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lunedì 19 marzo 2018

Il paganesimo anticristiano

PENSIERO DEBOLE ULTIMO ATTO


Pensiero debole, ultimo atto del "suicidio filosofico". Totalizzante e scarsamente propenso ad accettare "le critiche" ai suoi assiomi fondativi, il pensiero debole conduce a una "marmellata filosofica" senza verità e certezze 
di Francesco Lamendola   


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Siamo afflitti dal pensiero debole. La cultura odierna ne è impregnata, ne è condizionata, ne è presa in ostaggio; si direbbe che sia impossibile uscirne, che sia impossibile fare un passo al di qua, al di là, al di sopra o al di sotto di esso. È diventato il nuovo pensiero forte, se,  con questa espressione, si intende un pensiero totalizzante e scarsamente propenso ad accettare le critiche ai suoi assiomi fondativi: comoda posizione che consente tutti i vantaggi ed esclude qualsiasi rischio. È come sparare al piccione, ben sapendo che nessun piccione potrà mai sparare su di te. Fuori di metafora, il pensatore debole può criticare, deridere, svalutare qualsiasi pensiero diverso dal proprio, e sottrarsi, con la fuga, a qualsiasi contrattacco: in quanto pensiero debole, esso è liquido, è dappertutto e in nessun luogo, è impossibile fermarlo, dargli una forma, localizzarlo in uno spazio o in un tempo: spiacente, ma hai sbagliato bersaglio, non sono io; dovevi prendertela con lui, non con me. È figlio della scissione dell’io di Pirandello; e, prima ancora, è figlio, o nipote, dell’asportazione della metafisica di Kant. Sorge per sottrazione, si moltiplica per esclusione: paradossalmente, cresce sulla propria debolezza, sulla propria fragilità, sulla propria inconsistenza.

Pretende di essere post-moderno, ma è solo una espressione verbale: perché  ciò che teorizza è che ci sarà sempre qualcosa di postrispetto all’esistente, quindi dopo il postmoderno verrà, per forza di cose, il postmoderno del postmoderno, e poi il postmoderno del postmoderno del postmoderno, e così via, all’infinito. Non è un pensiero debole: è un pensiero piccolo; un pensiero che, programmaticamente, ha rinunciato a pensare qualcosa di grande. Per questo detesta sia l’essere che il soggetto. I suoi due teorici, Vattimo e Rovatti, sono, rispettivamente, figli di Löwith e Gadamer il primo, di Husserl e Paci il secondo, ed entrambi nipoti di Nietzsche e di Heidegger; hanno di mira appunto l’essere (Vattimo) e il soggetto (Rovatti). Che poi, indebolendo o “togliendo” l’essere e il soggetto, non si possa più fare alcuna filosofia; che non si possa più pensare alcunché, questa è una cosa che non li turba minimamente: non è un problema loro. A loro basta distruggere quel che resta delle antiche certezze: la certezza dell’essere, la certezza del soggetto che pensa, la certezza della verità che esiste, nonostante tutto. In quanto “pensatori deboli”, sono dispensati dal preoccuparsi con che cosa sostituire quel che si distrugge. Ci penserà qualcun altro: qualche Cireneo che dovrà prender su di sé, oltre alla croce di una filosofia ridotta in pezzi, anche quella di essere accusato di tendenze totalizzanti e autoritarie. Peggio per lui: quando mai i progressisti si sono preoccupati del destino dei loro oppositori o anche, semplicemente, di chi esita a seguirli?
E dunque, vediamo. Che cos’è questo pensiero debole?
Lo spiegano i suoi teorici, Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, nella Premessa a Il pensiero debole (Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 10-11):
“Pensiero debole” è […] una metafora, e in certo modo un paradosso. Non potrà comunque diventare la sigla di qualche nuova filosofia. È un modo di dire provvisorio, forse anche contraddittorio. Ma segna un percorso, indica un senso di percorrenza: è una via che si biforca rispetto alla ragione-dominio comunque ritradotta e camuffata, dalla quale, tuttavia, sappiamo che un congedo definitivo è altrettanto impossibile. Una via che dovrà continuare a biforcarsi.
Si inizia, forse, con una perdita o, se si vuole dire così, con una rinuncia. Ma già fin dall’inizio si può scoprire che essa è anche l’allontanamento da un obbligo, la rimozione di un ostacolo. O meglio, l’assunzione di un atteggiamento: il tentare di disporsi in un’etica della debolezza, non semplice, assai più costosa, meno rassicurante. Un equilibrio difficile tra la contemplazione inabissante del negativo e la cancellazione di ogni origine, la ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei “giochi”, nelle tecniche valide.
In secondo luogo, è uno sperimentare, un tentativo di tracciare analisi, di muoversi sul terreno.
Verso il passato: il “pensiero debole” può riavvicinarsi al passato attraverso quel filtro teorico che si può chiamare “pietas”. Una sterminata quantità di messaggi, che la tradizione invia a noi, può essere di nuovo ascoltata da un orecchio che si è reso disponibile.
Nel presente: basta osservare quante esclusioni di campi e di oggetti lo sguardo totalizzante può, anzi deve praticare. Il prezzo pagato dalla ragione potente è una impressionante limitazione degli oggetti che si possono vedere e di cui si può parlare.
Infine, anche in direzione del futuro, verso il quale il “pensiero debole” sembrerebbe impedito. Infatti, perché non ipotizzare che il contenimento del pensiero forte possa produrre un incontro su un territorio diverso da quello normativo e disciplinare, sul quale vengono stipulati normalmente tutti i nostri “accordi”?
Ma già siamo corsi troppo avanti. Per ora c’è da tentare qualche piccolo movimento, un alleggerimento. È più agevole la polemica con il già noto. E ci sono già – in circolazione – monete contraffatte da individuare
Dunque, per i suoi teorizzatori, il “pensiero debole” è ciò che si contrappone al “pensiero forte”. Quest’ultimo, a quel che è dato di capire, ha fatto il suo tempo, e comunque è antipatico, perché corrisponde alla ragione-dominio, impone degli obblighi, non sa ascoltare il passato, non sa vedere tutte le sfumature del presente, progetta eccessivamente nel futuro, è limitato, è normativo, è “disciplinare”. Invece il pensiero debole è duttile, malleabile, si adatta, si biforca, e poi si biforca ancora, all’infinito, rifiuta gli obblighi, scavalca gli ostacoli, non vuol saperne del dominio, nutre la pietas verso la tradizione, coglie i particolari del presente che all’altro sfuggono, sa pensare in modo creativo e accetta persino il confronto con il “pensiero forte”, purché su un terreno che non sia normativo e disciplinare: cosa, date le premesse, evidentemente impossibile, perché il pensiero forte è in se stesso autoritario, e quindi  è un’affermazione insincera.  Insomma, un bellissimo mucchio di sciocchezze, ma esposte con l’accortezza di evitare definizioni precise, sicché risulta malagevole smascherarle come tali. A cominciare dalla definizione: “pensiero debole”, sì, ma guardate che è solo una metafora, un paradosso; non è una nuova filosofia; è sempre qualcos’altro rispetto a ciò che si credeva (si biforca all’infinito…); eppure, al tempo stesso, è pronto a denunciare le contraffazioni, le appropriazioni indebite del copyright. Non male, per un pensiero che si dice anti-autoritario e che rifiuta di esser definito una nuova filosofia.
Quel che si doveva fare era dare una vera definizione del proprio programma: se non ti dico chi sono, tu hai il diritto di non prendermi sul serio. Secondo, si doveva spiegare meglio che cosa, del cosiddetto pensiero forte, non piace e si rifiuta: “pensiero forte” è una comoda astrazione. Si intende la ragione-dominio? Si intende il Logos calcolante e strumentale? Bene, su questo terreno ci possiamo intendere; ma bisognava dirlo. Se non che, la filosofia si regge sul pensiero; e il pensiero non è né forte, né debole: è pensiero e basta. Risponde a determinati requisiti, rispetta certe categorie; ha la sua sintassi, la sua terminologia (per evitare confusioni ed equivoci e non per fare sfoggio di erudizione). Non tutta la filosofia “classica” tende al dominio, se, con questa espressione, si intende un modo di pensare che interdica le obiezioni, che pretenda di annichilire ciò che ad esso non si conforma. Il vero pensiero non teme mai il confronto con niente e con nessuno. Se è un pensiero “autoritario”, la cosa vien fuori da sé; ma, in tal caso, si tratta di cattivo pensiero, cioè di ideologia, perché il vero pensare e la vera filosofia non sono né autoritari, né antiautoritari: sono la ricerca del vero, puramente e semplicemente, secondo le modalità che sono proprie della ragione umana.  

Pensiero debole, ultimo atto del suicidio filosofico

di Francesco Lamendola

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UNICA RIVOLUZIONE POSSIBILE
Filosofia. L’unica rivoluzione possibile e necessaria è "la rivoluzione interiore". Quello che l’Occidente ha perduto è "il senso del mistero". La confidenza con Dio non si ristabilisce, se non si recupera il senso del mistero 
di Francesco Lamendola  

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Da quando l’Illuminismo ha posto all’ordine del giorno il “diritto” alla felicità, non è cessata l’opera nefasta di obnubilamento delle coscienze e di radicale stravolgimento della ragionevolezza (oh, ma sempre in nome della ragione, ben s’intende!), nonché del puro e semplice buon senso, ridotto, quest’ultimo – specialmente nella fase marxista e contestatrice di quella corrente di pensiero che da Rousseau porta a Marcuse, passando per Majakovskij, André Breton e Wilhelm Reich, fra i tanti altri – alla misura d’un bieco e meschino spirito borghese, anzi, piccolo-borghese (ove quel “piccolo” lo rende ancora più spregevole).
Da allora, sia in chiave individualistica - che da Locke ad Adam Smith, a Bentham, arriva fino a Nietzsche, a Stirner, a Sartre -, sia in chiave statalista o collettivista – che da Hegel e Marx giunge a Lenin, Stalin, Hitler, Mao, Che Guevara – tutti fanno un gran parlare della felicità, del raggiungimento della felicità, del diritto inalienabile alla felicità, e si sforzano di cercare e consegnare alla perpetua infamia il responsabile, o i responsabili, del suo eterno differimento, della sua perenne elusività: trovandolo, di volta in volta, nella Chiesa cattolica, nell’aristocrazia, nella borghesia (come volevasi dimostrare), nei conservatori, nei reazionari, nei nemici del progresso, nelle quinte colonne del nemico di classe, di religione, di razza, nel capitalismo e nel comunismo, negli agenti della cospirazione mondiale, nel sionismo e nella Massoneria.
La società europea, nel frattempo, si è radicalmente laicizzata e secolarizzata; credere in qualcosa di diverso o di superiore all’uomo, è diventato poco meno che un crimine, quando non una forma di demenza senile; “fare la rivoluzione” è stata, per decenni, la parola d’ordine della nostra gioventù, dando per scontato che, una volta fatta, insieme alla libertà e alla giustizia sociale avrebbe trionfato, una buona volta, anche la felicità, come profetizzato da tutta quella folta schiera di pensatori, ideologi e agitatori politici che sopra abbiamo ricordato.
Se la felicità non si era ancora realizzata, dunque, né nella vita dei singoli, né in quella dei popoli, ciò era dovuto unicamente alle ultime, feroci resistenze del capitale, dell’egoismo di classe, del dominio della finanza internazionale: mescolando qualche grano di verità al profluvio di sciocchezze, luoghi comuni e formule scaramantiche che si voleva contrabbandare per ragionamenti politici, economici, sociali, mentre non erano che slogan di consumo per il nuovo soggetto della società moderna: l’individualista di massa che vive immerso nel più rigoroso conformismo (o nel più rigoroso anticonformismo, se si preferisce, però non meno standardizzato e canonizzato del suo preteso nemico), ma non vuole saperlo, non vuole aprire gli occhi, desidera soltanto auto-convincersi di essere dalla parte “giusta” della barricata e di trovarsi nobilmente impegnato in una battaglia di civiltà contro l’oscurantismo e per l’affermazione dei più alti valori umani.
Strano che nella cultura moderna, così piena di persone intelligenti, di intellettuali – come oggi si usa dire: brutto surrogato dell’antico concetto dell’uomo di cultura – nessuno, o pochissimi, abbiano fatto due più due: la felicità si allontana, mano a mano che ci si allontana da Dio: forse, dunque, varrebbe la pena di tornare al sentiero interrotto, di riprendere il cammino trascurato; di vedere se, per casso, recuperando la dimensione del sacro, tornado a cercare l’amicizia con Dio, non si recuperi, per caso, una parte almeno del proprio equilibrio interiore, non si ritrovi il gusto della vita, senza bisogno di dover ricorrere così spesso a psicanalisti, psichiatri, santoni e chiromanti, per dare un poco di sollievo alla depressione, all’angoscia, alla disperazione esistenziale.
Ma la dimensione del sacro, l’amicizia e la confidenza con Dio, non si ristabiliscono, se non si recupera il senso del mistero: che è, nello stesso tempo, senso del limite: il limite dell’umano, oltre il quale si apre l’infinità, la gratuità, la perfezione dell’Essere. Noi, infatti, abbiamo perduto il senso del mistero: lo scientismo, che ha preteso di abolirlo, o, quanto meno, di ridurlo alla misura di un innocuo ninnolo d’arredamento, di un banale santino da appendere al muro o da infilare tra le pagine d’un libro che non si apre quasi mai, non è stato, però, in grado di sostituirlo neppure alla lontana: siano rimasti soli con tutti i nostri dubbi, con tutta la nostra inquietudine, in compagnia di un progresso scientifico freddo, insensibile, e – sovente - disumano.
Scriveva il filosofo ed esoterista Massimo Scaligero nel suo libro «Rivoluzione. Discorso ai giovani» (Roma, Perseo, 1969, pp.  22-23; 29; 117):

«Quello che l’Occidente ha perduto è il senso del mistero.  Ogni cosa, o ente, o evento, nella sua intima verità, è MISTERO,  in quanto la sua essenza è indicibile,  non può essere espressa se non nel linguaggio  che essa stessa detta per sé.  Questo linguaggio può essere veicolo verso l’indicibile,  se verso di esso muove lo spirito stesso da cui emana. L’uomo di questo tempo  non può più conoscere la verità, non perché la verità, o l’essenza, non sia conoscibile,  ma perché egli pretende di ridurla al livello discorsivo,  non elevarsi ad essa.  Né verità, né libertà, né amore  egli evita così ogni giorno di contraddire, o di tradire.
Soltanto la reintegrazione dello spirituale si può ravvisare come Rivoluzione. Ogni forma rivoluzionaria che contraddica tale reintegrazione  non può che essere espressiva di impulsi morti del passato, tendenti ad affermarsi mediante finzione  di rinnovamento esteriore. Quasi tutti gli attuali rivoluzionari sono in tal senso inconsapevoli conservatori. La vera impresa richiede  la consacrazione della conoscenza,  un SACRO AMORE che attinga consapevolmente alle forze basali della vita, là dove l’individuale affonda nel superindividuale e accoglie le idee viventi  che trasformano la realtà umana. […]
I critici della civiltà, i filosofi del “rifiuto”  o della protesta abbondano. Ma  il superamento della tecnologia non è la critica, o il romantico rifiuto, del suo sistema formale, o l’incomposta distruzione  dei suoi prodotti o delle sue compagini, bensì l’atto del pensiero  che si rende indipendente da essa  e usa di essa secondo la richiesta dello spirito. […]
Da questa corrente di vita [cioè dal pensiero puro, nel suo immediato darsi] può scaturire un pensiero nuovo, risolutore del male della dialettica: può scaturire il pensiero rivoluzionario. Il trapasso del pensiero alla propria corrente di vita  è  l’esperienza più alta dell’uomo, perché è la correlazione ritrovata: con l’essere, con la natura,  con l’essenza, con l’altro,. La correlazione è stata perduta dall’uomo razionale: egli può ritrovarla ove redima la propria razionalità, non eludendola mediante ulteriori forme razionali, bensì possedendo il movimento grazie a cui essa è razionalità.
La correlazione ritrovata è l’amore: l’uomo può riconoscere per virtù ideale ciò che, unendo un essere all’altro nella profondità originaria del sentire e del volere, determina la loro storia e il loro destino. In tal senso la conoscenza diviene ispirazione dell’operare sociale. Solo un SACRO AMORE, riacceso dalla conoscenza, può restituire all’uomo l’elemento vivente della conoscenza: la verità della relazione con l’altro, con l’essere, con la vita.
La conoscenza diviene liberazione: a colui che consegue tale liberazione, o rivoluzione di sé, ogni essere rivela la causa originaria che lo porta sulla scena del mondo ad apparirgli secondo una determinata parvenza, simbolo di un grado del valore dell’Io. La realtà medesima gli suggerisce l’atto della coscienza che le è necessario a ricongiungersi con il proprio essere originario, a cui la forma illusoria o dialettica dell’Io ogni volta la sottrae.»

L’uomo non può spogliarsi veramente del senso del mistero, perché esso fa parte della sua stessa umanità, della sua struttura ontologica fondamentale. Non è vero che appartiene ad epoche lontane o, comunque, superate; non è vero che ne aveva bisogno bensì l’uomo delle culture pre-moderne, mentre l’uomo moderno non ne ha più bisogno, non lo sente più, non trova alcuno spazio, per esso, entro la sua anima. È vero il contrario: il senso del mistero appartiene all’uomo di ieri, di oggi e di domani, all’uomo di sempre; il giorno in cui non ne avvertisse più la presenza, o la mancanza; il giorno in cui potesse davvero farne a meno, liberarsene, gettarselo dietro le spalle, come un rimasuglio del passato: ebbene, quel giorno l’uomo non sarebbe più uomo, sarebbe divenuto qualche cosa d’altro, una creatura post-umana, più simile a un calcolatore elettronico che a un vivente e a un senziente: qualche cosa di semi-artificiale, di totalmente staccato dalla natura, ma in gravissima contraddizione con se stesso: perché l’uomo è, in senso fisico, una creatura naturale, e questo dato può essere, in parte, trasceso, giammai negato o rinnegato. L’uomo, in altri termini, può cercar di diventare altro da quel che è, ma non può simulare di essere quel che non è; inoltre, se vuole superare la propria umanità, deve cercar di farlo per una strada solitaria, individuale, con la sola compagnia dell’Essere; non può farlo collettivamente, non può farlo per forza d’inerzia, né può farlo – o, magari, farselo fare - per decreto.
Così come la felicità, cui aspira, non può essere instaurata per decreto: anche se la si considera un “diritto”, anche se la si inserisce nella Costituzione degli Stati, non per questo la si farà scaturire dal nulla, come Mosè fece scaturire l’acqua dalla roccia, allorché gli Ebrei stavano per morir di sete nel deserto: possiamo raccontarci tante belle storie sul progresso e sulle magnifiche sorti che ci attendono in virtù di esso, ma una cosa non possiamo fare: inventare quello che non esiste, comandare alle cose di obbedirci, anche se non possediamo altro che tecniche per manipolarle superficialmente, mentre non possediamo alcuna idea di quello che significa abbandonare il proprio ego, liberarsi dalla schiavitù della brama e del timore, riscoprire la dimensione dell’amore che non pretende, che non esige, che non opprime alcuno, ma che si apre e che dona, semplicemente, benevolmente, pacificamente.
Ecco, allora, che l’unica rivoluzione possibile, e quella veramente necessaria, è la rivoluzione interiore: la riscoperta del Maestro interiore, dalla cui voce – purché si sia capaci di fare silenzio al centro della propria anima – si apprende ciò che realmente serve, si apprende l’essenziale. L’essenziale è prendersi cura di sé, portando alla luce la propria parte migliore, la parte luminosa, generosa, benevola, amorevole e disinteressata; il problema è che la maggior parte delle persone, per la maggior parte della loro vita, trascurano l’essenziale per correre dietro al superfluo, trascurano il silenzio per stordirsi con mille rumori, trascurano ciò che è bene per ciò che credono utile, ciò che è giusto per quel che credono piacevole, ciò che è vero per quel che credono comodo, facile, redditizio e soprattutto senza rischi, né sacrifici.
Intanto sono molti, troppi, i falsi maestri che aggravano il male dell’uomo moderno aggiungendo confusione a confusione: propongono tecniche di meditazione e di consapevolezza, come si propone una determinata merce da acquistarsi mediante catalogo: il malessere c’è ed è reale, ma chi ne soffre, non rendendosi conto di quel che significa, di quale sia la sua origine e la sua causa, cerca una soluzione nella direzione sbagliata, si rivolge a chi non è in grado di aiutarlo, si affida, cieco, a un altro cieco, che lo trascinerà nel precipizio insieme a sé. Infatti non esistono tecniche preconfezionate, non esistono vie buone per tutti: e nessun maestro serio si fa pagare, né si offre al primo che lo cerca; ma sempre, ovunque, il maestro serio è colui che sceglie il proprio discepolo, che lo chiama, che lo riconosce adatto e vuole metterlo alla prova. I maestri seri, però, sono merce rarissima; meglio, allora, piuttosto che affidarsi a qualche impostore, a qualche lupo travestito da agnello, a qualche confusionario che aggraverà il male, invece di diminuirlo, affidarsi al Maestro interiore: vale a dire, in ultima analisi, a Dio.
Il cerchio, così, si chiude, e si chiude nella maniera giusta: dall’Essere veniamo, all’Essere faremo ritorno; tutta la nostra esistenza non è che una ricerca della strada perduta, del sentiero interrotto che ci consenta di ritornare alla dimora dell’Essere, nella luce e nel calore del Suo amore infinito. Uniti all’Essere, difatti, noi possiamo fare quasi tutto; separati da esso, ignari di esso, dimentichi di esso, noi non possiamo fare assolutamente niente. Tale è la nostra natura di creature, di enti che possiedono l’essere, che sono partecipi dell’essere, ma che non sono l’Essere, e che ne hanno, dunque, una santa e perenne nostalgia.
Sopprimere in sé il senso del mistero, significa anestetizzare quella santa e benefica nostalgia, ed interrompere, forse per sempre, la strada che porta alla casa dell’Essere. E perdersi, così, nel nulla…

L’unica rivoluzione possibile e necessaria è la rivoluzione interiore

di Francesco Lamendola
Articolo d'Archivio 

Già pubblicato il 30 Gennaio 2015
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/cultura-e-filosofia/filosofia/4766-unica-rivoluzione-possibile


"Su chi e su cosa deve trionfare il Cuore Immacolato di Maria"? Una riflesisone del padre Manelli, Fondatore degli FI


« Oggi, su chi o su che cosa deve “trionfare” il Cuore Immacolato di Maria, secondo la profezia di Fatima?

Sulle prime, la risposta a questo interrogativo potrebbe sembrare molto impegnativa e difficile; ma basta riflettere poco per capire che, invece, essa si presenta piuttosto semplice e agevole. Perché?…

Perché ormai è ben sotto gli occhi di tutti lo scenario raccapricciante delle cose terribili che accadono in questo mondo, a livello pressoché planetario, a danno micidiale dei valori più alti e vitali che vengono profanati e turlupinati fino al sacrilegio e all’omicidio, fino alla disperazione e al massacro:

Gli errori che dilagano contro la verità;

il mondo che si ribella e si erge contro Dio;

la corruzione più devastante che deturpa la morale;

la morte assassina che uccide la vita più innocente.

Che cosa non son capaci di fare oggi gli uomini nel male? Gli inizi di questo terzo millennio segnati dal colossale attentato terroristico delle “due Torri” a New York da parte dell’Islam, con l’assassinio di circa tremila persone, sono un segno allarmante, per non dire terrificante!


Sul quadrante della storia del pianeta terra, oggi, anche chi non volesse vedere, non potrebbe non vedere e registrare il compimento e la consumazione dello “sfacelo di tutti i valori”, come disse san Pio da Pietrelcina, un giorno, sul finire della vita, dopo il 1960.

Sono a vista di tutti oggi:

la Religione e la Verità ridotte a sincretismi aberranti e da stupidi;

la morale e i costumi gestiti da un relativismo dominato dal più rivoltante pansessualismo;

la vita umana assoggettata a forme assassine di morte violenta, legiferata (aborto, massacro di embrioni), organizzata (guerre, terrorismi, ingegneria genetica…) o pre-respinta, sia al suo inizio (contraccezione) che al suo termine (eutanasia),gestita a base velenosa di droghe, psichedelici, alcool…;

la famiglia e il matrimonio ridotti allo sfascio dell’indissolubilità e della fedeltà, oltre che della fecondità (divorzio, separazione, adulterio, convivenza selvaggia, poligamia, libertinismo…);

la gioventù, ridotta pressoché tutta a rischio di droga, di mode femminili da prostitute, di rock-and-roll, di sesso sfrenato senza più ritegno.

Che cosa più? Siamo al vero “pan-demonio!”.

Orbene, su questa realtà sociale, spaventosa in cui si trova a vivere la Chiesa, è chiamato dunque a “trionfare” il Cuore Immacolato di Maria».

Tratto da:

Padre S. M. Manelli, FI, Fatima tra passato, presente e futuro, in Maria Corredentrice. Storia e Teologia, Casa Mariana Editrice, Frigento 2007 (Bibliotheca Corredemptionis Beatæ Virginis Mariæ. Studi e ricerche, 10), vol. X, pp. 229-231

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