Stato e Chiesa, "i nodi vengono al pettine". L’appello alle coscienze del "falso papa" Bergoglio, affinché tutti i migranti siano accolti e le chiese si trasformino in dormitori, sale mensa e gabinetti per "migranti islamici"
di Francesco Lamendola
La svolta migrazionista della neochiesa di Bergoglio è qualcosa d’intollerabile, qualcosa che indigna, non solo per ciò che rappresenta in se stessa, ma anche per l’invasione di campo nelle faccende di pertinenza della politica, cioè dello Stato; non è, tuttavia, se vogliamo essere lucidi e se vogliamo essere onesti, qualcosa di totalmente, di radicalmente imprevisto e imprevedibile; era, anzi, prevedibilissima, e non da ieri, non dall’elezione di Bergoglio, e neppure dal Vaticano II: era ed è inscritta nella logica intrinseca delle cose.
Lo Stato è una costruzione umana, storica, che nasce da un atto di forza: tutti gli Stati, anche i più piccoli, nascondo così, da un atto di forza nei confronti di qualche altro soggetto. Può essere anche un atto di forza incruento, ciò talvolta accade; ma vi è, comunque, il sottinteso che, se necessario, le forze che mirano alla fondazione dello Stato sono pronte e disposte ad usare la forza, sia verso l’esterno, sia verso l’interno: sono pronte a respingere le minacce che vengono dal di fuori, e a reprimere i disordini che possono sorgere dal di dentro. Il fine dello Stato è assicurare la pace e la giustizia in questa vita. Quando uno Stato non riesce ad assolvere a queste due funzioni essenziali, ricorre a un uso improprio della forza, cioè adopera la forza non per il bene dei cittadini, ma per preservare indefinitamente se stesso, trasformandosi in un organismo parassitario che si nutre del lavoro e delle tasse dei cittadini, ma che, in cambio, non offre più le due cose essenziali, pace e giustizia, e, spesso, neppure le cose necessarie, benché non essenziali (perché potrebbero essere sostituite dall’iniziativa privata): lavoro, pensioni, sanità, istruzione, trasporti. Per realizzare i suoi fini, lo Stato deve porsi come un valore assoluto: vale a dire, non può ammettere l’esistenza di un principio che sia ad esso superiore, perché, in tal caso, non sarebbe legittimato interamente a esigere il rispetto delle sue leggi. Qualcuno, infatti, potrebbe appellarsi a quel principio superiore, per negare fedeltà e obbedienza a questa o quella legge dello Stato, a questa o quella decisione dello Stato (per esempio, una sentenza giudiziaria).
La Chiesa, da parte sua, la Chiesa cattolica romana, è una costruzione umana, ma, nello stesso tempo, una costruzione divina: l’ha fondata Gesù Cristo, che, per quanti credono in lui, è il Verbo incarnato. Pertanto, il credente che prende sul serio la propria religione, si pone in un’ottica analoga a quella del cittadino nei confronti dello Stato; però con una importante differenza: la diversità dei fini. Il fine della Chiesa è la salvezza delle anime, vale a dire portare le anime a Dio, non a un Dio qualunque (come dice e ripete Bergoglio), ma al Dio del Vangelo: a Gesù Cristo, con tutto quel che Egli ha insegnato e con le promesse che ha fatto agli uomini.Il fine della Chiesa è, quindi, un fine soprannaturale; e la vita terrena, per il credente, è un pellegrinaggio, una realtà transitoria, che non va in alcun modo assolutizzata. Chiesa e Stato possono quindi coesistere, perfino sostenersi reciprocamente, fino a quando si muovono nella distinzione e nella complementarità dei rispettivi ruoli e dei rispetti scopi. Non ci si può tuttavia nascondere la diversità delle due prospettive: nazionale quella dello Stato (almeno dacché lo Stato moderno si è definito come Stato nazionale, mentre in passato esistevano molti Stati plurinazionali, sostenuti da un’altra idea, quella dinastica, ad esempio l’Austria-Ungheria), universale quella della Chiesa cattolica. Ciò significa che se, per lo Stato, il bene nazionale deve venire prima di tutto, per la Chiesa ciò che viene prima di tutto è il Regno di Dio. Ora, è ben vero che il Regno di Dio - sono parole esplicite di Gesù Cristo – non è di questo mondo; ma è altrettanto vero che, per comune consenso, esso incomincia in questo mondo, nel senso che ciascun credente si sforza di realizzarlo, per quanto sta in lui, fin da ora, in questa vita terrena ed entro un orizzonte terreno, anche se l’opera sarà compiuta dalle generazioni future. Al suo centro c’è l’amore per Dio e, come riflesso, per il prossimo; e il prossimo è chiunque, anche il non cattolico, e anche chi non appartiene alla propria comunità nazionale. Può accadere, pertanto, e ora sta accadendo, che le due prospettive, del cittadino e del credente, divergano.
La divergenza si mostra nei momenti di crisi epocale, cioè di crisi del sistema; se la crisi è limitata, non emerge. Per esempio, una crisi finanziaria e una crisi economica, per quanto gravi, non bastano a far esplodere la differenza di prospettive fra Stato e Chiesa; ma una migrazione di popoli, con tutto ciò che essa comporta sul breve, sul medio e sul lungo periodo, sì. È davanti a una situazione di quel genere che si vede come l’alleanza, o la complementarità fra Stato e Chiesa, si reggano su basi piuttosto fragili, legate alla stabilità del sistema. Finché il sistema complessivo è stabile, il trinomio Dio, Patria e Famiglia è efficace, funziona, e ciascuna delle sue componenti si appoggia sulle altre, ed è da esse sostenuta. Ma le cose cambiano davanti a una crisi di sistema, la quale fa emergere le radiali differenze di fondo. Qualcuno potrebbe pensare che fino a quando ciascuno dei due, lo Stato e la Chiesa, resta nei propri limiti, non dovrebbero sorgere problemi, essendo diverse, anche se complementari, le loro aree di competenza e le loro finalità: pace e giustizia fra gli uomini, da parte dello Stato; raggiungimento della vita eterna, da parte della Chiesa. Ma non è così. Una crisi di sistema, infatti, fa emergere con evidenza ciò che, in condizioni normali, rimane implicito: che, cioè, non è mai possibile stabilire una netta e obiettiva linea di separazione fra i due ambiti. Che cosa succede se lo Stato chiede al cittadino, che è anche un credente, di obbedire a delle leggi che sono in contrasto con la meta della vita eterna, perché implicano una grave offesa a Dio? E che cosa succede se la Chiesa chiede ai fedeli, che sono cittadini dello Stato, di non obbedire a certe leggi e di non accettare certe decisioni prese dallo Stato? Che cosa succede, in poche parole, se l’interesse nazionale viene a configgere con il bene, così come esso viene insegnato e predicato dalla Chiesa quale imperativo morale? Evidentemente, si apre un conflitto, o, quanto meno, si attua un divorzio: ciascuna delle due parti se ne va per proprio conto.
Chiese trasformate in dormitori, sale mensa e gabinetti per i migranti islamici
Questo è quanto accadde nell’ultima grande migrazione di popoli conosciuta dal nostro continente, quella avvenuta fra il IV e il X secolo. La Chiesa, istituzione universalistica, non vide nei barbari soltanto dei nemici da respingere, ma dei popoli da convertire: inviò dei missionari presso di loro, li evangelizzò, li accolse nel suo seno, dopo averli trasformati da nemici in suoi difensori. Questa fu la parabola degli Slavi, degli Ungari, dei Vichinghi: non quella dei Saraceni, i quali non erano disposti a convertirsi ma che, anzi, volevano conquistare e convertire l’Europa alla religione di Maometto, come già avevano fatto con il Vicino Oriente e l’Africa Settentrionale. L’Impero Romano, quando si divise, ebbe un destino diverso nelle due partes, così come diverso fu l’atteggiamento della Chiesa verso di esso. L’Occidente, più debole, venne sopraffatto dagli invasori e fu da essi conquistato: la Chiesa separò i suoi destini da quelli dello Stato, e si sostituì allo Stato nel vuoto delle sue funzioni; intanto lavorò pazientemente per la conversione degli invasori, e ne favorì l’assimilazione: da questa fusione sarebbe nata l’Europa. In Oriente lo Stato era più forte, resistette agli assalti esterni per altri mille anni e, all’interno, volle mettere bene in chiaro che non accettava un potere ecclesiastico autonomo e superiore a sé, ma lo volle sottomettere (cesaropapismo): il contrario di ciò che era accaduto in Occidente, con l’episodio dell’umiliazione di Teodosio da parte del vescovo di Milano, sant’Ambrogio (episodio che si sarebbe ripetuto, in forma ancor più spettacolare, a Canossa, con l’imperatore tedesco Enrico IV, sei secoli dopo). Insomma: in presenza di una crisi di sistema, se lo Stato è forte, tende a sottomettere la Chiesa ai proprio fini; se lo Stato è debole, è la Chiesa che cerca di piegarlo ai propri fini, oppure, se lo giudica perduto, lo abbandona al suo destino, e punta a ricostruire una nuova società sulle sue rovine, utilizzando proprio le forze che ne hanno determinato il crollo. A nostro giudizio, è giusto che la ragion d’essere della Chiesa prevalga su quella dello Stato: perché lo Stato ha una funzione limitata nel tempo (anche se si può misurare sulla scala di un millennio, come per Bisanzio o Venezia) e nello spazio (perché abbraccia solo una comunità che, per quanto vasta, non coincide con l’umanità intera), mentre la Chiesa si rivolge all’eternità e all’intero globo terracqueo, fino all’ultimo gruppo di Eschimesi dispersi fra i ghiacci dell’Artico; e, se una popolazione extraterrestre prendesse piede sul nostro pianeta, si rivolgerebbe pure ad essa. Riconosciamo perciò volentieri che la funzione spirituale della Chiesa è perenne e insostituibile; quella dello Stato è transitoria, parziale e può essere sostituita, in circostanze particolari, da altri soggetti. Si può infatti sostituire la forma di questa o quella comunità politica e territoriale, ma non si può sostituire la Verità eterna del Vangelo di Gesù.
Ciò detto, restano da vedere due cose.
Stato e Chiesa, i nodi vengono al pettine
di Francesco Lamendola
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LA TERRA DI NESSUNO CULTURALE
Cultura del Caos e "Vangelo secondo me": i distruttori della nostra civiltà stanno sfruttando un salto generazionale, c’è una generazione che manca all’appello della storia che non ha fatto in tempo a conoscere il mondo di ieri
di Francesco Lamendola
ALL’AMICO ANDREA.
C’è una generazione che manca all’appello della storia, o forse due: quelle dei nati fra il 1970 e oggi; quelle degli uomini e delle donne, dei ragazzi e dei bambini, che non hanno fatto in tempo a conoscere il mondo di ieri, cioè prima dell’avvento della globalizzazione, né a ricevere delle solide basi educative dai loro genitori, dai loro insegnanti, dai loro sacerdoti, perché ormai molti genitori, molti insegnanti e molti sacerdoti erano già stati infettati dal virus del modernismo, avevano già abdicato al loro personale senso critico e si erano intruppati volonterosamente nel gregge dei pecoroni, dove la massa fa la giustizia, e il numero crea il diritto; dove quello che conta è seguire la corrente, e inseguire i folli miti del consumismo; e dove non si amano più le persone, ma le cose, i telefonini, i computer, le automobili, i vestiti firmati, gli orologi di marca; dove conta l’apparire e non l’essere, l’abbronzatura e non la bellezza interiore, i soldi e non l’onestà.
Le persone nate fin verso gli anni Sessanta del secolo scorso, bene o male, in maggioranza hanno ricevuto quella educazione: hanno visto i loro genitori lavorare duramente e non fare mai debiti, non vivere mai al di sopra delle loro possibilità, condurre una vita sobria, coltivare il lavoro, l’amicizia, la fedeltà alla parola data; hanno visto i loro maestri e professori insegnare con passione, con competenza, con il senso di una vera e propria missione da compiere, per mezzo della cultura, dei valori etici, dell’esperienza da trasmettere ai giovani; e hanno visto i loro sacerdoti calarsi con fervore nel sacramento dell’Ordine, insegnare il Vangelo con le parole e con l’esempio, prendere con serietà le cose di Dio, vivere la fede con generosità ed entusiasmo, ma anche con timore e tremore, come si addice a chi si confronta con l’abisso insondabile dell’Assoluto. Non sempre, beninteso, gli adulti erano all’altezza di quei valori e di quei modelli; però, onestamente parlando, lo erano più spesso di quel che non si pensi. Facevano del loro meglio, quasi sempre; e quasi sempre almeno alcuni di loro riuscivano a trasmettere ai bambini e ai ragazzi qualcosa della loro serietà, della loro vocazione, del loro sentimento maturo e responsabile della vita, che non era, per essi, una scampagnata in cerca di divertimenti, ma una pagina bianca sulla quale si scriveva una riga, ogni giorno, con l’aiuto di Dio e con il conforto dell’esempio ricevuto dalle generazioni precedenti.
Ora questo legame generazionale si è interrotto; c’è stato un salto, un vuoto, una frattura, si è creata una terra di nessuno, sulla quale son piombati, come falchi, come avvoltoi, come sciacalli, i signori della distruzione:gl’intellettuali nichilisti, gli amministratori raccomandati, i politici cinici e disonesti, gl’imprenditori fasulli e senza scrupoli, i finanzieri d’assalto, uno stuolo d’insegnanti senza solide basi culturali e senza il senso della loro missione, un esercito di preti e vescovi senza vocazione, ma, in compenso, resi sempre più audaci, sempre più presuntuosi, sempre più arroganti da un altro esercito di cattivi teologi, nel gridare dai tetti il loro nuovo vangelo: il vangelo secondo me, e non più il Vangelo secondo Gesù Cristo. E i signori della distruzione, in questo vuoto, hanno messo i contenuti che hanno voluto, senza timore di smentita o di contraddittorio: approfittando dell’ignoranza sempre più diffusa, della rimozione del passato, dell’azzeramento delle radici e dell’auto-disprezzo della propria civiltà, hanno raccontato ai giovani – attraverso i mass-media, la scuola, la classe politica e la stessa cultura, o sedicente tale (vi sono programmi “culturali”, alla televisione, che fanno semplicemente rabbrividire), quel che hanno voluto:riscrivendo a modo loro la storia, il passato, la tradizione, l’identità, la famiglia, la patria e la religione.
Il risultato è che moltissime persone nate dopo il 1970, anche se diplomate e laureate a pieni voti, anche se attente ai fatti culturali, anche se se si tengono costantemente informate sui problemi di attualità, non sanno proprio un bel nulla di quel che sta accadendo nel mondo, né di quel che è accaduto; credono a tutta una serie di favole preconfezionate, che tramandano alla rovescia le vicende dell’Italia, dell’Europa e del mondo, fin dall’antichità, ma soprattutto da quando è sorto il cristianesimo e si è poi stabilità la civiltà cristiana medievale, su, su, fino alle due guerre mondiali, alla guerra fredda, alle ultime tensioni internazionali fra Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran, Cina, Unione europea. Di ogni cosa è stata fornita la versione politicamente corretta, cioè ampiamente rivista e rimaneggiata, ad uso dei poteri forti oggi imperanti, e che già si stavano profilando all’inizio della modernità: la Massoneria, le grandi banche, una parte del giudaismo, divenuto poi sionismo, e trasformatosi, così, da potere esclusivamente finanziario, anche in potere politico-strategico, fino ad assorbire e manipolare ai suoi fini egemonici gli stessi governi degli Stati Uniti d’America, sia democratici che repubblicani: si vedano George Soros, la famiglia Rotschild, le banche Lehman Brothers e Goldman Sachs, il potentissimo Henry Kissinger.
In Italia, è stata accreditata una versione della nostra storia nazionale che serve, sostanzialmente, a giustificare i compromessi, le piroette, le furberie, e gli autentici atti di banditismo politico, che hanno contrassegnato la nascita della Repubblica e la sua evoluzione, rigorosamente democratica e antifascista, come no, e rigorosamente pluralista e buonista, pacifica e tollerante, accogliente e garantista: la Repubblica di Pulcinella, dove la legge serve a tutelare più i delinquenti che i galantuomini, più gli immigrati/invasori clandestini che i cittadini, più gli amministratori che gli amministrati, più i governanti che i governati, più i parassiti che i lavoratori, più gli evasori fiscali che quanti pagano le tasse, e più i cialtroni, i fanfaroni, i disonesti, i raccomandati, gl’incompetenti e gl’incapaci, che i meritevoli, gli onesti, i competenti, i responsabili, i laboriosi. E tutto questo per negare due evidenze che non sono ammissibili per la cultura politicamente corretta: che in Italia, nel 1943-1945, vi è stata una feroce guerra civile, prolungatasi con i massacri indiscriminati, gli assassinii, gli stupri, le torture, gli infoibamenti (il correttore automatico non riconosce quest’ultima parola, il che è rivelatore) dei mesi successivi alla fine delle ostilità, quel glorioso 25 aprile del 1945; e che l’Italia, come nazione, è uscita sconfitta, umiliata e calpestata dall’esito della Seconda guerra mondiale, e cancellata dal novero delle grandi potenze: sconfitta e umiliazione sancite dal Trattato di pace di Parigi del 1947, nel quale, per supremo oltraggio, il governo italiano s’impegnava a non perseguire i traditori che, fin dal 10 giugno 1940 (e non solo dall’8 settembre 1943, data ufficiale dell’armistizio con gli Alleati) si erano adoperati per la sconfitta della Patria e per la vittoria del nemico, pardon, dei baldi e disinteressati liberatori anglo-americani.
Anche la storia della cultura è stata manipolata, rielaborata, riscritta, secondo la versione politically correct: si è fatto credere ai giovani che la cultura è sempre e solo, per definizione, una cosa di sinistra, progressista e antifascista; che una cultura di destra non esiste, non è mai esistita e non può esistere; che Ezra Pound era un pazzo, Giovanni Gentile era un irresponsabile, Knut Hamsun era un venduto, Céline era uno squilibrato, Mircea Eliade era un bieco reazionario e Giovanni Papini, un vecchio rimbambito. Motivo: tutti costoro, e parecchi altri, che non vengono mai ricordati (anche se alcuni di loro hanno scritto opere di valore immensamente superiore a quelle dei vari Balestrini, Eco o… Dario Fo), si erano schierati dalla pare sbagliata, avevano rinnegato i sacri valori della libertà e della democrazia e avevano preso partito per i carnefici nazisti: tesi che ha, più o meno, la stessa consistenza di quella secondo cui i vari araldi della sinistra, da Sartre a Éluard, da Aragon a Neruda, da Moravia a Pasolini, altro non sono stati che i fiancheggiatori dello stalinismo e i complici morali dei crimini di quel regime. Gli esponenti dell’area culturale cattolica, poi, sono stati fatti sparire addirittura, quasi con un gioco di prestigio: e gli studenti italiani continuano a ignorare perfino i nomi di Nicola Lisi, di Bonaventura Tecchi, di Riccardo Bacchelli, di Eugenio Corti.
E quel che è accaduto per la storia, vale anche per tutti gli altri ambiti della cultura e dello studio, nonché per la musica leggera, il cinema, lo spettacolo, la televisione, lo sport, perfino la scienza e l’arte, specialmente l’architettura e l’urbanistica, ma anche la pittura e la scultura. Anche qui si sono rifatte le liste di proscrizione e quelle di approvazione, si sono distribuite le pagelle dei buoni e dei cattivi; ma quelli veramente scomodi, li si è condannati al silenzio e all’oblio, che è sempre l’arma migliore per annientare qualunque avversario, reale o potenziale. L’avversario da annientare è sempre lo stesso: colui che invita a riflettere, colui che esercita la libertà del pensiero, che non si lascia condizionare, né ricattare, intellettualmente o moralmente, o entrambe le cose; che respinge gli schemi e le pappe precotte, le minestrine riscaldate e scipite, fatte passare per capolavori dell’alta cucina, che tutti devono applaudire e complimentare. Qualcuno penserà che stiamo esagerando; ebbene, faccia caso a quali volti sono spariti dai telegiornali e dalle tavole rotonde televisive, quali firme sono scomparse dai giornali e dalle riviste in questi ultimi anni: a meno che costui sia affetto da una forma incurabile di distrazione cronica, si renderà conto che sono scomparsi precisamente i migliori, i più liberi, quelli che pensano con la loro testa, quelli che non stanno sul libro paga dei poteri forti, quelli che hanno il coraggio di dire la verità. Son rimasti i peggiori, i più mediocri, i più vili, i più conformisti, i più servi, i più banali.
Un fenomeno molto italiano, certo; ma, purtroppo, un fenomeno anche europeo, e, ormai, mondiale. Le teste pensanti vengono ridotte al silenzio, perché nessuna voce dissonante deve turbare la pacifica ruminazione del gregge dei pecoroni. Il Pensiero Unico avanza, dilaga, s’impone ovunque, diventa legge. Chi contravviene al Pensiero Unico, rischia ormai una querela: e, sotto la minaccia, molti giornali devono tacere, molte reti televisive devono adeguarsi, molte voci potenzialmente critiche sono messe a tacere.I nostri studenti apprendono, sui banchi di scuola, che il fascismo aveva tolto la libertà di stampa, si era impadronito dei giornali, monopolizzava i programmi radio: il che è vero. Non viene loro detto, però, che, nell’attuale regime democratico e repubblicano, avviene la stessa cosa, se non peggio, però senza che ciò sia esplicito e dichiarato: avviene de facto, semplicemente perché non si trovano più un solo giornale o rivista, una sola rete radio o televisiva, che abbiano voglia o interesse a far risuonare una voce libera; in un mondo di servi volontari, le forme della libertà sono rispettate, ma solamente quelle. La sostanza è una dittatura; anzi, un vero e proprio totalitarismo. Gli storici discutono ancora se il fascismo fu un totalitarismo o no; il sistema politico-sociale odierno, imposto dall’alta finanza e dai poteri forti internazionali, dei quali i politici europei sono solo i valletti e i camerieri, è sicuramente un totalitarismo, perché non si limita a controllare l’informazione, ma sta lentamente modellando i modi di pensare, di sentire, di vivere, di centinaia di milioni di persone; le sta letteralmente “rifacendo” di sana pianta, come passandole attraverso un duplicatore, dal quale escono simili a prima, ma intimamente cambiate: senza ricordi del passato, senza cognizione del presente, senza’ombra di domande sul futuro.
Già, il futuro. Come dire a 500 milioni di europei che entro poco più di una generazione saranno spariti, e che l’Europa sarà diventata un continente islamico o islamizzato? No, meglio non dirglielo; anzi, bisogna non dirglielo. Le élites globali hanno deciso che l’islamizzazione deve procedere, e così sta avvenendo. Non si parla di questo problema come del problema numero uno dell’Europa; nessuno dei partiti maggiori, né in Italia, né in Francia, Germania, eccetera, ne parla come del problema numero uno. Eppure lo è; eccome se lo è. Il tasso d’incremento demografico non è una opinione: è matematica. Non stiamo facendo delle ipotesi, non stiamo almanaccando sulle probabilità: stiamo dicendo esattamente quel che è destinato ad accadere, a meno che si corra immediatamente ai ripari. Ma come correre ai ripari, se nessuno lancia l’allarme, anzi, se chi lo fa viene subito bollato e zittito quale xenofobo, razzista, populista ed estremista di destra? Se, davanti alla rivolta del Cara di Cona, nel veneziano, con gli operatori presi in ostaggio dai “profughi” ivoriani e nigeriani (ma in Nigeria e in Costa d’Avorio c’è la guerra?), tutto quel che il prefetto sa fare è balbettare che, poverini, si può capire che si siano agitati perché una dei loro è morta (di malattia!), anche se i cattivelli non dovrebbero poi diventar violenti. Ma come reagire, se nessuno si ricorda più del Cara di Mineo, ove due anziani coniugi furono massacrati (lei anche violentata) da un “profugo” ivoriano, nell’agosto 2015? Memoria corta, oblio, silenzio: le armi del totalitarismo democratico, globalista e progressista, al quale si è associato anche il vertice della Chiesa cattolica. Cancellata la buona teologia tomista, e sostituita dagli sproloqui della “svolta antropologica” dei Rahner e dei Kasper; silenzio sul peccato, il giudizio e l’aldilà; Gesù Cristo ridotto a un amicone, e Dio a una variante dell’intelligenza umana. Sì: qualcosa s’ è perduto, nelle ultime due generazioni...
I distruttori della nostra civiltà stanno sfruttando un salto generazionale
di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio Già pubblicato il 04 Gennaio 2016
Del 12 Febbraio 2018
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