Calcinacci, fulmini, corvi e profezie: mala tempora currunt
Cadono calcinacci nella Basilica di San Pietro. Pochi frammenti di stucco, per fortuna senza feriti. I turisti si sono spaventati (il cedimento è avvenuto a due passi dalla Pietà di Michelangelo) c’è stato qualche momento di panico, poi l’area è stata transennata e la situazione è tornata normale.
Chi scrive, però, non può fare a meno di vedere in questo episodio del tutto marginale una valenza simbolica dal valore globale. Perché è sintomatico il giorno del cedimento – il 29 marzo, giovedì santo – e il luogo, nel cuore della cristianità cattolica. Quella che, in questi anni, sembra subire una dissoluzione mai vista prima nella storia. Un vero crollo spirituale.
Non si può fare a meno di pensare. Pensare per segni, unendo alcune immagini altamente simboliche di questi ultimi anni. L’esempio più evidente, la sera dell’11 febbraio 2013, quando il fotoreporter dell’Ansa Alessandro Di Meo scattò una foto memorabile: proprio nel giorno della rinuncia del papa, un fulmine colpiva il simbolo della cristianità! Evento tutt’altro che raro, ma divenuto simbolico per la coincidenza temporale. Poteva riuscirci un altro fotografo; poco importa: ciò che conta è il messaggio che ha scosso il mondo, giunto più veloce delle parole, perché trasmesso con una sola immagine.
La foto del 2013 è un monito, un severo messaggio non più rivolto ai nemici esterni della Chiesa, ma a quelli che in quella Chiesa ci vivono. Lo hanno capito anche i più accaniti nemici della Chiesa, al punto che tutti i giornali pubblicavano, il giorno dopo, questa foto ormai giustamente storica; gli unici che si ostinano a non capire si trovano in Vaticano. Tanto si ostinano, che i simboli si moltiplicano: come quando, il 27 gennaio 2014, le colombe liberate al termine dell’Angelus sono state attaccate da un corvo e un gabbiano. Immagine indicativa della guerra interna alla Chiesa; esattamente un anno prima, le colombe lanciate da papa Benedetto XVI erano tornate precipitosamente dal vicario di Cristo.
Verrà da obiettare: siamo nel 2018, vedere dei simboli in avvenimenti o fotografie è roba da Medioevo. Ben venga, allora, il Medioevo: perché la spiritualità medioevale ha forgiato l’Europa; e la spiritualità di allora era essenzialmente simbolica. La gente conosceva la vita di Cristo e dei santi grazie ai cicli di affreschi e comprendeva i segni dei tempi grazie ad avvenimenti altamente simbolici.
Si badi: il simbolo non è una questione di fede, ma una lettura in chiave divina delle cose umane. Il simbolo è un tramite, non il punto di arrivo. E se l’avvenimento simbolico deve fornirci una chiave di lettura del mondo in cui viviamo, l’avvenimento più simbolico di tutti non è forse l’elezione di un papa mentre è in vita il suo predecessore? Fatto, questo, di per sé unico nella storia recente della Chiesa, e carico di valenza simbolica per il contesto storico nel quale si è sviluppata la vicenda delle dimissioni di Benedetto XVI e dell’elezione di Francesco. In questo contesto, è bene ricordare che da secoli circolano decine di profezie (vere, false, artefatte o del tutto inventate) su questo periodo di travaglio per la Chiesa; un’anomalia così evidente, insieme alla scelta di un nome tranchant con la tradizione bimillenaria della Chiesa e di una pastorale decisamente anomala, possono far drizzare le antenne; specie se gli avvenimenti sono letti con quell’altra frase-simbolo del pontificato di Bergoglio: la “quasi fine del mondo”. Frase probabilmente frutto dell’enfasi del momento e che proprio per questo si carica di un valore altamente simbolico.
Con ciò, non bisogna “demonizzare” o condannare l’attuale pontificato, azione che rischia di tracciare un “prima” e un “dopo” senza senso: la politica e la teologia alla base dell’attuale momento storico della Chiesa hanno origini ormai lontane, e non possono essere ascritte ai soli uomini che oggi reggono le sorti del cattolicesimo. Piuttosto, si può osservare come l’attuale periodo storico sia gravido di segni, i quali devono farci pensare che la deriva progressista degli ultimi decenni non sta portando frutti. Semmai, sta facendo sgretolare la Chiesa.
Chi scrive, però, non può fare a meno di vedere in questo episodio del tutto marginale una valenza simbolica dal valore globale. Perché è sintomatico il giorno del cedimento – il 29 marzo, giovedì santo – e il luogo, nel cuore della cristianità cattolica. Quella che, in questi anni, sembra subire una dissoluzione mai vista prima nella storia. Un vero crollo spirituale.
Non si può fare a meno di pensare. Pensare per segni, unendo alcune immagini altamente simboliche di questi ultimi anni. L’esempio più evidente, la sera dell’11 febbraio 2013, quando il fotoreporter dell’Ansa Alessandro Di Meo scattò una foto memorabile: proprio nel giorno della rinuncia del papa, un fulmine colpiva il simbolo della cristianità! Evento tutt’altro che raro, ma divenuto simbolico per la coincidenza temporale. Poteva riuscirci un altro fotografo; poco importa: ciò che conta è il messaggio che ha scosso il mondo, giunto più veloce delle parole, perché trasmesso con una sola immagine.
La foto del 2013 è un monito, un severo messaggio non più rivolto ai nemici esterni della Chiesa, ma a quelli che in quella Chiesa ci vivono. Lo hanno capito anche i più accaniti nemici della Chiesa, al punto che tutti i giornali pubblicavano, il giorno dopo, questa foto ormai giustamente storica; gli unici che si ostinano a non capire si trovano in Vaticano. Tanto si ostinano, che i simboli si moltiplicano: come quando, il 27 gennaio 2014, le colombe liberate al termine dell’Angelus sono state attaccate da un corvo e un gabbiano. Immagine indicativa della guerra interna alla Chiesa; esattamente un anno prima, le colombe lanciate da papa Benedetto XVI erano tornate precipitosamente dal vicario di Cristo.
Verrà da obiettare: siamo nel 2018, vedere dei simboli in avvenimenti o fotografie è roba da Medioevo. Ben venga, allora, il Medioevo: perché la spiritualità medioevale ha forgiato l’Europa; e la spiritualità di allora era essenzialmente simbolica. La gente conosceva la vita di Cristo e dei santi grazie ai cicli di affreschi e comprendeva i segni dei tempi grazie ad avvenimenti altamente simbolici.
Si badi: il simbolo non è una questione di fede, ma una lettura in chiave divina delle cose umane. Il simbolo è un tramite, non il punto di arrivo. E se l’avvenimento simbolico deve fornirci una chiave di lettura del mondo in cui viviamo, l’avvenimento più simbolico di tutti non è forse l’elezione di un papa mentre è in vita il suo predecessore? Fatto, questo, di per sé unico nella storia recente della Chiesa, e carico di valenza simbolica per il contesto storico nel quale si è sviluppata la vicenda delle dimissioni di Benedetto XVI e dell’elezione di Francesco. In questo contesto, è bene ricordare che da secoli circolano decine di profezie (vere, false, artefatte o del tutto inventate) su questo periodo di travaglio per la Chiesa; un’anomalia così evidente, insieme alla scelta di un nome tranchant con la tradizione bimillenaria della Chiesa e di una pastorale decisamente anomala, possono far drizzare le antenne; specie se gli avvenimenti sono letti con quell’altra frase-simbolo del pontificato di Bergoglio: la “quasi fine del mondo”. Frase probabilmente frutto dell’enfasi del momento e che proprio per questo si carica di un valore altamente simbolico.
Con ciò, non bisogna “demonizzare” o condannare l’attuale pontificato, azione che rischia di tracciare un “prima” e un “dopo” senza senso: la politica e la teologia alla base dell’attuale momento storico della Chiesa hanno origini ormai lontane, e non possono essere ascritte ai soli uomini che oggi reggono le sorti del cattolicesimo. Piuttosto, si può osservare come l’attuale periodo storico sia gravido di segni, i quali devono farci pensare che la deriva progressista degli ultimi decenni non sta portando frutti. Semmai, sta facendo sgretolare la Chiesa.
di Giorgio Enrico Cavallo
(di Roberto de Mattei) Il fine della Chiesa è la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Salvezza da che cosa? Dalla dannazione eterna, che è il destino che attende gli uomini che muoiono in peccato mortale. Per la salvezza degli uomini Nostro Signore ha offerto la sua Passione Redentrice.
La Madonna lo ha ricordato a Fatima: il primo segreto comunicato ai tre pastorelli, quello del 13 luglio 1917, si apre con la visione terrificante del mare di fuoco dell’inferno. Se non fosse stato per la promessa della Madonna di portarli in cielo, scrive suor Lucia, i veggenti sarebbero morti per l’emozione e la paura.
Le parole della Madonna sono tristi e severe: «Avete visto l’inferno dove cadono le anime dei poveri peccatori. Per salvarle, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al Mio Cuore Immacolato». Un anno prima, l’Angelo di Fatima aveva insegnato ai tre pastorelli questa preghiera: «Gesù mio perdonateci le nostre colpe, preservateci dal fuoco dell’inferno, portate in Cielo tutte le anime, specialmente le più bisognose della vostra misericordia».
Gesù parla ripetutamente della «Geenna» e del «fuoco inestinguibile» (Mt. 5, 22; 13, 42; Mc. 9, 43-49) che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di convertirsi. Il primo fuoco, quello spirituale, è la privazione del possesso di Dio. È la pena più terribile, quella che costituisce essenzialmente l’inferno, perché la morte scioglie come da un incantesimo i lacci terreni dell’anima, che brama con tutte le sue forze di ricongiungersi a Dio, ma non può farlo, se con il peccato ha liberamente scelto di separarsi da Lui.
La seconda pena è quella misteriosa per cui l’anima soffre un fuoco reale, non metaforico, che si accompagna inestinguibilmente a quello spirituale della perdita di Dio. E poiché l’anima è immortale, la pena dovuta al peccato mortale senza pentimento, dura quanto dura la vita dell’anima, cioè per sempre, per l’eternità. Questa dottrina è definita dai Concili Lateranense IV, II di Lione, di Firenze e di Trento.
Nella costituzione Benedictus Deus del 29 gennaio 1336, con cui condanna gli errori del suo predecessore Giovanni XXII sulla visione beatifica, papa Benedetto XII afferma: «Definiamo che secondo la generale disposizione di Dio, le anime di coloro che muoiono in peccato mortale attuale, subito dopo la loro morte, discendono all’inferno, dove sono tormentate con supplizi infernali» (Denz-H 1002).
Il 29 marzo 2018, giorno di Giovedì Santo, è apparsa un’intervista di papa Francesco al quotidiano la Repubblica. Il suo ormai consueto interlocutore, Eugenio Scalfari, gli chiede. «Lei non mi ha mai parlato di anime che sono morte nel peccato e vanno all’inferno per scontarlo in eterno. Lei mi ha parlato invece di anime buone e ammesse alla contemplazione di Dio. Ma le anime cattive? Dove vengono punite?».
Papa Francesco così risponde: «Non vengono punite, quelle che si pentono ottengono il perdono di Dio e vanno tra le fila delle anime che lo contemplano, ma quelle che non si pentono e non possono quindi essere perdonate scompaiono. Non esiste un inferno, esiste la scomparsa delle anime peccatrici».
Queste parole, come suonano, costituiscono un’eresia. Il clamore già iniziava a diffondersi, quando la Sala Stampa Vaticana è intervenuta con un comunicato in cui si legge: Papa Francesco «ha ricevuto recentemente il fondatore del quotidiano la Repubblica in un incontro privato in occasione della Pasqua, senza però rilasciargli alcuna intervista. Quanto riferito dall’autore nell’articolo odierno è frutto della sua ricostruzione, in cui non vengono citate le parole testuali pronunciate dal Papa. Nessun virgolettato del succitato articolo deve essere considerato quindi come una fedele trascrizione delle parole del Santo Padre».
Non si è trattato dunque di un’intervista, ma di un colloquio privato che il Papa però sapeva bene che si sarebbe trasformato in un’intervista, perché così era accaduto nei precedenti quattro incontri con lo stesso Scalfari. E se, malgrado le controversie suscitate dalle precedenti interviste al giornalista di Repubblica, egli persiste nel considerarlo come il suo prediletto interlocutore, ciò vuol dire che il Papa intende esercitare, con questi colloqui, una sorta di magistero mediatico, dalle inevitabili conseguenze.
Nessuna frase – dice la Santa Sede – deve essere considerata come una trascrizione fedele, ma nessun contenuto specifico dell’intervista viene smentito, in maniera tale che non sappiamo se, e in quale punto, il pensiero bergogliano sia stato travisato. In cinque anni di pontificato Francesco non ha mai fatto un solo accenno all’inferno come pena eterna per le anime che muoiono nel peccato. Per chiarire il suo pensiero il Papa, o la Santa Sede, dovrebbe ribadire pubblicamente la dottrina cattolica, in tutti i punti dell’intervista in cui è stata negata.
Ciò purtroppo non è accaduto e si ha l’impressione che quella de la Repubblica non sia una fake news, ma una iniziativa deliberata, per accrescere la confusione tra i fedeli. La tesi secondo cui la vita eterna sarebbe riservata alle anime dei giusti mentre quelle dei malvagi scomparirebbero, è un’eresia antica, che nega, oltre all’esistenza dell’inferno, l’immortalità dell’anima definita come verità di fede dal Concilio Lateranense V (Denz-H, n. 1440).
Questa stravagante opinione è stata espressa dai Sociniani, dai protestanti liberali, da alcune sette avventiste e, in Italia, dal pastore valdese Ugo Janni (1865-1938), teorico del “pancristianesimo” e gran maestro massonico della loggia Mazzini di Sanremo. Per questi autori l’immortalità è un privilegio concesso da Dio solo alle anime dei giusti.
La sorte delle anime ostinate nel peccato non sarebbe una pena eterna, ma la perdita totale dell’essere. Questa dottrina è conosciuta anche come “immortalità facoltativa” o “condizionalismo”, perché ritiene che l’immortalità sia condizionata dalla condotta morale. Termine della vita virtuosa è la perpetuità dell’essere; termine di quella colpevole l’auto-annientamento.
Il condizionalismo si sposa con l’evoluzionismo perché sostiene che l’immortalità è una conquista delle anime, in una sorta di ascensione umana, analoga alla “selezione naturale” che porta gli organismi inferiori a trasformarsi in organismi superiori. Ci troviamo di fronte a una concezione almeno implicitamente materialista, perché la ragione dell’immortalità dell’anima è la sua spiritualità: ciò che è spirituale non si può dissolvere e chi afferma la possibilità di questa decomposizione attribuisce una natura materiale all’anima.
Una sostanza semplice e spirituale come l’anima non potrebbe perderla che per l’intervento di Dio, ma ciò è negato dai condizionalisti, perché significherebbe ammettere la sanzione di un Dio giusto che premia e punisce, nel tempo e nell’eternità. La loro concezione di un Dio solo misericordioso attribuisce invece alla volontà dell’uomo la facoltà di autodeterminarsi, scegliendo se divenire una scintilla che si perde nel fuoco divino o che si spegne nel nulla assoluto.
Panteismo e nichilismo sono le opzioni lasciate all’uomo in questa cosmologia che nulla ha a che fare con la fede cattolica e con il buon senso. E per un ateo, già convinto che nulla ci sia dopo la morte, il condizionalismo toglie quella possibilità di conversione, che è data dal Timor Domini: il timore del Signore, principio della Sapienza (Salmi 110, 10), al cui Giudizio nessuno sfuggirà. Solo credendo nella infallibile giustizia di Dio, potremmo abbandonarci alla sua immensa misericordia.
Mai come in questo momento si rende necessaria la predicazione del destino ultimo delle anime, che la Chiesa racchiude nei quattro Novissimi: Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso. La Madonna in persona lo ha voluto ricordare a Fatima, prevedendo la defezione dei Pastori, ma assicurandoci che mai ci mancherà l’assistenza del Cielo. (Roberto de Mattei)
Torneremo all’età pre-industriale?
(di Veronica Rasponi) La notizia, proveniente dalla più recente letteratura scientifica, è stata riportata da Newsweek e dal Corriere della Sera e spinge a qualche riflessione: una tempesta solare potrebbe riportare la civiltà all’inizio dell’Ottocento.
Una tempesta solare, o geomagnetica, è un temporaneo disturbo dell’atmosfera terrestre causato dall’attività solare, attraverso una massa di particelle di energie emesse dalla corona del sole. A questo fenomeno si devono ad esempio le aurore boreali. La più grande tempesta solare mai osservata dagli astronomi fu registrata negli Stati Uniti tra il 28 agosto e il 2 settembre 1859.
La tempesta causò l’interruzione delle linee telegrafiche del nord America e di tutta Europa per 14 ore, e produsse un’aurora boreale visibile in diversi luoghi del mondo, compresa Roma. Le più grandi aurore boreali dell’ultimo secolo sono certamente quelle del 25 gennaio 1938 e del 23 agosto 1939, conosciute come “le tempeste solari di Fatima”, perché annunziarono la Seconda guerra mondiale, come la Madonna aveva predetto ai tre pastorelli nel 1917.
Il gerarca nazista Albert Speer, nelle sue Memorie del Terzo Reich, così descrisse l’evento del 23 agosto 1939 : «Quella notte ci intrattenemmo con Hitler sulla terrazza del Berghof ad ammirare un raro fenomeno celeste: per un’ora circa, un’intensa aurora boreale illuminò di luce rossa il leggendario Untersberg che ci stava di fronte, mentre la volta del cielo era una tavolozza di tutti i colori dell’arcobaleno. L’ultimo atto del ‘Crepuscolo degli dei’ non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace. Anche i nostri volti e le nostre mani erano tinti di un rosso innaturale. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine. Di colpo, rivolto a uno dei suoi consiglieri militari, Hitler disse: “Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremmo fare a meno di usare la forza”».
Negli anni più recenti c’è stata la tempesta geomagnetica del 1989 (il grande black out di Quebec City) e quella, di più modeste dimensioni del 2015, poche ore prima della storica eclissi solare vista perfettamente da tutta l’Italia. Oggi, secondo Roger Tube, docente di Scienze del Rochester Institute of Technology, un evento del genere potrebbe avere conseguenze ben più gravi.
Se infatti la «palla di plasma» creata dalle esplosioni sul Sole prendesse la direzione della Terra con la potenza di quella che colpì il pianeta nel 1859, distruggerebbe le reti elettriche e i sistemi di comunicazioni digitali e analogiche, portando il mondo alle condizioni dell’era pre-industriale. Il Corriere della Sera così descrive il fenomeno: «Resteremmo al buio per anni. Senza Internet. Ferme le industrie, bloccati i trasporti. Finito il petrolio e magari anche l’ultima benzina rimasta nelle cisterne delle pompe che funzionavano ad elettricità. Il cibo non arriverebbe a negozi o case. Dovremmo tornare a coltivare qualsiasi angolo di terra per procurarci da mangiare. L’acqua andrebbe estratta da fiumi o pozzi a mano, e magari decontaminata perché gli impianti di filtraggio non funzionerebbero più. Non avremmo frigoriferi o freezer. Cucineremmo su fuochi a legna» (Tempesta solare potrebbe riportare la civiltà all’800).
Ha poca importanza sapere se quanto è descritto da questi articoli possa realmente accadere in un futuro prossimo. Quel che importa sottolineare è la vulnerabilità del nostro sistema tecnologico e la fallacia del mito del progresso. La civiltà moderna è molto più fragile di quanto possa sembrare e le ipotesi di un crollo della modernità e di un “regresso” all’età pre-industriale è meno strana di quanto possa sembrare.
L’uomo non ha in sé le risorse per opporsi agli sconvolgimenti naturali. E il Signore si serve spesso delle forze della natura per guidare i destini della storia. Le apparizioni di Fatima, suggellate dallo straordinario miracolo del sole del 13 ottobre 1917, ci ricordano l’esistenza di un rapporto, anche fisico, tra terra e cielo, più stretto di quanto possiamo immaginare (https://www.corrispondenzaromana.it/fatima-ci-insegna-a-scrutare-il-cielo/).
I castighi predetti dalla Madonna a Fatima si accompagneranno a sconvolgimenti atmosferici, come è accaduto in tutte le epoche di grande crisi della storia e dobbiamo essere pronti a scrutare i segni del Cielo. (Veronica Rasponi)
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