Tanti slogan teologici e pastorali sono senza contrappunto, con il risultato di impoverire e distorcere la realtà. Ad esempio costruire ponti e non innalzare muri. Ma le mura significano tutti quegli atteggiamenti volti a salvaguardare lo specifico e la preziosità del cristianesimo cattolico custodito e significato dalle mura. Per cui, se la pastorale, oltre a costruire ponti, fosse anche attenta a costruire muri “luminosi”, forse otterrebbe qualche conversione in più.
Chi si diletta di musica sa che in antico le note si chiamavano “punti” e ancora oggi così figurano. Il “contrappunto” è dunque una nota contro l’altra, cioè l’intersecarsi di due o più melodie, delle quali in genere una sola è la principale e quella che l’orecchio segue spontaneamente. Ma le altre note o melodie non sono inutili, perché creano il contesto giusto voluto dall’autore, esaltano le potenzialità della melodia portante, impediscono che sia intesa male.
Qualcosa del genere capita anche con le frasi alla moda, gli slogan, che toccano anche la teologia e la pastorale. Gli slogan sono facili, ma senza contrappunto impazziscono o meglio fanno impazzire la realtà alla quale si riferiscono, limitandola a ciò che di essa hanno selezionato e facendo dimenticare il resto che essa presuppone. Quando infatti si arriva alla resa dei conti, gli slogan non funzionano mai e devono accettare tanti compromessi, che a ben vedere sono semplicemente le esigenze della realtà: ecco il contrappunto.
Questa premessa noiosa per dire che stanno girando tanti slogan teologici e pastorali ahimè senza contrappunto, con il risultato di impoverire e distorcere la realtà. Ne esaminiamo uno, riservando di considerarne altri due in un prossimo intervento, non con l’intento di negarli, ma semplicemente di collocarli nel più ampio e più giusto contesto.
COSTRUIRE PONTI. L’azione è relativa ad un’altra: INNALZARE MURI. Lo slogan è che “bisogna costruire ponti e non innalzare muri” o, in una versione più estrema, che “bisogna costruire ponti e abbattere i muri”. Naturalmente non si tratta di diventare ingegneri, architetti o muratori, ma di allacciare relazioni e di eliminare ciò che le impedisce.
Poiché la Chiesa deve rivolgersi all’umanità in vista della salvezza, è chiaro che deve costruire ponti e abbattere ciò che allontana gli interlocutori dall’ascolto e dal dialogo.
Ma oggi “costruire ponti” dice qualcosa di più: significa una simpatia, un sintonizzarsi sulla cultura dell’interlocutore con la disposizione abbastanza facile a mettere in discussione le consuetudini proprie (a cominciare dal modo di presentarsi e di vestirsi), evitare con somma cura di essere “identitari”; evitare, almeno all’inizio, un messaggio impositivo e di condanna e partire in atteggiamento dialogico. Tutto ciò significa in contemporaneo “abbattere i muri”.
Senza scomodare la lunga storia della Chiesa, il fondamento attuale di questo atteggiamento risale al Vaticano II, in quell’atto vero e simbolico alla chiusura del concilio (8.12.1965) di inviare sette messaggi a categorie di persone un tempo ben integrate nel regime cristiano e al momento ritenute lontane: erano dei ponti lanciati verso di loro, cioè verso: governanti, uomini di pensiero e di scienza, artisti, donne, lavoratori, poveri, ammalati e sofferenti, giovani. Il presupposto era di udire come «un immenso e confuso rumore» di quanti, lontani, guardavano al concilio «e ci domandano con ansietà: non avete voi una parola da dirci?». Così Papa Montini immediatamente prima dei messaggi. Ma il “immenso e confuso rumore” era vero o era una generosa fantasia? In ogni caso di queste categorie forse solo i poveri e gli ammalati avevano ancora un qualche legame con la Chiesa; i giovani poi erano i padri degli attuali giovani adulti o uomini maturi, ai quali non hanno saputo comunicare la fede, tanto che questi la ritrovano frequentando nonni ottantenni, giovani “prima del Concilio”.
A parte questo atto simbolico, costruire ponti ebbe la teorizzazione nella prima enciclica di Paolo VI, la Ecclesiam suam del 6.8.1964. Fu indicata come fondativa del “dialogo” (in latino colloquium), anche se il dialogo riguarda solo la terza e ultima parte. Comunque vi è l’affermazione solenne che verso la società degli uomini (la traduzione ufficiale ha “mondo”) «la Chiesa veste la forma della parola, dell’annuncio, del dialogo» (EV 2/192). Questa la traduzione esatta dal latino, trasformata quasi da subito nella formula più accattivante: “la Chiesa si fa dialogo con il mondo”. Poche righe prima il dialogo era stato visto come compito evangelico risalente al comando di Cristo agli apostoli: «Andate dunque, istruite tutte le genti» (Mt 28,19) (EV 2/191). Ma il comando di Gesù Cristo e la conseguente missione apostolica sono riconducibili al dialogo come l’aspetto preponderante e specifico o non sono una buona proposta da prendere o - peggio per te - lasciare? Qui, con tutto rispetto di Paolo VI, si annida un equivoco. Equivoco per altro ammortizzato prima e dopo da affermazioni e avvertimenti tipo: accostare i fratelli non comporta «una diminuzione della verità», il dialogo «non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede» (EV 2/198) ecc.
Ciò che oggi stiamo vivendo a livello di costruire ponti nasce da questi impulsi, anche se ha avuto una sua evoluzione per via di nuove situazioni storiche e nuovi interlocutori.
Ma... c’è un “ma”. Alla fine del Miserere ancora oggi chiediamo a Dio: «nella tua bontà fà grazia a Sion, ricostruisci le mura di Gerusalemme» (Sal 51,20). Roba dell’Antico Testamento? Pare di no, dal momento che la città futura verso la quale camminiamo, la Gerusalemme celeste «è cinta da grandi e alte mura con dodici porte» (Ap 21,12), che sono le tribù dei figli di Israele, mura che «poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello» (Ap 21,14). Le mura poi «sono costruite con diaspro ... i basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose» (Ap 21,18-19).
Dunque la Gerusalemme del cielo non è una città del tutto aperta, ma ha delle mura e, stante la indiscussa categoria che il paradiso si comincia a costruire in terra, anche la Chiesa deve avere e costruire delle mura che anticipino e preparino quella della Gerusalemme del cielo.
Al di là dell’immagine, le mura significano tutti quegli atteggiamenti, istituzioni, discorsi, tradizioni dottrinali acquisite ecc. volte a salvaguardare lo specifico e la preziosità del cristianesimo cattolico, che non deve solo essere percepito come una zona alla quale si accede da un ponte come dalla terraferma si accede a Venezia, ma come una città con le mura, entrando nelle quali si entra in un sistema di linguaggio, di pensiero e di vita che presuppone un salto di qualità, appunto custodito e significato dalle mura.
Si obietterà che le mura sono non solo “identitarie”, ma ostative all’ingresso di chi sta fuori sentendosi escluso e dunque sono antiapostoliche e anticristiane. A parte il fatto che, Nuovo Testamento alla mano, si potrebbe documentare che la primitiva comunità cristiana si costruì su valori specifici e anche critici rispetto alla società corrente, bisogna considerare che le mura cristiane lasciano trasparire la bellezza di ciò che racchiudono e dunque sono un invito a scavalcarle e ad entrare: sono paradossalmente... dei ponti. Fuori dai denti, forse lo specifico della vita cristiana attira di più che gli adattamenti del cristianesimo sulla mentalità mondana. Per cui, se la pastorale, oltre a costruire ponti, fosse anche attenta a costruire muri “luminosi”, forse otterrebbe qualche conversione in più.
L’immagine di una “zona di sicurezza” integra l’immagine delle mura. Che cos’è? È interessante che, senza citarsi e senza essersi letti a vicenda, ne parlino Congar e Biffi.
Abitualmente un pastore «deve e vuole assicurare la tranquillità, e per conseguenza la sicurezza, al suo gregge: per questo, egli vuole conservare un margine di sicurezza tra il gregge e l’errore, ed evita quindi l’avventura». Invece il «combattente della Chiesa impegnato alle frontiere» costruisce dei ponti lunghi ignorando la «zona di neutralità, da conservarsi in quanto permette di tenere il nemico a distanza» e agisce sulla linea del fronte «al di qua o al di là della quale si è nella Chiesa o al di fuori» (Yves Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa. Jaca Book, Milano 1972, p. 188).
Da un altro punto di vista «il ricercatore giudica suo diritto inalienabile esplorare tutti gli spazi, anche i più vicini ai precipizi: anzi, di solito proprio dai margini estremi si possono raccogliere i fiori più originali e più rari. Il “pastore” invece si ferma a una certa distanza dai baratri: sa che, se egli si spinge fino all’orlo del burrone, qualche “pecora” fatalmente vi cade» (Giacomo Biffi, Il quinto evangelo, ESD Bologna 2008, p. 10).
In altri termini, va bene costruire ponti sino al limite, ma questo vale per gli impegnati alle frontiere e per i ricercatori. La pastorale ordinaria deve rispettare un limite di sicurezza. Così pensavano, senza essersi consultati, Congar e Biffi. Un margine che oggi non esiste più perché l’attuale comunicazione rende di pubblico dominio questioni limite complesse che vengono mediaticamente semplificate al ribasso, tipo: i protestanti possono fare la comunione con i cattolici; gli “irregolarmente coniugati” possono fare sesso ma anche fare la comunione; incontriamoci con gli “altri” senza timori e senza troppe questioni tanto abbiamo tutto lo stesso Dio ecc.
Invece ci vuole il contrappunto: costruire ponti, ma anche innalzare muri; avvicinarsi al limite, ma anche salvaguardare una zona di sicurezza. Solo così la comunità cristiana viene “edificata”, cioè costruita.
Riccardo Barile
CONTRAPPUNTO AL FRASARIO PASTORALE/1
IL LIBRO
Guerre di religione, le carte in tavola dello storico
La Chiesa, con le altre religioni, usò sempre l’arma dell’evangelizzazione, ma con le eresie non esitò a usare la forza quando ogni altro mezzo era fallito. In effetti, per la salvezza dell’anima, un pagano non può fare il danno di un eretico: la moneta falsa è pericolosa, un’altra valuta no. Il libro dello storico Leoni.
Il 22 luglio 1209 la città provenzale di Bezieres venne presa d’assalto dai crociati e la sua popolazione passata fil di spada in uno dei più orrendi massacri del tempo. In città c’erano circa duecento catari su ventimila abitanti. Passò alla storia la famosa frase proferita in quell’occasione dal legato papale, Arnaud Amaury: «Uccideteli tutti: Dio riconoscerà i suoi». L’apologetica cattolica ha provveduto, correttamente, ad accertare come questa frase, in realtà, non sia mai stata pronunciata. Ma Amaury, nel suo rapporto a Innocenzo III, confermò trionfante la strage indiscriminata. Altri tempi, si dirà.
Tuttavia, nel XX secolo abbiamo visto anche di peggio, e molto. Alberto Leoni, grande conoscitore di storia militare, comincia proprio dalla crociata contro gli albigesi la sua Storia delle guerre di religione. Dai catari ai totalitarismi (Ares, pp. 368, €. 18). La Chiesa, con le altre religioni, usò sempre l’arma dell’evangelizzazione, ma con le eresie non esitò a usare la forza quando ogni altro mezzo era fallito. In effetti, per la salvezza dell’anima, un pagano non può fare il danno di un eretico: la moneta falsa è pericolosa, un’altra valuta no. Prima dei catari il meccanismo ereticale funzionava così: c’era un eresiarca e i suoi seguaci; condannato lui, l’eresia in breve spariva.
Non così con i catari, di cui non si conoscevano i fondatori e i capi, ma si diffondevano nelle regioni più ricche e colte della cristianità. La Chiesa per loro inventò l’Inquisizione, madre del processo moderno (al di là delle leggende nere). Poi, quando gli eretici passarono alle vie di fatto uccidendo il legato Pietro di Castelnau, bandì la crociata, della quale approfittarono i nobili del Nord della Francia per avventarsi sul prospero Meridione. Il sistema della neutralizzazione dell’eresiarca non funzionò più nel caso di Jan Hus, che fu giustiziato dal Concilio di Costanza nel 1415 dopo un processo corretto ma, va detto, iniquo.
E Leoni non fa, nel suo libro, dell’apologetica a buon mercato, ma mette le carte in tavola così come stanno, non risparmiando ammirazione per gli hussiti, nelle guerre che seguirono, e il loro formidabile condottiero, Jan Zizka. Stessa ammirazione la si trova, nel libro, per Gil de Albornoz, lo spagnolo che, nel secolo precedente, aveva riconquistato metro per metro lo Stato della Chiesa con un piccolo esercito di mercenari.
Poiché la storia delle guerre di religione non può prescindere da quella dei papi, ecco alternarsi figure di grandi statisti ma mediocri pastori a grandissimi pastori ma nani politici. Leoni, per esempio, non esita a puntare il dito contro Clemente VII, la cui spregiudicata politica delle alleanze gli si ritorse contro provocando, nel 1527, il disgraziato Sacco di Roma da parte dei lanzichenecchi. Il libro di Leoni è interessante anche per l’analisi dei fatti, senza la quale non si capirebbe perché gli utraquisti combattevano e uccidevano per potersi comunicare sotto le due specie.
O perché Lutero ebbe successo dove altri eresiarchi prima di lui avevano fallito. Dalla morte di Hus l’Europa non ebbe più pace, e solo dopo la disastrosa Guerra dei Trent’Anni si poté entrare in un’età di sostanziale indifferentismo religioso. Ma non era che una tregua, perché in breve dalle guerre di religione si passò a quelle contro la religione. Ed ecco la fraternité giacobina prodursi nel genocidio della Vandea, il primo della storia. Ecco gli Insorgenti italiani (ma anche spagnoli e altoatesini) combattere i senza-Dio francesi e napoleonici in nome della religione cattolica.
Ecco i «cristeros» messicani impugnare le armi contro il governo ateista negli Anni Venti del XX secolo. I giacobini avevano inventato la persecuzione religiosa contro il loro stesso popolo, subito imitati dai nazisti e poi dai comunisti di tutto il mondo (questi ultimi non hanno ancora finito). Tra parentesi: le guerre di religione europee dei secoli XV, XVI e XVII coinvolsero tutti, perfino la Svezia, ma non toccarono la Spagna e l’Italia: qui c’era l’Inquisizione. Chiusa parentesi.
Leoni constata che la Chiesa perse quasi tutte le guerre convenzionali, ma vinse quasi tutte quelle asimmetriche: libri, preghiere e lavoro da persona a persona anziché spade e cannoni. Può essere spunto per ripensare il cristianesimo di oggi, vivente in un mondo ripaganizzato. In fondo, i cristiani dei primi secoli seppero convertire l’impero romano con la loro «bellezza disarmata».
Rino Cammilleri
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