ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

martedì 16 gennaio 2018

In chiesa non ci va più nessuno..

Corna glamour sulla bara: è la pastorale del diavolo

Nel dopo morte di Marina Ripa di Meana - “dopo morte” sostituisce i termini “funerali civili” o “esequie cristiane”, che non hanno avuto luogo -, al vedere le foto delle corna sulla bara ivi poste per volontà della defunta, ho provato una sensazione fortissima, frutto di contrasto tra due sensazioni contemporanee, proprio come capita nei libretti d’opera (ad es. «Di opposti affetti un vortice / già l’alma mia circonda»: Rossini, La donna del lago): un godimento estetico e un brivido di terrore generato dalla fede.
Il compiacimento estetico perché le due corna sulla bara mi sono sembrate belle ed eleganti, anche se trasgressive. Non erano ruvide, ma di velluto. Poi la bara era foderata di un drappo rosso e il contrasto del rosso con il nero, completato dal bordo oro, è canonico e classico come una cantata o una fuga di Bach. Infine le corna con una sorta di piumaggio sottostante animavano un po’ la bara quasi trasformandola da contenitore inerte a qualcosa di animato, a un animale misterioso e fantastico. Che genialata!
Già... l’animale misterioso e fantastico mi ha fatto emergere dalla memoria il quadro Il grande caprone di Francisco Goya († 1828), dove delle streghe in cerchio adorano un caprone eretto, le cui corna, al centro del quadro, sono ampie, ricurve e determinanti come quelle della bara e rimandano senza mezzi termini alle corna del demonio. E qui iniziava il “terrore della fede” percependo un rimando satanico - una presenza satanica? - su quella bara, una alleanza malvagia, una dannazione iniziata. Di più, c’era sulla bara come una sfida e una presa in giro al Dio cristiano della salvezza, che però, in chi ha un po’ di confidenza con le Scritture, evocava una terribile risposta di Dio: «Ride chi sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (Sal 2,4), perché a quanti hanno peccato «volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità» non resta che «una terribile attesa del giudizio» e, conciati così, «è terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (Eb 10,26-27.31). E allora il rosso del drappo, da piacevole contrasto cromatico, si trasformava nel segno di quella «vampa di fuoco che (dopo il giudizio) dovrà divorare i ribelli» (Eb 10,27). Come non rabbrividire?
Ma bisogna ragionare. Alla luce della fede, ma ragionare e distaccarsi dalle emozioni immediate. Per cui ecco alcune riflessioni, che danno per scontati i due precedenti interventi di B. Frigerio e di R. Puccetti. Qui ci si concentra non sul fine vita, ma sulla morte stessa e su come da Marina Ripa di Meana è stata gestita e spettacolarizzata l’uscita da questo mondo.
È urgente una precisazione di metodo: nonostante segni di equivoca tendenza della vita, della morte e del dopo morte di Marina Ripa di Meana, qui non voglio pronunciare un giudizio che compete solo a Dio, che conosce gli ultimi istanti, né intendo affermare che la de cuius è all’inferno o che abbia intrattenuto rapporti equivoci con il demonio; anzi, intendo pregare per lei e basta. Questo a livello strettamente personale.
Contemporaneamente però bisogna accettare che certe azioni esterne sono quelle che sono, a prescindere dall’intenzione di chi le compie. Soprattutto i simboli sono quelli che sono e parlano da soli e non sopportano, né per Marina Ripa di Meana né per altri, correzioni tipo: «Ma io in realtà non intendevo... ma io in realtà volevo dire che...». Per cui ciò che è successo va ben oltre il fatto personale e assume il valore di un modello di vita e di morte presente nella nostra società. Ed è a questo livello che ne scrivo. 
È stato un dopo morte all’insegna della soggettività trionfante, quasi ponendosi come un possibile modello. Alla morte dopo la “sedazione profonda” non sono seguite né esequie cristiane, né funerali civili. C’è stata sì la camera ardente con visite e dichiarazioni dei compagni di cordata, dopo di che la bara è stata portata direttamente al cimitero per la cremazione. È un dopo morte “fai da te come ti pare”, che cancella non solo le esequie cristiane, ma anche un funerale civile portatore di una tradizione sulla gestione ed elaborazione del lutto. Anche se, da un altro punto di vista, nel caso concreto è stato preferibile che sia successo così, evitando la sceneggiata di certi discorsi come ai funerali di Umberto Eco a Milano, quando Moni Ovadia impartì al defunto “una benedizione da non credente a non credente”!
È stato un dopo morte con un vuoto terribile di speranza per il silenzio di ogni riferimento a Gesù Cristo e alla vita eterna - coerente con l’immagine pubblica della defunta -, e per quell’unica certezza di “tornare alla terra” evocata nel video del testamento, citazione forse non avvertita di Gen 3,19, che, separata dalla restante storia salvifica, lascia l’uomo nella condanna e nella sconfitta. In realtà anche questo dopo morte è un modello di tanti funerali senza speranza perché la vita trascorre sempre di più senza Gesù Cristo.
Questo funerale - questi funerali - dovrebbe far prendere coscienza ai cristiani di quello che mancava e per contro della ricchezza che essi hanno a disposizione, come spiega il n. 1 delle Premesse del Rito delle Esequie: «Nelle esequie, la Chiesa prega che i suoi figli, incorporati per il Battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte alla vita e, debitamente purificati nell’anima, vengano accolti con i Santi e gli eletti nel cielo, mentre il corpo aspetta la beata speranza della venuta di Cristo e la risurrezione dei morti». Quanta consolazione nella comunità che prega, nella speranza della risurrezione che non annulla il ritorno alla terra ma lo inserisce in una più luminosa prospettiva, in una vita che non è completamente spenta ma trasformata: «Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata /vita mutatur, non tollitur» (Prefazio I Defunti)! Per cui, caro cristiano del XXI secolo, «Impara almeno in questo la santa superbia, renditi conto che sei in una condizione migliore di loro / Disce in hac parte superbiam sanctam, scito te illis esse meliorem» (San Gerolamo, Lettera XXII a Eustochio, n. 16).
Resta il segno oggettivamente diabolico delle corna. Ho troppa coscienza dell’intelligente furbizia del diavolo per concludere che è un segno di disperazione, di dannazione, di sofferenza eterna così percepito dall’interessata e dagli altri. Il demonio sa bene che un messaggio del genere sarebbe rifiutato da quasi tutti e segnerebbe la sua sconfitta. Il messaggio diabolico è invece passato sotto due aspetti gradevoli: una certa eleganza estetica ricordata all’inizio e una sfida ironica del tipo: “Si può tranquillamente scherzarci sopra, tanto il diavolo non fa male, anzi, tanto al di là non c’è niente!”. Se così è, si può ridere su quello che insegna la Chiesa e ai segni della salvezza sostituire sulla bara un ricordo/simbolo di una allegra trasgressione, monito per chi vive: fate lo stesso!
E forse altri funerali seguiranno con altre analoghe trovate ben diffuse dai media. È la pastorale del demonio, al quale in bel modo una cosa sola interessa nascondere sino al momento in cui non sarà più possibile tornare indietro: che «la via dei peccatori è ben lastricata, ma al suo termine c’è un baratro finale» (Sir 21,10).
Come spesso capita, perdendo il cristiano si compromette anche l’umano e assistiamo sempre di più a una banalizzazione della morte, a cominciare dal tipo di fotografie che si collocano al cimitero.
Qui però forse c’è anche una sottile responsabilità della pastorale e della riforma liturgica. Infatti tutti gli aspetti belli e consolanti della morte cristiana e soprattutto del dopo morte non sono un di più che migliora una situazione neutra o già positiva, ma sono la liberazione da una tragedia. La quale tragedia va messa in evidenza a fianco della consolazione di esserne in Gesù Cristo liberati. Il Rito delle esequieprecedente il Vaticano II (Rituale del 1952) evidenziava con efficacia i due poli con due famosi responsori ben in vista: «Libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda ecc. / Liberami, Signore, dalla morte eterna, in quel giorno tremendo», che esprimeva la possibile tragedia della morte, e poi la consolazione dell’altro responsorio: «Subvenite, Sancti Dei, occurrite, Angeli Domini: Suscipientes animam eius: Offerentes eam in conspectu Altissimi. Suscipiat te Christus ecc. / Accorrete Santi di Dio e Angeli del Signore, accogliete la sua anima e portatela al cospetto dell’Altissimo. Ti accolga Cristo ecc.». Ora l’attuale riforma ha ripreso e valorizzato molto il secondo responsorio, ma non ha valorizzato altrettanto il primo. Eppure la “morte eterna” non è altro che la seconda morte, di cui parla Ap 2,11; 20,6.14; 21,8, e la terribile espressione “in die illa tremenda / in quel giorno tremendo” altro non è se non una rielaborazione di Sof 1,15: «Dies irae, dies illa / Giorno d’ira quel giorno». Strano che una riforma intenzionata a riscoprire la Bibbia e a por fine all’esilio della Parola, non si sia accorta che il responsorio era biblico!
Ritengo che l’attuale Rito delle Esequie sia pregevole e sono consapevole della difficoltà di ricuperare con evidenza il primo responsorio, la morte eterna, il giorno dell’ira. È però vero che senza mettere in evidenza la tragedia della morte e del dopo morte (da cui in Cristo siamo liberati), di fronte alle corna sulla bara si reagisce lievemente o non si reagisce del tutto.
Come conclusione viene bene la preghiera di Fatima un poco aggiornata: «Gesù mio, perdona i nostri peccati, preservaci dal fuoco dell’inferno... e dalle corna del diavolo!».
Riccardo Barile

La Chiesa: serve più severità con chi sostiene l'eutanasia

"Siamo contro l’eutanasia in ogni forma, la posizione ufficiale della Chiesa è nota", ha dichiarato a Catholic News Service il vescovo ausiliare della diocesi di Malines-Bruxelles, Jean Kockerols. Il prelato è intervenuto settimana scorsa subito dopo la pubblicazione da parte dell’agenzia della Chiesa cattolica belga (Cathobel news agency) di un articolo che accusava la Commissione di controllo e valutazione dell’eutanasia istituita dalla legge belga per vigilare sugli abusi.
Dunque, Kockerols dopo aver chiarito che il problema è nell’accettazione dell’omicidio e del suicidio assistito di Stato, che produce una mentalità relativista, per cui non conta più il bene o il male, ma la volontà della persona (sia anche quella di farsi uccidere), ha fatto notare anche che la norma non viene applicata come previsto. Secondo i vescovi infatti non c’è alcun controllo né paletto della legge che sia rispettato, visto che la commissione non vigila, permettendo a chiunque lo richieda di essere ucciso.
Che ad ottenere l'eutanasia siano ormai tutti non è una sorpresa, ma la logica conseguenza di una norma che se nel 2002 (quando fu introdotta in Belgio) si riferiva ai soli “moribondi” era evidentemente destinata ad applicarsi ad ogni caso (oggi in Belgio è permessa anche per altre malattie non terminali e per i bambini). Infatti, nel momento in cui si legifera su una menzogna come l’autodeterminazione dell’uomo, introducendola come principio normativo, non c’è davvero più argine giustificabile teoricamente.
Detto questo, se l'ipocrisia va svelata, come ha fatto il vescovo parlando di norma totalemente ingiusta, la Chiesa belga denuncia anche gli abusi al fine di porre un freno. Nell’articolo si legge quindi che "è scioccante che, a 15 anni dalla sua creazione, la commissione non ha indirizzato neppure un singolo fascicolo ai pubblici ministeri o condannato un solo medico”. In poche parole, la commissione "agisce come giudice e giuria e non adempie al suo ruolo. Non sta estendendo l'applicazione della legge, ma la sta violando”. Si dovrebbe almeno avere il coraggio di aprire ad ogni forma di eutanasia su richiesta, senza fingere di ammetterla solo entro certi paletti, in modo da chiarire al mondo il vero fine di queste norme: eliminare chi è improduttivo, chi è depresso, chi disprezza la vita. E quindi estirpare diabolicamente la carità che lotta per amore della vita: che se vuoi toglierti di mezzo chi sono io per giudicarti? Chi per frenarti?
Ma a descrivere il vero volto di queste leggi sono i casi reali e concreti come quello richiamato dalla Chiesa di una donna di 38 anni, che affetta da una forma di autismo e depressa dopo la rottura con il fidanzato, chiese di essere ammazzata dallo Stato. Così è stato e nessuno è stato perseguito: a denunciare il caso nel 2016 erano stati i parenti della donna. Di fronte ad un potere così feroce e ad una legge che ha mostrato tutte le sue implicazioni malvage (muoiono oltre 2000 persone all’anno fra cui malati psichiatrici non terminali), la Chiesa belga ha quindi capito che deve educare, opponendosi alla norma senza compromessi.
Anche perché l’esito del silenzio o del tentativo di cercare il male minore in un male assoluto ha avuto come esito non solo la confusione ma le dichiarazioni favorevoli all'eutanasia della congregazione dei Fratelli della carità, che gestisce 15 ospedali del Paese (5.000 posti letto): «Noi prendiamo seriamente in considerazione la sofferenza insopportabile e disperata dei nostri pazienti, così come le loro richieste di eutanasia. Dall’altro lato, vogliamo proteggere le vite e assicurare che l’eutanasia sia praticata solo se non c’è altra possibilità di fornire una ragionevole prospettiva di cura per il paziente», ha comunicato lo scorso aprile l’ordine belga.
Kockerols ha quindi concluso così: “Anche se per ora ci sono poche possibilità di cambiamenti legali, la Chiesa può lavorare a livello morale e pastorale con il personale medico e sostenere le voci critiche”, aggiungendo che i vescovi insieme hanno “discusso di un'applicazione più severa delle regole della Chiesa nei confronti di chi supporta l’eutanasia”. 
Benedetta Frigerio

Il problema dell’eutanasia

di Mons. Bernard Tissier de Mallerais, FSSPX

Articolo pubblicato sul sito francese della Faternità San Pio X: La Porte Latine

I motivi invocati: dalla pietà al cinismo

La pietà per il malato incurabile allo stadio dei «dolori terminali», intollerabili per lui e per me, mi obbliga ad accorciare le sue sofferenze. Gli pratico una iniezione, come si fa con gli animali. Così facendo, affretto una morte che è comunque fatale (cfr. D.C. 1885, 1128). La dignità umana fonda il «diritto a morire con dignità». Ora, le sofferenze intollerabili o lo stato di incoscienza sono indegne dell’uomo. Io ho dunque il diritto di prevenirle o di accorciarle (cfr. L’Alsace 21.09.1984).

La libertà, prerogativa della persona umana, dev’essere anche in grado di «scegliere la propria vita e la propria morte» (tema del Congresso di Nizza, 21-23.09.1984 – tenuto dall’ADMD: Associazione per il Diritto di Morire con Dignità). Io affermo la mia libertà non lasciandomi imporre dalla natura una morte da subire mio malgrado. Il suicidio di Henri de Montherlant, condannato dai suoi medici, è la morte dell’uomo libero!

L’interesse della società… «Noi crediamo che la società non abbia né interesse, né veramente bisogno di far sopravvivere un malato condannato» (dichiarazione di quaranta personalità di cui tre “premi Nobel”, 1974). «La morte legale può collocarsi dopo gli 80 anni, data al di là della quale i medici potrebbero trovarsi esentati… Io non credo più una parola di quel punto di vista tradizionale secondo cui tutti gli uomini sono nati uguali e sacri» (Professore Crick,Tribune médicale, 21.11.1970).

I metodi proposti: dall’eutanasia per ricetta all’eutanasia per sentenza

L’ADMD offre una guida per l’«auto liberazione»: dei testi molto dissuasivi offrono l’alternativa, ma ci sono anche i nomi dei farmaci e le indicazioni per la posologia, «di modo che - precisa la signora Paula Caucanas-Piser - il suicidio non sia quella cosa ignobile e violenta che è adesso» (Le Figaro 21.09.1984). In breve, suicidio «pulito», eutanasia a domicilio, «istruzioni per l’eutanasia!» (Rémi Fontaine, Présent 24-25.09.1984).

Ci si propone anche di redigere in anticipo il nostro testamento biologico che chieda al medico di «staccare le spine», «nel momento in cui noi non saremo più persone» (Figaro, 21.09.1984). Ma se si preferisce aspettare, il Professor Léon Schwarzenberg garantisce che il medico vi somministrerà a vostra richiesta il «cocktail litico»: «E’ al malato e non al medico che spetta decidere e sapere in quale momento egli ritiene inaccettabili la sua esistenza e le sue sofferenze» (Présent 24-25.09.1984): in breve, l’eutanasia su richiesta.

Si rispetterà la volontà dei malati o quanto meno la loro personalità (medici firmatari del manifesto del 19.09.1984): in altre parole: accanimento terapeutico per i coraggiosi, puntura per gli scoraggiati. – Sottigliezze! Dirà il Professor Christian Barnard (il primo a tentare un trapianto di cuore): il malato esprima solamente per iscritto che vuole essere «aiutato a morire», dopo «è a noi medici e solo a noi che spetta decidere che è arrivato il momento di porre fine alle sue sofferenze» (Présent 24-25.09.1984). In breve: eutanasia per sentenza.

I mezzi impiegati

1. Gli analgesici da dosare… un po’ più forte: è delicato stabilire il limite tra la dose analgesica e «decoscientizzante», e la dose letale. Il medico potrebbe essere tentato di passare dall’una all’altra… Eutanasia indiretta o diretta? Neanche l’infermiere potrebbe distinguere. In ogni caso l’articolo 20 del codice deontologico prescrive che «il medico deve sforzarsi di alleviare le sofferenze del suo malato. Egli non ha il diritto di provocarne deliberatamente la morte» (decreto del 28.06.1979).

2. Il «cocktail litico», l’iniezione che provoca immediatamente la morte: è l’eutanasia «super-attiva», come si dice, in ogni caso rispetto all’etica è un’eutanasia diretta: l’intenzione è francamente quella di dare la morte.

3. Il rifiuto di ogni «accanimento terapeutico» significa lasciare che il malato condannato muoia in pace, senza cercare di mantenerlo artificialmente in vita: un testamento sull’eutanasia che dica: «non mi rianimate», significa semplicemente: «Se sono malato, non mi fate delle cose inutili o penose». Dice il Professore Raymond Villey che questo è un invito all’eutanasia passiva, se la situazione è disperata (Figaro, 20.09.1984). Lo «staccare le spine» va oltre: l’interruzione di un mezzo artificiale per mantenere in vita un malato grave è eutanasia attiva (così pensa Pascale Bosc, 17 anni, allievo del liceo di Saint-Gaudens – Le Monde Aujourd’hui, 18-19.11.1984); ma si tratta di eutanasia diretta?

L’uomo ha un diritto sulla propria vita? Giudizio morale sull’eutanasia diretta

«Non uccidere»

Uccidere l’innocente è un peccato grave: il quinto comandamento di Dio, «non uccidere», è formale. L’omicidio priva l’altro del più grande dei beni: la vita, che è in terra la condizione base di tutti gli altri beni naturali e soprannaturali. L’omicidio lede soprattutto il diritto esclusivo di Dio sulla vita e sulla morte: «Ora vedete che io, io lo sono
 e nessun altro è dio» (Deut, 32, 39).

Che dire del suicidio? - La stessa cosa, con l’aggiunta che: colui che si toglie la vita da sé reca offesa alla società di cui fa parte e a Dio che detiene la proprietà del nostro corpo, lasciandone a noi solo l’uso e l’amministrazione, con la consegna di conservare questa vita. Questo non impedisce che si possa esporre la propria vita in certe occasioni, ma per un bene più grande: come la difesa della patria o per sfuggire ad una morte certa e crudele gettandosi da una finestra con la speranza di salvarsi: le quattro regole dell’atto «volontario indiretto» legittimano questo «suicidio indiretto»; l’azione di «gettarsi» è in sé indifferente; i due effetti che ne derivano sono uno buono (sfuggire ad un incendio) e l’altro cattivo (rischiare la morte sfracellandosi al suolo): l’intenzione non è mossa dall’effetto cattivo: non ci si vuol dare per niente la morte; e poi l’effetto buono non dipende dall’effetto cattivo; infine vi è una causa proporzionata: il pericolo legato al fuggire è proporzionato al rischio al quale si è esposti.

Questo esempio ha il vantaggio di illustrare la differenza tra l’eutanasia diretta (il «cocktail litico» è impiegato per dare la morte) e l’eutanasia indiretta (l’analgesico è preso per calmare le sofferenze del malato, ma si sa che accelera la morte). La prima è solo un omicidio o un suicidio, la seconda è un’azione del tutto lecita, a condizione che l'intenzione non sia quella di affrettare la fine del paziente!

Risposta alle obiezioni

Dunque, l’eutanasia diretta è un crimine, i motivi avanzati in suo favore possono essere solo dei sofismi: l’utilità per la società ne è uno: certo l’individuo è una parte che deve cooperare al bene del tutto, ma al tempo stesso egli trascende questo tutto con la sua dignità di persona e il suo destino eterno! Quindi la società non può «sbarazzarsi degli inutili» senza piombare esattamente nel totalitarismo che fa del «tutto» il solo assoluto.

«Scegliere la propria morte»… significa anche rifiutare la morte che ci ha preparato la Provvidenza: nascere come voglio io, in provetta, morire come voglio io, per auto liberazione: si tratta della medesima rivolta contro l’ordine naturale, dello stesso spirito di ribellione contro Dio. Lo spirito cristiano, invece, ci fa pregare «l’atto di accettazione della morte»:
Signore, Dio mio, da oggi io accetto dalle vostre mani, volentieri e di tutto cuore, il genere di morte che vi piacerà di mandarmi, con tutte le angosce, tutte le pene e tutti i dolori.

«Farla finita con una vita che non ha più senso»…  perché si sa essere condannata; con una vita «degradata» dalle sofferenze acute; con una vita «diminuita» dallo stato di incoscienza: altri sofismi! – La vita terrena trova il suo senso nella vita eterna;  anche sofferente o incosciente, la persona conserva la sua dignità di essere creato a immagine e somiglianza di Dio, la dignità di un «essere fatto per l’eternità». Per questo – diceva Pio XII (ai medici chirurghi il 13.02.1945) - «il medico disprezzerà ogni suggerimento volto a distruggere la vita, per quanto fragile o umanamente inutile essa possa apparire.»

«Ma io non faccio altro che accelerare una morte inevitabile», sfuggendo un’altra morte «certa e atroce».
– Io rispondo: l’effetto buono: fuggire una morte orribile, deriva da un effetto cattivo: la morte per «auto liberazione». Il male come mezzo per ottenere un bene (in questo caso per fuggire un altro male). Ora, dice San Paolo: «Non faciamus mala ut eveniant bona» (Rom 3, 8); non ci è permesso fare il male perché ne vanga un bene. La volontà non deve mai volgersi al male (qui il suicidio), né come mezzo, né come fine.

Quante volte Pio XI ha ripetuto questo grande principio che risolve tanti spinosi casi morali!
Amico lettore, tienilo presente, e tieni presente le quattro regole capitali dell’atto «volontario indiretto» (o dell’azione «a doppio effetto») che abbiamo citato prima!

La sofferenza e l’uso degli analgesici
La Sacra Congregazione romana per la Dottrina della Fede ha riassunto mirabilmente la dottrina cattolica (dichiarazione del 05.05.1980) già insegnata da Pio XII (alla Società Italiana di Anestesiologia, 24.02.1957).
Riassumiamola ancora.

La sofferenza: valore redentivo

Come la morte, la sofferenza è una pena del peccato originale: «tu sei polvere e in polvere ritornerai (Gen 3, 19); «con dolore partorirai figli» (Gen  3, 16); «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen 3, 19). Se il medico ha il dovere di combattere la sofferenza, il malato cristiano cercherà di assumerne almeno una parte, approfittando di questa grazia che gli è offerta per soddisfare alla giustizia divina per i suoi peccati e per evitare così le pene del Purgatorio, di cui la minore è peggiore della peggiore di questo mondo! La sofferenza accettata volentieri è anche occasione per guadagnare dei meriti, «aggiungere una nuova perla alla propria corona» per il Paradiso; essa è vista come partecipazione alla Passione di Cristo e unione al sacrificio redentore; essa ha valore corredentrice (cfr. 1, 24). Rifiutare i calmanti o moderarne l’uso, per un malato costituisce condotta eroica, pienamente cristiana.

Gli analgesici: legittimità e inconvenienti

«In ogni caso, non è conforme alla prudenza voler fare di un’attitudine eroica una regola generale. Per molti malati, la prudenza umana e cristiana consiglierà spesso l’impiego di mezzi medici atti ad attenuare o a sopprimere la sofferenza, anche se gli effetti secondari saranno il torpore e la minore lucidità. Circa coloro che non sono in condizioni di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino ricevere questi calmanti e la loro somministrazione secondo il consiglio del medico (SCRDF, 1980, cit.). Ma sarà permessa una narcosi se essa comporterà la perdita di coscienza o l’accorciamento della vita del malato? Nel secondo caso non sussiste il problema, perché, direttamente, si vogliono calmare le sofferenze, e solo indirettamente si permette, senza volerlo direttamente, l’accorciamento della vita (atto volontario indiretto).

Calmanti che comportano l’incoscienza

Il caso degli analgesici che causano l’incoscienza è da valutare più da vicino, poiché non si dovrà volere la morte del malato facendogli perdere coscienza fino alla morte, senza che egli abbia potuto assolvere i suoi doveri morali (testamento, eventuali restituzioni) e soprattutto religiosi (confessione sacramentale, estrema unzione e viatico se possibile). Qui trova il suo posto insostituibile l’infermiere cristiano, che saprà tenere alto lo spirito del malato al di là delle sue sofferenze e dell’angoscia della morte incombente, nella speranza teologale e nella preparazione del suo animo all’arrivo del sacerdote. A quel punto, un atto di contrizione, recitato da lui a fianco del malato ancora cosciente ma forse già privo dei suoi sensi esterni, potrà forse salvare un’anima per l’eternità! Il compito dell’infermiere: «alleviare la sofferenza e assistere le persone negli ultimi istanti della loro vita» (decreto del 17.07.1984, art. 1), è ancora più nobile se egli lo intende come un apostolato per le anime!

VATICANO , EFFETTO PAPA FRANCESCO . NESSUNO VA PIU’ IN CHIESA ? IL SACERDOTE: “SI CONFESSI CHI PRENDE MULTE CON L’AUTOVELOX”


articolo tratto da Libero quotidiano.it  15 gennaio 2018
Il Vaticano di Papa Francesco, è cosa arcinota e ve ne abbiamo dato conto, deve affrontare una storica crisi vocazionale: non solo nessuno fa più il prete, ma soprattutto in chiesa non ci va più nessuno. Dunque, in questo contesto, fanno rumore le dichiarazioni di don Andrea Vena, sacerdote in provincia di Venezia, della parrocchia Santa Maria di Bibione: violare il codice della strada e superare i limiti di velocità, ha dichiarato, “è un peccato di cui confessarsi”.
Lo scrive nell’ultimo bollettino, dove aggiunge: “Il comandante della Polizia Locale mi ha informato, in qualità di rappresentante istituzionale della Parrocchia, che a partire da lunedì 15 gennaio saranno in funzione due autovelox fissi: in entrata a Bibione, nei pressi di Marinella, e in uscita da Bibione, nei pressi di San Filippo. Entrambi i punti sono segnalati da visibili cartelli azzurri”. 
Dunque aggiunge: “Pubblico la notizia con sincero spirito collaborativo nei riguardi della Polizia Locale che chiede massima diffusione della notizia, lasciando poi a ciascuno responsabilità personale. Visto che mi sto rivolgendo ai cristiani della Comunità – conclude don Andrea – faccio altresì presente che violare il codice della strada, mettendo spesso in pericolo la propria e l’altrui vita, è comunque peccato di cui confessarsi“. Insomma: pronti a tutto pur di trascinare qualcuno in Chiesa…

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