiglie e le persone di dedicarsi tutto il giorno di domenica allo svago e al divertimento. Insomma, è accaduta la stessa cosa di quando il Concilio Vaticano II decise di permettere che, ove le circostanze lo avessero reso opportuno, si potesse sostituire la Messa in latino con quella nelle lingue nazionali, e invece la Messa in latino scomparve dall’oggi al domani, e quasi tutte le chiese e i sacerdoti presero a celebrare la Messa unicamente nelle lingue nazionali.
Lo slittamento all’indietro della Messa domenicale è stato solo uno dei segnali che indicavano, da un lato, la graduale erosione dell’autentico sentimento di devozione religiosa, di quel timore e tremore di Dio di cui parlava Kierkegaard, per fare posto a un atteggiamento molto più pratico e disinvolto nei confronti della vita soprannaturale; dall’altro, confermava le tendenze in atto a partire dalla svolta antropologica in teologia, per cui i cristiani odierni non vedono più la loro fede come uno slancio dell’anima verso Dio, nel quale la Grazia viene liberamente donata all’uomo dal Signore, ma come un atto della volontà dell’uomo per stabilire una relazione con Dio, abbassando, per così dire, lo statuto ontologico di Lui al livello dell’umano, o molto vicino ad esso; e par quasi che sia l’uomo a conquistarsi il “diritto” alla vita soprannaturale, dato che sempre meno si parla dell’umiltà con cui l’uomo dovrebbe porsi nel chiedere a Dio di conoscerlo, amarlo e servirlo nel giusto modo, che unicamente Lui può ispirare all’uomo.Solo che questo non è più il cattolicesimo...
Che cos’è la santa Messa?
di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio Già pubblicato il 18 Dicembre 2016
Perché il Tabernacolo non è più al centro? Te lo diciamo noi
La questione della posizione del
Tabernacolo non si pone tanto per le grandi chiese (cattedrali e
santuari) dove la collocazione laterale serve soprattutto a non farlo
smarrire nella grandezza del tempio, quanto si pone per le chiese di
medio-piccola grandezza.
C’è un senso in quello che sta avvenendo negli ultimi anni?
Pensiamo proprio di sì. Questo va trovato nei motivi che costituiscono l’essenza del pensiero post-conciliare. Uno su tutti: il voler considerare l’edificio liturgico più come realtà di comunione –come indubbiamente anche è- che come realtà di mistero.
Chiediamoci: l’edificio liturgico è “luogo” per una assemblea oppure “luogo” per una Presenza?
Anche da questa alternativa, o meglio,
anche da questo porre l’accento soprattutto sulla prima possibilità (la
chiesa come luogo per assemblea) scaturisce quello che si può definire perdita del senso del mistero e dell’incontro.
Perdita che –come è sotto gli occhi di
tutti- ha reso meno persuasiva la proposta cristiana. Tutte le ragioni
utilizzate per giustificare l’uso di porre a lato il Tabernacolo anche
se non vogliono diminuire l’atteggiamento di adorazione, ne minano la
ragion d’essere.
Diciamo subito che non esiste una sola ragion d’essere dell’adorazione, se ne potrebbero almeno individuare un paio: l’adorazione prossima e l’adorazione presente.
La prima (l’adorazione prossima)
è riscontrabile in tutte quelle spiritualità che posseggono almeno una
di queste due caratteristiche: riconoscimento dell’uomo come
non-creatura oppure riconoscimento dell’uomo come realtà totalmente
separata da Dio e quindi insanabile. In queste spiritualità l’adorazione
è prossima, in quanto non esisterebbero le condizioni per poter veramente adorare.
L’adorazione presente è, invece,
un tratto tipico del cattolicesimo, perché in questo manca tanto la
caratterizzazione panteistica, quanto quella protestantica di
demonizzazione del mondo. Nel cattolicesimo di certo la tensione
dell’attesa non è assente, ma è fondamentale la convinzione secondo cui
tutto ciò che attualmente è sperimentabile dall’uomo è già “luogo” di
una Presenza vera e salvifica del mistero del Verbo incarnato.
Ciò è della fede nella Presenza reale dell’Uomo-Dio nell’Eucaristia. La Chiesa è sì comunione dei figli di Dio, ma nella, con e per la Presenza reale di Cristo.
La centralità del Tabernacolo è la
centralità dell’Eucaristia, cioè della presenza reale, fisica, di Cristo
ancor oggi nella Chiesa.
La centralità del Tabernacolo ha lo scopo di rendere l’edificio liturgico non luogo per attendere e per ricordare, ma luogo per fare esperienza di una Presenza fisica.
Autore: C3S
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