Dobbiamo tornare ad avere un progetto educativo. Verrà il tempo della verità quando la menzogna sarà svergognata e i falsi pastori appariranno per ciò che sono: traditori asserviti al nemico, utili idioti nelle mani del diavolo
di Francesco Lamendola
La sempre più evidente latitanza di un progetto educativo nella società odierna è forse l'effetto più vistoso della lenta ma costante e metodica conquista della cultura di massa da parte della concezione naturalistica del reale. Detto in parole semplici: se la natura umana è buona in se stessa, allora basta accompagnarla: non c'è bisogno di educare, ma è sufficiente lasciare che il bambino si auto-educhi, ossia basta favorire le condizioni che fanno venire a galla, spontaneamente, le sue qualità e le sue virtù naturali. E siccome la natura è buona, non c'è nulla da vietare, non c'è nulla da sconsigliare: tutte le esperienze vanno bene, tutti gli istinti sono positivi, l'importante è che l'individuo si realizzi, senza limitazioni o mortificazioni da parte della società. Strana combinazione: i fautori della bontà naturale, alla Rousseau, sono anche gli accusatori della società, di qualsiasi società, in quanto portatrice di condizionamenti e pressioni che limitano la libera esplicazione dell'individuo e, appunto, la sua realizzazione. Ricordate la trappola sociale di Pirandello, e l'inferno sono gli altri di Sartre? Realizzarsi, ecco la meta della vita umana: ma una meta generica, che ciascuno può riempire coi contenuti che ritiene più confacenti al caso suo: perché si tratta di una "realizzazione" del tutto soggettiva, il cui criterio fondamentale è, in definitiva, l'utile, se non il piacere; e dal cui orizzonte viene bandito tutto ciò che sa di sacrificio, di rinuncia, di sublimazione di alcuni aspetti della propria natura. Logico: se la natura è buona, perché si dovrebbe reprimere qualcosa? E se il bambino è buono, perché vietargli qualcosa? Ed ecco la pedagogia del "vietato vietare" di sessantottesca memoria, o meglio l'anti-pedagogia del '68, in base alla quale chiunque osi dire "no" a qualcun altro, non può essere che un reazionario, un tiranno, un fascista, meritevole del massimo disprezzo e le cui parole non devono esser prese neanche in considerazione.
D’altra parte, se la società è cattiva, perché limita la realizzazione del proprio “vero” io, o perché reprime gli istinti (Freud) o, comunque, perché gli altri, per il solo fatto di esistere, mi danno ombra, mi sottraggono, o minacciano di sottrarmi, ciò che altrimenti sarebbe senz’altro mio – non solo in termini di cose, ma anche e soprattutto di affetti, di gratificazioni emotive – è evidente chel’uomo moderno si trova in un vicolo cieco. Da un lato, per affermarsi, per realizzarsi, ha bisogno degli altri: se no, come farebbe a ottenere i riconoscimenti e le soddisfazioni alle quali ambisce ardentemente? Al tempo stesso, però, gli altri lo limitano, e perciò lo infastidiscono, sarebbe meglio che non ci fossero: gli applausi che gli altri ricevono, è come se venissero sottratti a lui; la stima, la simpatia, l’amicizia e l’amore che vengono rivolti agli altri, lui non li può ricevere, e dunque se ne ritiene ingiustamente defraudato. Di qui la sorda ostilità, il rancore appena dissimulato di tutti contro tutti, il ringhio e il brontolio che si potrebbero riconoscere, se si avesse un buon udito, al di sotto dei complimenti, degli auguri e delle parole di circostanza che ci si scambia nelle circostanze più varie della vita, dai matrimoni ai funerali. Appunto per tenere a bada questa ostilità latente, questa permanente mobilitazione di ciascuno contro chiunque altro, la società moderna si è messa d’accordo su un punto di capitale importanza: abolire il concetto del divieto, onde disinnescare almeno in parte l’aggressività che, altrimenti, potrebbe esplodere in qualsiasi momento, con conseguenze imprevedibili. Così, pur di non far infuriare i propri figli, i genitori rinunciano a sgridarli, qualora commettano una mancanza; per non scatenare la rabbia degli alunni, le maestre si auto-censurano e fingono di non aver visto, né udito; per non esasperare la collera dei tifosi, o dei manifestanti, o dei gruppetti estremisti, le pubbliche autorità cedono davanti a qualsiasi ricatto, perfino a quelli inscenati dai falsi profughi i quali, dopo aver provocato disordini e tumulti in un centro di accoglienza, magari perché il vitto e l’alloggio non sono di loro gradimento, rifiutano di accettare le disposizioni del magistrato, ad esempio l’allontanamento dei più facinorosi, e sfidano apertamente l’autorità dello Stato, di quel medesimo Stato al quale si sono rivolti per essere accolti, ospitati, protetti in nome del senso di umanità e di solidarietà. In tal modo, cedendo di fronte alle minacce dei violenti, la società evita, effettivamente, l’esplosione dei conflitti: ma si può dire che abbia assolto ai propri compiti e ai propri doveri?Una società che si arrende davanti a qualsiasi ultimatum, che ha paura della violenza dei soggetti privati e non osa adoperare la forza di cui dispone, neppure nei casi più legittimi, che razza di società sarà mai? Non la si dovrebbe neppure chiamare società: è soltantoun accampamento provvisorio, in cui vige la legge del più forte e in cui impera il ricatto del buonismo a senso unico, per la gioia della cultura politicamente corretta, che è sempre dalla parte degli ultimi e dei più deboli: salvo non esser più capace, per una curiosa forma di cecità o di strabismo ideologico, di comprende chi siano realmente, oggi, i soggetti i più deboli e poveri: che, magari, non occorre andare a cercare sui barconi o nei centri di accoglienza.
Avete mai provato a osservare lo spettacolo di una città italiana, alle otto del mattino? Vedrete gli italiani che vanno a lavorare: a piedi, in bicicletta, in autobus, in automobile; ciascuno si affretta alla propria destinazione, ciascuno si accinge ad affrontare una giornata in fabbrica, in ufficio, in azienda, in laboratorio, o in un cantiere edile, per portare a casa uno stipendio e mantenere la propria famiglia, acquistare le cose necessarie, pagare le bollette, poter mandare i figli a scuola o all’università. E mentre si vede questa folla di uomini e donne e che si affrettano verso i loro luoghi di lavoro, sapendo che un ritardo di cinque minuti nel timbro del cartellino equivale alla perdita di un’ora di stipendio o di salario, ecco che in senso inverso, belli, belli, tranquilli e pacifici, vengono avanti a due, a tre, a quattro, a cinque, i profughi di professione, i finti richiedenti asilo, con la cuffia della musica negli orecchi, ben vestiti e ben nutriti, a spese della comunità, senza assolutamente niente da fare. Vanno a spasso, a far nulla, e, forse, a spacciare droga o compiere altri reati, in attesa che venga mezzogiorno, e arrivi l’ora di pranzo. Pranzo che riceveranno a domicilio, caldo e fumante, senza aver fatto nulla per guadagnarselo o meritarselo, anzi, spesso protestando perché non è sufficientemente vario o non soddisfa le loro aspettative. Poi, fino a sera, altre sei ore di attesa, prima che arrivi la cena. E così anche all’interno dei centri di accoglienza: gente che ciabatta da una camerata a un corridoio, dal corridoio alle docce, in attesa che arrivi l’ora di mangiare, un mangiare gratuito e procurato dal lavoro altrui. Non raccolgono le foglie del cortile, non spostano una matita dal tavolo, si rifiutano di compiere anche il più piccolo lavoro - e lo dicono anche ai giornalisti che li vanno a intervistare - a meno di ricevere formale assicurazione che le loro domande di asilo verranno accolte. Allora sì, forse. Ma le cose funzionano in un ben strano modo, in Italia. Da noi, se e quando arriva la concessione del diritto di esser considerati profughi, essi devono lasciare i centri di accoglienza e arrangiarsi da soli; mentre gli altri, i nullafacenti, restano al caldo, protetti e accuditi. Una logica perfetta, vero? E così per un anno, due anni, tre anni, sempre senza far nulla, assolutamente nulla, se non osservare gli italiani che vanno a lavorare e, non di rado, entrare nelle loro case vuote per saccheggiarle, mentre i povero fessi sono a sgobbare in fabbrica, o in negozio. Respinta la prima richiesta di asilo per ragioni umanitarie, si fa la seconda, poi la terza. Tanto, non costa nulla: legioni di sindacalisti sono lì a sobillarli, presentano loro i moduli già prestampati, e li assicurano che, in ogni caso, loro in Italia ci resteranno, comunque vada a finire la farsa delle domande di accoglienza. Perché è una farsa, e lo sanno tutti: tutti sanno che almeno nove su dieci di loro non sono affatto profughi, non fuggono da alcuna guerra o calamità. E tutti sanno che, giunti sui barconi davanti alle nostre coste, non sono affatto dei naufraghi: sono persone che volontariamente son salite a bordo, e che poi, con la complicità di scafisti e organizzazioni non governative, nonché di qualche cattivo prete che s’immagina di essere un nuovo Mosè chiamato a salvare i suoi fratelli dalle onde del Mar Rosso (ne abbiamo già parlato in un apposito articolo: Non ci manca nulla: ora abbiamo anche il nuovo Mosè, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 06/09/2017), non chiedono, bensì pretendono di essere accolte nel nostro Paese e di poterci rimanere, o passare in altri Paesi europei. E la stessa cosa, su un piano solo apparentemente diverso, succede nelle nostre famiglie: il papà e la mamma non osano dire una parola di rimprovero ai loro pargoletti, perché temono di infliggere loro chi sa quali orrendi traumi: così, almeno, assicurano legioni di sociologi e psicologi moderni e progressisti; e ciò paiono confermare le pagine di cronaca nera, sempre doviziose di bambini che s’impiccano o che si gettano dalla finestra perché non hanno retto allo stress di un brutto voto a scuola, o di un rimprovero da parte dei genitori. Se, poi, allo sventurato babbo scappa un ceffone, un meritatissimo, sonoro ceffone al pargoletto in vena di capricci, apriti cielo: come minimo il fellone dovrà chiedere scusai in ginocchio, e supplicarlo di non chiamare il telefono azzurro e i carabinieri.
A questo stato di follia collettiva, che implica il totale svuotamento di senso sia della famiglia, sia della scuola, si è giunti per gradi; lo stadio finale, quello odierno, vede anche la Chiesa, nella persona dei suoi ministri e nell'esercizio della sua autorità, allinearsi sulle posizioni naturaliste e russoviane, al punto che essa quasi non osa più pronunciare la parola "peccato" e che, più in generale, si limita a parlare quasi esclusivamente delle cose di quaggiù e della vita terrena, senza neanche nominare la vita vera, cioè la vita eterna, per timore di compromettere la propria popolarità e la presa, peraltro assolutamente illusoria e inconsistente, che essa esercita, o crede di esercitare ancora, sulla vita delle persone. E se anche la Chiesa cattolica rinuncia ad insegnare una morale assoluta e non relativa; se anche il papa afferma che la coscienza individuale, e non la retta dottrina, è l'istanza preposta a decidere delle scelte morali, vuol dire che siamo arrivati proprio alla frutta. Certo, i cattolici progressisti non vedono questo "nuovo corso" del magistero e della pastorale come un regresso o come una resa al mondo, ma, al contrario, come un fruttifero rinnovamento, che consentirà alla Chiesa di porsi maggiormente in sintonia con la società e con le singole persone: ma, quanto a questo, saranno i frutti a mostrare se l'albero era buono oppure no, e quel che si può vedere sin da ora è semplicemente desolante. Logico: si può fare qualsiasi cosa, se si possiede abbastanza faccia tosta, ma non si può pretendere che la mistificazione più spudorata non rechi con sé le inevitabili conseguenze. Gesù Cristo non è venuto a dire, come Aleister Crowley, Fa' ciò che vuoi, ma: Sia fatta la volontà del Padre nostro celeste; e come Lui ama voi, così anche tu ama Lui sopra ogni cosa, e ama il tuo prossimo come te stesso.
Dobbiamo tornare ad avere un progetto educativo
di Francesco Lamendola
continua su:
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.