ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 15 aprile 2018

Dire la verità, è scomodo

COMBATTERE PER LA VERITA'



Vale la pena di combattere per la "verità" ? i galantuomini provano vergogna per non sentirsi utili, i "cialtroni" al contrario si sentono soddisfatti di se stessi, se: "fingendo di fare non fanno e fingendo di essere non sono" 
di Francesco Lamendola   

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Nella cerchia delle nostre amicizie e conoscenze si va diffondendo una nuova e scoraggiante sensazione, in genere proprio fra le persone migliori, le più intelligenti, le più sensibili, le più consapevoli di quel che sta accadendo nella società e nel mondo: quella di essere inadeguate, nel senso di non sentirsi più all’altezza (o alla bassezza?) dei tempi attuali, di essere completamente incapaci di adeguarsi e così di sentirsi “utili”. Se una persona si sente tagliata fuori dai processi sociali, economici, culturali, finisce per maturare un senso di colpa, un po’ come un gran lavoratore il quale, perso il lavoro, o pensionato in anticipo dalla sua azienda, ciondola fra il bar e una panchina dei giardini pubblici, ma non si gode per niente le giornate libere, si vergogna, vorrebbe quasi sparire sotto terra ogni volta che incontra un ex collega per la strada. E già questo sentimento attesta il livello morale della persona: perché solo i galantuomini provano vergogna per il fatto di non sentirsi utili alla società, mentre i cialtroni non solo non proveranno mai niente di simile, ma, al contrario, si sentono furbi e soddisfatti di se stessi se, fingendo di fare, non fanno, e fingendo di essere, non sono. Questa, peraltro, è una legge generale: i migliori sono pieni di scrupoli, i peggiori no. Il problema diventa pesantissimo, e praticamente irrisolvibile, quando nella società si creano le condizioni perché i migliori, sia moralmente, sia professionalmente, vengano oggettivamente ostacolati e penalizzati non in quanto singole persone, ma proprio in quanto sono i migliori, e i peggiori si trovino oggettivamente favoriti e agevolati proprio per il fatto di essere i peggiori: quelli disposti a vendersi, a mentire, a tradire, a fare qualsiasi cosa pur di curare i propri interessi, magari al servizio di un sistema politico-sociale ingiusto e corrotto.

Ebbene, in questi ultimi anni a noi sembra che si siano create esattamente queste condizioni. Esiste, oggettivamente, una selezione alla rovescia, dove i peggiori vanno avanti e i migliori restano al palo, quando non vengono addirittura retrocessi (fino al punto di andare in prigione, o di dover espatriare); e quindi si accentua, soggettivamene, il senso d’inadeguatezza dei migliori, il loro senso di frustrazione, inutilità e amarezza, mentre cresce la baldanza dei peggiori, dei più cialtroni, dei più cinici e amorali, che sono anche, il più delle volte, i meno dotati sotto il profilo professionale, e tuttavia si vedono aperte tutte le porte e incoraggiati nelle loro più sfrenate ambizioni. Tutto ciò rappresenta il problema forse più drammatico che, dal punto di vista antropologico, si sia mai posto alle persone nel corso degli ultimi cento anni. La marcia all’incontrario della morale che si è determinata nell’ultimo secolo ha provocato una marcia all’incontrario nell’economia, nella finanza, nella cultura, nella ricerca, nelle professioni. Oggi le regole sono talmente cambiate che è divenuto normale fare ciò che, una o due generazioni fa, sarebbe stato vergognoso. Oggi il “bravo” imprenditore fa come Marchionne, porta la sua azienda all’estero per non pagare le tasse, dopo aver ricevuto una pioggia di denaro dallo Stato; e nessuno lo critica, né, tanto meno, lo considera un disonesto. Allo stesso modo, un imprenditore che chiude le sue fabbriche e trasferisce il suo capitale in titoli di borsa non è visto come un parassita sociale, ma viene giustificato: e, in un certo senso, è giustificabile, almeno fino a quando vi saranno governi i quali, invece di difendere la produzione e il lavoro, pensano solo a proteggere gli interessi delle banche. Ma sta di fatto che, in un mondo così, le vecchie regole etiche sono completamente saltate, e che solo chi abbia quattro dita di pelo sullo stomaco può andare per la sua strada e curare i suoi interessi senza sentirsi a disagio con la propria coscienza. Dei cosiddetti intellettuali, meglio non parlare nemmeno: sono pressoché tutti a libro paga, pontificano nei salotti e pubblicano libri a getto contino per lustrare gli stivali al potere finanziario, ma non si sentono in colpa: a sentirsi in colpa sono i pochi galantuomini rimasti, i quali rimproverano a se stessi di non fare abbastanza per denunciare l’asservimento della cultura e l’imbarbarimento dell’informazione, retrocesse al ruolo di tappetini sui quali si puliscono le scarpe i veri detentori del potere, dietro la trasparente finzione della democrazia.
Sorge inevitabile, a questo punto, una domanda: vale la pena che quei galantuomini se la prendano tanto calda? Che mettano in gioco la carriera, la salute, i risparmi (perché il potere è assai vendicativo e cerca di ridurre al silenzio chi lo critica a colpi di querela, chiedendo risarcimenti finanziari esorbitanti), quando gli altri, la gente comune, non paiono affatto interessati alla loro battaglia, sono in tutt’altre cose affaccendati, cioè il tran-tran consumista, i pettegolezzi della tv spazzatura, o, al massimo, la partita di calcio? Anche il galantuomo più nobile e disinteressato, quando ha perso il lavoro, quando ha visto stroncata la carriera, quando si trova pieno di querele e di processi da sostenere, e di conti dell’avvocato da pagare; quando comincia a somatizzare tutto ciò sotto forma di malattie; quando la moglie gli rimprovera di pensare sempre ai suoi ideali e di trascurare i suoi interessi, la sua famiglia, e magari gli fa notare che lei non può concedersi neanche il più piccolo lusso, mentre le amiche che hanno sposato i suoi colleghi più cinici e trafficoni, anche se meno dotati, sfoggiano ogni giorno un vestito diverso, ogni settimana un’acconciatura diversa e ogni mese una nuova pietra preziosa? E quando i suoi figli non riescono a trovare un lavoro, pur avendo ottimi titolo di studio, mentre i figli dei suoi colleghi cialtroni sono già perfettamente inseriti e magari occupano, fin dall’inizio, delle poltrone da dirigenti, con emolumenti mensili a cinque zeri, pur essendo del tutto sprovvisti di esperienza? Sono domande che, prima o dopo, si fa anche il più idealista, il più cavalleresco, il più donchisciottesco dei paladini della Virtù; e, se non se le fa lui, gliele fanno i suoi familiari, i suoi amici, magari, com’essi dicono, per il suo bene, cioè per aprirgli gli occhi, per risvegliarlo dal sogno alla realtà.
La domanda che si fa il galantuomo non è, naturalmente, se valga la pena di essere galantuomini in una società costruita sulla misura dei cialtroni – una simile domanda non potrebbe mai farsela, perché, qualora se la facesse, tradirebbe se stesso – ma se valga davvero la pena di darsi tanto da fare per svegliare gli altri, per informare gli altri di come stanno realmente le cose, per mettere in guardia gli altri sul vero significato di ciò che sta accadendo intorno a noi. In altre parole: perché bisognerebbe affannarsi a voler svegliare di dormienti, se costoro sono beati e felici nei loto sogni voluttuosi? A che scopo dire apertamente come stanno le cose, gridarlo dai tetti, a proprio rischio e pericolo, per non ricevere nemmeno un grazie, anzi, con la quasi certezza di andare incontro a incomprensioni, malignità, calunnie, derisione e, forse, di dover risarcire danni inesistenti a qualche furbastro arrogante, che ha le leggi dalla sua parte, perché anche le leggi sono fatte in modo da favorire i cialtroni e da penalizzare i galantuomini? Conosciamo personalmente alcuni di questi galantuomini che si sono ammalati, che si sono resa la vita ancor più difficile per aver voluto restare fedeli a se stessi, al loro modo di essere; alcuni che lottano contro la depressione, in silenzio, senza alcun clamore, laddove altri, al loro posto, indosserebbero la divisa della vittima e sfrutterebbero i loro mali per strappare almeno un po’ di umana commiserazione. Ma è certo che una persona fiera e dignitosa non prenderà mai questa strada, non verrà mai sfiorata da simili tentazioni; nondimeno, anch’essa dovrà pagare un prezzo, prima o poi, perché andare sempre controcorrente risulta terribilmente faticoso, e così pure il fatto di poter contare solo su se stessa o, al massimo, su pochissimi amici, però senza alcun appoggio fra la gente che “conta”. Che cosa si può dire, che cosa si può consigliare a queste persone, mettendosi dal punto di vista del loro bene: di seguitare a fare quel che hanno fatto sinora, oppure di cominciare a tirare i remi in barca, di risparmiarsi un poco, di imparare un po’ di sano egoismo e, perciò, di non esporsi troppo e di non sperperare le loro energie, il loro tempo, la loro salute, tanto più per una causa già persa in partenza? È questo che si può, che si deve dir loro, se si nutre realmente dell’amicizia nei loro confronti? Da un punto di vista puramente realistico, parrebbe di sì. Difficile negare che la loro sia una causa persa; che i loro sforzi siano pressoché inutili; che non vale la pena di consumarsi in una battaglia in cui essi pretendono di difendere chi non vuol saperne di essere difeso, perché non ammette di essere in pericolo, e, invece di mostrare verso di essi della riconoscenza, sarà forse il primo a scagliare le pietre contro di loro, quando verrà il momento. E tuttavia…

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Dire la verità è scomodo: sia dirla a se stessi che dirla agli altri. Pochi la reggono, pochissimi la sanno guardare in faccia


Vale la pena di combattere per la verità?

di Francesco Lamendola

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 Lottare per la verità: ma cos’è la verità?


diFrancesco Lamendola
 Lottare per la verità: ma cos’è ? siamo sicuri della "verità", ché neppure Cristo rispose a Pilato e la menzogna trionfa oggi, spacciata per "verità" e con un popolo doppiamene ingannato dalle sue guide politiche e spirituali ? 

Al precedente articolo: Vale la pena di combattere per la verità? (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 15/04/2015), un carissimo amico ci ha risposto con una lettera affettuosa e commovente, che ci è parsa meritevole di essere riprodotta quasi per intero, tali e tanti sono gli spunti di riflessione a cui si presta, su un tema che sappiamo essere alquanto sentito, nei termini di una attualità che potremmo definire quasi drammatica:
Ti capisco, ma penso anche a coloro che, sposata una causa oramai chiaramente persa, sono andati a combattere per " l' onore d' Italia " e hanno fatto la fine che hanno fatto e ottenuto la “damnatio memoriae”. Vale pena sfidare il mondo a duello per l' "onore" di una battona?  Le forze in campo oggi sono tali che una  tal lotta impari non  ha, a mio parere,  nessun senso. Non dico di anteporre il proprio "particulare", ma almeno accontentarsi di non cooperare al male, e mantenere vigile la facoltà di leggere la realtà, di andare al precipizio a cui siamo condotti almeno sapendolo, e non come oche giulive. Scarsa consolazione!  Eppure… “semper sapientis est habitum necessitati parere” - e anche in passato la “iniquitas temporum” ha consigliato o imposto di non occuparsi della “res publica”. Quanto alla Chiesa, mai come ora mi chiedo cosa in essa  ci sia stato  di vero e di santo, visto che tutte le mutazioni intervenute negli ultimi tempi depongono per una natura puramente umana di essa. Ho sostenuto la mia lotta personale per la fede, anche tacitando la ragione, quando almeno c' erano motivi per credere e una fede per cui valeva la pena di lottare.  Ma di fronte alle pagliacciate dei tempi ultimi e alla pochezza degli uomini di chiesa, non sento più alcun desiderio. Il fatto che mi vogliano far vedere la luna nel pozzo mi irrita e lo sento come una offesa alla logica e all'intelligenza. Pago naturalmente con un senso di frustrazione e inutilità, con la solitudine e l' incomprensione - anche in famiglia. Ma se tanto mi dà tanto, che vale nelle fata dar di cozzo?
Mio padre che aveva visto i tempi suoi, il sacrificio generoso della Folgore e dell' VIII Bersaglieri a El Alamein  e poi le giravolte e i voltafaccia e aveva sperimentato di che pasta son fatti per la maggior parte gli uomini, si teneva pure i suoi pensieri per sé e a un tale, ricco e possidente, che nel dopoguerra lo esortava ad opporsi al modo in cui andavano le cose, rispose che teneva sempre in casa un mazzo di fiori freschi da offrire al prossimo vincitore, chiunque fosse.
Non certo ti smuoverò con  queste mie diaboliche esortazioni ad una troppo umana  prudenza, e forse ragiono da vecchio e  da depresso e sconfitto, ma perché sacrificarsi e per chi?  Per la verità? e “quid est veritas ?”... “Sella in curuli struma Nonius sedet, per consulatum peierat Vatinius: Quid est, Catulle, quid moraris emori?”[…]
Ti aggiungo un altra osservazione: Onoro sull' altare del mio cuore  coloro che hanno combattuto fin nelle strade di Berlino.
Ma mi chiedo: battendoci per l'"onore" nostro o di Dio (e siamo  sicuri della "verità"? - ché neppure Cristo rispose a Pilato),  saremmo noi  eroici difensori di Termopili o solo patetici don Chisciotte bisognosi di un baccelliere Sansone Carrasco - cavaliere della Bianca Luna?

Sì: qui ci sono veramente tutte le possibili obiezioni a quanto andiamo sostenendo da sempre, ossia che non si può tacere, mentrela menzogna trionfa, spacciata per verità, e il popolo italiano viene doppiamene ingannato e tradito, dalle sue guide politiche e dalle guide spirituali, le une e le altre colpevolmente alleate nel favorire interessi e disegni che non conducono al bene del nostro Paese e della nostra gente, ma, semmai, al bene di qualcun altro, di miliardari come George Soros e altri infami speculatori, impegnati a giocare sulla pelle dei popoli per ammassare ricchezze favolose con le quali imporre un totalitarismo planetario mascherato da filantropismo.
Dunque, visto che sono tante le persone che la pensano come il nostro amico, e visto che, a nostro avviso, è proprio in momenti storici come quello che stiamo vivendo, che bisogna evitare di scendere nelle catacombe e affrontare, invece, il nemico a viso aperto, a costo di passare per dei don Chisciotte (paragone comunque non disonorevole), vogliamo considerare con la massima serietà queste affermazioni, discutendole punto per punto.
Primo: Vale pena sfidare il mondo a duello per l' "onore" di una battona?  Le forze in campo oggi sono tali che una  tal lotta impari non  ha, a mio parere,  nessun senso. Rispondiamo che sì, vale sempre la pena di battersi, ma non per l’onore di una “battona”, bensì per il nostro: perché non potremmo più guardarci allo specchio, se ci tirassimo indietro proprio ora che nostra madre (perché quella battona è pur sempre nostra madre, anche se caduta molto in basso) si trova nel momento più triste e umiliante della sua esistenza. Una lotta così impari non ha alcun senso? Ma il senso della lotta non deriva dalle probabilità di successo, specie quando si tratta di una lotta ideale. Ci si batte perché si crede che quella causa meriti di essere difesa e non perché si spera di vincere; né ci si rifiuta di battersi perché si teme di perdere. Altrimenti, portando il ragionamento del nostro amico fino all’estremo (e sappiamo che tale non è il suo caso), le uniche battaglie meritevoli di esser combattute sarebbero quelle in cui esiste una fondata probabilità di vittoria; ma a quel punto ci pare che non sarebbe più neanche necessario combattere, perché basterebbe aspettare che il frutto maturo della vittoria ci cada in grembo, quando l’avversario si sarà totalmente indebolito. Giungeremmo così alla conclusione, assurda oltre che immorale, che le uniche battaglie meritevoli di essere combattute sarebbero proprio quelle che non ci sarebbe bisogno di combattere, essendo la vittoria solo questione di tempo e di pazienza. Ossia: per un eccesso di prudenza, ci metteremmo in condizione di espropriarci da noi stessi dell’unica arma davvero vincente che possediamo, e che qualsiasi uomo, volendo, possiede: la volontà di battersi. Chi non ha questa volontà, è sconfitto in partenza, anche se, per ipotesi, si trovasse a disporre di una schiacciante superiorità materiale su qualunque avversario. Viceversa, chi crede nella propria causa, nella sua bontà e nella sua legittimità, è già vittorioso ancor prima di arrivare alla linea del fuoco: perché la vittoria più importante, quella di ordine morale, gli appartiene di diritto sin dal principio, quando ancora non è stato sparato un solo colpo. Lo diciamo senza alterigia e senza compiacimento: la posta in gioco, nelle battaglie di ordine ideale, è, innanzitutto e soprattutto, quella morale, perché i suoi risultati si prolungano al di là e al di fuori del tempo e dello spazio: appartengono all’eternità e saranno patrimonio di tutti. Viceversa, le battaglie condotte per ragioni di tipo materiale e concreto, ancorché si tratti di aspirazioni e rivendicazioni assolutamente lecite, non arriveranno mai a tanto: si fermeranno, per forza di cose, e nel più fortunato dei casi, sulla soglia di casa.
Secondo: anche in passato la “iniquitas temporum” ha consigliato o imposto di non occuparsi della “res publica… A nostro parere, non è questione di passato o di presente; non è questione di tempi più o meno nefandi, più o meno ingrati per gli amanti della res publica. Al contrario, lo ripetiamo: quale tempo è più necessario, quale tempo ha maggiormente bisogno di noi, di ciascuno di noi, se non quello in cui i migliori vanno perdendo le speranze, e pare che solo un miracolo ci possa ancora trattenere sull’orlo dell’abisso? È proprio in simili frangenti che bisogna mettersi in gioco; per correre in aiuto del probabile vincitore per saltare sul carro di chi ha già vinto, non c’è bisogno di amletici dilemmi, né di sottili ragionamenti: il mondo è pieno di mosche cocchiere e di aiutanti del più forte; quello di cui si sente il bisogno, è che qualcuno corra in aiuto del più debole, beninteso se costui merita la nostra solidarietà, la nostra stima e la nostra amicizia. Gli uomini migliori sono sempre stati di questa opinione. Forse che Dante si chiese se gli sarebbe convenuto entrare a far parte del consiglio dei Priori, quando la sua Firenze era dilaniata dai contrasti fra Bianchi e Neri e il suo migliore amico, Guido Cavalcanti, si era reso responsabile di azioni meritevoli dell’esilio, per la pace e la serenità cittadine? Dante avrebbe avuto cento buone ragioni per tirarsi indietro, per stare a vedere cosa sarebbe accaduto nei prossimi mesi: se lo avesse fatto, non sarebbe stato condannato all’esilio, né alla confisca dei beni e, infine, alla pena capitale in contumacia. Ma egli non fece tali ragionamenti: non si tirò indietro; accettò di mettersi in gioco, di affrontare il pericolo supremo per il bene della patria; e votò con gli altri la condanna all’esilio per i più violenti delle due fazioni, compreso il suo amico Guido. È per questa sua magnanimità, oltre che per la sua gloria poetica, che egli vive ancora nel ricordo di tutte le generazioni; scegliendo il massimo rischio e la massima scomodità per se stesso, ha guadagnato l’immortalità. Oppure pensiamo a Severino Boezio: la più elementare prudenza gli avrebbe suggerito di tacere, di non esporsi allorché il senatore Albino venne accusato di tradimento davanti al re Teodorico: ma egli non ascoltò la voce della prudenza, bensì quella dell’onore, della virtù e dell’amore per la giustizia. Non ragionò da piccolo uomo preoccupato di se stesso, ma da uomo grande, pensoso del bene comune e dei destini dell’Italia. Se oggi abbiamo due tesori come laDivina Commedia e la Consolazione della filosofia, è perché questi due giganti scelsero la strada più malagevole, la più rischiosa, la più ingrata, ma la sola che venisse indicata loro dal rispetto di se stessi. Dante fu criticato e calunniato dai suoi concittadini, Boezio era stato criticato aspramente e abbandonato dagli altri senatori, laddove entrambi si erano esposti per difendere la causa di tutti. Non importa: la storia ha giudicato quei fiorentini e ha giudicato quei senatori, e poi ha scordato i loro volti; ma i nomi di Dante e di Boezio brilleranno di gloria imperitura.
Terzo: Ho sostenuto la mia lotta personale per la fede, anche tacitando la ragione, quando almeno c' erano motivi per credere e una fede per cui valeva la pena di lottare. Ma di fronte alle pagliacciate dei tempi ultimi e alla pochezza degli uomini di chiesa, non sento più alcun desiderio. I motivi per credere (o meno) ci sono sempre, e oggi ce ne sono anche più di un tempo; vale sempre la pena di lottare per la fede. Certo, essere scoraggiati è cosa umana: perfino gli Apostoli si scoraggiarono quando Gesù venne arrestato, processato e crocifisso; eppure si ripresero quasi subito e poi fecero quel che dovevano: andarono in ogni angolo del mondo a predicare il Vangelo. Le pagliacciate della neochiesa e la pochezza degli uomini ci ricordano che la carne è debole e che tutti, noi compresi, senza il sostegno della grazia, non siano che poveri essere di creta. Però, con il soffio dello Spirito, possiamo fare grandi cose: non per merito nostro, ma per l’opera e la gloria di Dio. In ogni caso, la messe è molta e gli operai sono pochi, quindi c’è bisogno di tutti.
Quarto: Mio padre (…) a un tale (…) lo esortava ad opporsi al modo in cui andavano le cose, rispose che teneva sempre in casa un mazzo di fiori freschi da offrire al prossimo vincitore, chiunque fosse. Sì: ma tuo padre si era battuto a El Alamein. Non solo: nel campo di prigionia, negli Stati Uniti, aveva rifiutato di aderire al vergognoso tradimento di Badoglio, insieme a tanti altri, subendo un più duro trattamento da parte dei vincitori (nonché “liberatori”). Si era dunque battuto due volte, prima con le armi (nettamente impari rispetto a quelle del nemico) e poi con la sola arma che gli fosse rimasta: la fierezza. E con ciò si era anche guadagnato il diritto di essere un po’ cinico, negli anni del dopoguerra. Ma noi, che non ci siamo mai battuti sul serio, non abbiamo quel diritto.
Quinto: Perché sacrificarsi e per chi?  Per la verità? e “quid est veritas ?”(…) E siamo  sicuri della "verità"? Neppure Cristo rispose a Pilato. Sì, siano sicuri: la verità è l’essere; quindi, la verità è Dio. Come Lui stesso ci ha insegnato: Io sono la via, la verità e la vitaGesù non ha risposto a Pilato non perché non avesse parole da dirgli, ma perché quello non l’ascoltava più: e Gesù parlava solo con chi aveva l’animo disposto ad ascoltare. Quella di Pilato, cos’è la verità?, non era stata una vera domanda, piuttosto un’affermazione scettica. Ma Gesù, per testimoniare la verità, che era Lui stesso in quanto fedele esecutore della volontà del Padre, seppe andare sino in fondo, senza riguardo per se stesso e neppure per i suoi: si può immaginare uno strazio più grande di quello di sua Madre, ai piedi della croce? E Lui glielo avrebbe imposto, se non avesse creduto nella verità?
Sesto: Battendoci per l'"onore" nostro o di Dio, saremmo noi  eroici difensori di Termopili o solo patetici don Chisciotte bisognosi di un baccelliere Sansone Carrasco? Non saremmo né eroici difensori delle Termopili, né patetici don Chisciotte; o forse saremmo un po’ l’una e un po’ l’atra cosa. Come le si può nettamene separare? Non vi è qualcosa di eroico in don Chisciotte, e qualcosa di folle nei trecento spartani di Leonida? C’è bisogno di entrambe le cose: eroismo e follia. A meno di voler restare alla finestra mentre gli altri fanno la storia, in attesa di vedere come andrà a finire. Il male della storia è quando gli uomini si scordano che a farla non sono loro, ma Dio per mezzo di loro; e che Dio sa scrivere dritto anche sulle righe storte. Oggi, le righe della storia sono più storte che mai; e così quelle della Chiesa. Ma Dio, che può tutto, non saprà trarre il bene anche dal male?

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