Appunti sulla questione liturgica
La questione liturgica nei suoi sviluppi recenti pare tutto fuorché semplice, essa si presenta piuttosto come un intreccio di fattori molto complessi, la cui soluzione resta sospesa. Personalmente mi piace evocare lo Scisma d’Occidente o Grande Scisma, che lacerò la Chiesa in tre fazioni a cavallo del quindicesimo secolo; allora si trattava di Roma, Avignone e Pisa, oggi si tratta delle tre forme nel rito latino: ordinaria, extra-ordinaria e neo-catecumenale, una sorta di “Grande Scisma Liturgico”.
Le immagini di alcune celebrazioni, in cui si vedono l’altar maggiore (forma extra-ordinaria), l’altare che guarda il popolo (e dà le spalle a Dio? - forma ordinaria) e l’altare che mette al centro la menorah (e non la croce - forma neo-catecumenale) è eloquente dello strappo liturgico che stiamo vivendo. D’altronde in questi ultimi anni si assiste a una vivacità di piccoli gruppi molto motivati, che va rinnovando dal basso la crisi imperante. Per usare una seconda analogia, potremmo parlare di “Globalizzazione Liturgica”: una rete di costumi che rompe gli argini spazio-temporali (il gusto ispanico di Kiko si affianca alla romanitas; l’antico incalza il nuovo) e debilita qualsiasi gerarchia (al punto che paradossalmente la forma più stanca e abusata è l’ordinaria).
Circa la forma neo-catecumenale oggi non si sente più dire nulla, ma non ne colgo il motivo. L’esistenza di una terza forma, vagamente normata, messa in atto da una comunità poderosa, contro la quale nessuno ha il coraggio di esprimersi, mi spiazza. Parliamo di una realtà ecclesialmente forte, quella del Cammino, di cui però sono note alcune ombre a livello di teologia (liturgica e non solo). Perché se ne tace? Perché questo enorme movimento è silenziato? Perché il problema è il ritorno al gregoriano ma non le melodie spagnoleggianti? Il criterio è forse il successo? Siccome il Cammino riempie le chiese, ecco che i Pastori o temono di frenarlo oppure si compiacciono dei numeri alti? C’è al contempo un monitoraggio appunto pastorale che valuti l’armoniosità di questo fenomeno con il resto della Chiesa? Attenzione, non sto interrogando i neo-catecumenali, sto chiedendo ai debiti inquisitori se van facendo il loro mestiere. E lo chiedo perché , a fronte di tante polemiche anti-tridentine (per così dire) non ne sento alcuna circa il Cammino e, nella fattispecie, circa le sue prassi liturgiche che amo definire una terza forma rituale de facto.
Circa la forma ordinaria, ho l’impressione di un certo provincialismo. Dopo 50 anni siamo sempre attorno alle solite quisquilie: dare più spazio alle donne, imitare la simbologia secolare (o pagana e insomma negare le nostre radici), perdersi in improbabili strategie logocentriche e semantiche. Stiamo sull’ultimo aspetto: non vi pare terribilmente banale la questione del Padre Nostro rinnovato? Tra tanta sciatteria liturgica e teologica, è da una frase del Pater che ci risolleveremo? Che poi, nella fattispecie, il progetto mi pare sintomatico di una crisi irrisolta, elenco i motivi di questo asserto. 1) Antropologicamente, la grande sfida linguistica liturgica è il recupero della lingua sacra e il Pater è una delle poche preghiere con cui potremmo rieducare agilmente il popolo, io parlerei di un ritorno al latino e non di un ennesima correzione all’italiano. 2) Linguisticamente, il problema non si pone: gli originali greci e latini in nostro possesso dicono “non ci indurre in tentazione”, se polemizziamo contro tale fatto rischiamo di creare un senso di sospetto sulle fonti scritturistiche. 3) Tradizionalmente, i gravi problemi sollevati dal Testo Sacro erano risolti – magari con una certa drasticità – o sottraendo il testo ai fedeli, oppure integrando il testo incensurato con debite catechesi; l’opzione che va prevalendo invece sacrifica la verità del testo e al contempo azzera il valore della catechesi che dovrebbe accompagnarlo: sviliamo la Bibbia e il Catechismo in un sol colpo. 4) Filologicamente, il discorso si basa su ipotesi inverificabili circa la lingua semita di Gesù, che noi verremmo a rendere in lingua italiana fornendo neppure una traduzione ragionata, quanto una interpretazione teologica (come dimostra don Morselli). Questo è scorretto. 5) Liturgicamente, e al di là di tutte le ambiguità generate dai punti appena presentati, tale ulteriore modifica sarebbe percepita come l’ennesimo cambiamento, occasione di confusione, messa in forse della tradizione ereditata, origine di perplessità: tutte cose di cui il nostro popolo, già liturgicamente debole, non abbisogna. 6) Culturalmente, la ricezione di tale modifica rischia di sbilanciare ancor più le predicazioni sul versante del misericordismo – gli ultimi anni ce ne hanno dati esempi tristi, e ho in mente il clero e non il Sommo Pontefice – con perpetuato oblio delle verità dure della fede (Timor di Dio, Ira di Dio, Novissimi, etc.). 7) Storicamente, lo ribadisco, ci troviamo di fronte a un rigurgito sessantottino; avessero cambiato nel 69 anche questo testo, ne avremmo patito meno danno che a mutarlo ora. Queste le mie considerazioni. Provincialismo, per l’appunto. Non sarà esso a evangelizzare gli italiani.
Circa la forma extra-ordinaria, si conferma il diffondersi inarrestato, seppur forse meno fervidamente di un lustro addietro, dei gruppi tradizionali a cui si potrebbe rimproverare un eccesso di liturgismo: la vita di tali gruppi infatti si limita ancora troppo spesso alle sole celebrazioni e non contempla la cura di cammini comunitari e di formazione, né tanto meno il coordinamento di un impegno sociale (così io noto in ambito italiano).
D’altro canto – fenomeno inatteso – le prese di posizione del card. Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, stanno muovendo un processo di rinnovamento culturale liturgico vigoroso. La modalità sembra quella auspicata da Benedetto XVI: riscoprire nella ritualità tradizionale le forme che conferiscano nuovamente vigore e identità alla liturgia ordinaria. Gli interventi del porporato non si contano, tra conferenze, articoli e pubblicazioni, andando a riscoprire il senso del silenzio sacro, del canto liturgico, dell’orientamento celebrativo, della comunione in ginocchio: tutti retaggi del tridentino (cosiddetto). Mancano ancora in tal direzione disposizioni normative specifiche. E’ anche vero che, per ora, il guineano rimane al suo posto, nonostante sia nota la libertà con cui il Sommo Pontefice suole ridefinire gli incarichi dei sacri palazzi (e lo dico senza spirito di critica).
La soluzione credo non la possegga nessuno, prendere consapevolezza dello stato delle cose mi risulta il primo e imprescindibile passo per meritarsela.
Le immagini di alcune celebrazioni, in cui si vedono l’altar maggiore (forma extra-ordinaria), l’altare che guarda il popolo (e dà le spalle a Dio? - forma ordinaria) e l’altare che mette al centro la menorah (e non la croce - forma neo-catecumenale) è eloquente dello strappo liturgico che stiamo vivendo. D’altronde in questi ultimi anni si assiste a una vivacità di piccoli gruppi molto motivati, che va rinnovando dal basso la crisi imperante. Per usare una seconda analogia, potremmo parlare di “Globalizzazione Liturgica”: una rete di costumi che rompe gli argini spazio-temporali (il gusto ispanico di Kiko si affianca alla romanitas; l’antico incalza il nuovo) e debilita qualsiasi gerarchia (al punto che paradossalmente la forma più stanca e abusata è l’ordinaria).
Circa la forma neo-catecumenale oggi non si sente più dire nulla, ma non ne colgo il motivo. L’esistenza di una terza forma, vagamente normata, messa in atto da una comunità poderosa, contro la quale nessuno ha il coraggio di esprimersi, mi spiazza. Parliamo di una realtà ecclesialmente forte, quella del Cammino, di cui però sono note alcune ombre a livello di teologia (liturgica e non solo). Perché se ne tace? Perché questo enorme movimento è silenziato? Perché il problema è il ritorno al gregoriano ma non le melodie spagnoleggianti? Il criterio è forse il successo? Siccome il Cammino riempie le chiese, ecco che i Pastori o temono di frenarlo oppure si compiacciono dei numeri alti? C’è al contempo un monitoraggio appunto pastorale che valuti l’armoniosità di questo fenomeno con il resto della Chiesa? Attenzione, non sto interrogando i neo-catecumenali, sto chiedendo ai debiti inquisitori se van facendo il loro mestiere. E lo chiedo perché , a fronte di tante polemiche anti-tridentine (per così dire) non ne sento alcuna circa il Cammino e, nella fattispecie, circa le sue prassi liturgiche che amo definire una terza forma rituale de facto.
Circa la forma ordinaria, ho l’impressione di un certo provincialismo. Dopo 50 anni siamo sempre attorno alle solite quisquilie: dare più spazio alle donne, imitare la simbologia secolare (o pagana e insomma negare le nostre radici), perdersi in improbabili strategie logocentriche e semantiche. Stiamo sull’ultimo aspetto: non vi pare terribilmente banale la questione del Padre Nostro rinnovato? Tra tanta sciatteria liturgica e teologica, è da una frase del Pater che ci risolleveremo? Che poi, nella fattispecie, il progetto mi pare sintomatico di una crisi irrisolta, elenco i motivi di questo asserto. 1) Antropologicamente, la grande sfida linguistica liturgica è il recupero della lingua sacra e il Pater è una delle poche preghiere con cui potremmo rieducare agilmente il popolo, io parlerei di un ritorno al latino e non di un ennesima correzione all’italiano. 2) Linguisticamente, il problema non si pone: gli originali greci e latini in nostro possesso dicono “non ci indurre in tentazione”, se polemizziamo contro tale fatto rischiamo di creare un senso di sospetto sulle fonti scritturistiche. 3) Tradizionalmente, i gravi problemi sollevati dal Testo Sacro erano risolti – magari con una certa drasticità – o sottraendo il testo ai fedeli, oppure integrando il testo incensurato con debite catechesi; l’opzione che va prevalendo invece sacrifica la verità del testo e al contempo azzera il valore della catechesi che dovrebbe accompagnarlo: sviliamo la Bibbia e il Catechismo in un sol colpo. 4) Filologicamente, il discorso si basa su ipotesi inverificabili circa la lingua semita di Gesù, che noi verremmo a rendere in lingua italiana fornendo neppure una traduzione ragionata, quanto una interpretazione teologica (come dimostra don Morselli). Questo è scorretto. 5) Liturgicamente, e al di là di tutte le ambiguità generate dai punti appena presentati, tale ulteriore modifica sarebbe percepita come l’ennesimo cambiamento, occasione di confusione, messa in forse della tradizione ereditata, origine di perplessità: tutte cose di cui il nostro popolo, già liturgicamente debole, non abbisogna. 6) Culturalmente, la ricezione di tale modifica rischia di sbilanciare ancor più le predicazioni sul versante del misericordismo – gli ultimi anni ce ne hanno dati esempi tristi, e ho in mente il clero e non il Sommo Pontefice – con perpetuato oblio delle verità dure della fede (Timor di Dio, Ira di Dio, Novissimi, etc.). 7) Storicamente, lo ribadisco, ci troviamo di fronte a un rigurgito sessantottino; avessero cambiato nel 69 anche questo testo, ne avremmo patito meno danno che a mutarlo ora. Queste le mie considerazioni. Provincialismo, per l’appunto. Non sarà esso a evangelizzare gli italiani.
Circa la forma extra-ordinaria, si conferma il diffondersi inarrestato, seppur forse meno fervidamente di un lustro addietro, dei gruppi tradizionali a cui si potrebbe rimproverare un eccesso di liturgismo: la vita di tali gruppi infatti si limita ancora troppo spesso alle sole celebrazioni e non contempla la cura di cammini comunitari e di formazione, né tanto meno il coordinamento di un impegno sociale (così io noto in ambito italiano).
D’altro canto – fenomeno inatteso – le prese di posizione del card. Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, stanno muovendo un processo di rinnovamento culturale liturgico vigoroso. La modalità sembra quella auspicata da Benedetto XVI: riscoprire nella ritualità tradizionale le forme che conferiscano nuovamente vigore e identità alla liturgia ordinaria. Gli interventi del porporato non si contano, tra conferenze, articoli e pubblicazioni, andando a riscoprire il senso del silenzio sacro, del canto liturgico, dell’orientamento celebrativo, della comunione in ginocchio: tutti retaggi del tridentino (cosiddetto). Mancano ancora in tal direzione disposizioni normative specifiche. E’ anche vero che, per ora, il guineano rimane al suo posto, nonostante sia nota la libertà con cui il Sommo Pontefice suole ridefinire gli incarichi dei sacri palazzi (e lo dico senza spirito di critica).
La soluzione credo non la possegga nessuno, prendere consapevolezza dello stato delle cose mi risulta il primo e imprescindibile passo per meritarsela.
di Amicizia San Benedetto Brixia
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.