ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 22 luglio 2018

Lo spirito della Roma cattolica perenne

Un inaccettabile articolo per i 30 anni delle Consacrazioni Episcopali effettuate da mons. Lefebvre - Ristabiliamo i fatti


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  Un inaccettabile articolo per i 30 anni delle Consacrazioni Episcopali effettuate da mons. Lefebvre  – Ristabiliamo i fatti

Sommario :  1. La lefebvriana dichiarazione “storica” del 1974 di fedeltà alla Tradizione viene mal presentata.  1.1. Una “dichiarazione storica” rivelatasi profetica, da rileggere e meditare.  2. L’Autrice sembra insinuare che le divergenze del 1985-86 con dom Gérard a proposito della Nuova Messa e dell’infausto Incontro di Assisi erano dovute  ad un atteggiamento arrogante della FSSPX nei confronti del cardinale Ratzinger e del Papa.  2.1  La critica e l’opposizione alle sconcertanti iniziative ecumeniche di Giovanni Paolo II erano giuste e doverose.  3. Le vicende che portarono alle Consacrazioni senza mandato del 1988 sono riferite da Scrosati in modo parziale e sfavorevole a mons. Lefebvre.  3.1 L’insensibilità e la tattica dilatoria di Roma fecero fallire le trattative.  4. Non ci fu nessuno scisma, né “formale” né “sacramentale” o “di fatto”, solo una disubbidienza giustificata dallo stato di necessità.  4.1 L’accusa di mendacio a P. Schmidberger è ridicola oltre che del tutto priva di senso.  4.2 Il vero significato dell’importante omelia pronunciata da mons. Lefebvre in occasione delle Consacrazioni.

Mi riferisco a: Luisella Scrosati:  Dom Gérard e Lefbvre, un’amicizia dolorosa, apparso su La Nuova Bussola Quotidiana del 30 giugno 2018.  L’articolo si basa su un testo notoriamente ostile a mons. Lefebvre, quale la biografia recentemente pubblicata dal saggista e storico Yves Chiron sul benedettino dom Gérard Calvet: Dom Gérard. Tourné vers le Seigneur, éd. Sainte-Madeleine, 2018, pp. 688.
Dom Gérard (1927-2008), monaco animato da un grande zelo per la tradizione, in particolare per la conservazione della S. Messa di rito antico, fondò un monastero (l’Abbazia Sainte-Madeleine du Barroux) che manteneva la liturgia e l’impostazione dottrinale tradizionale, non inquinata dalle novità emerse con il Vaticano II.  Trovandosi ovviamente in difficoltà con il vescovo locale e il suo ordine, egli si appoggiò a mons. Lefebvre (1905-1991), ricevendone sempre un valido aiuto. Stabilì con lui una vera e propria alleanza  per la difesa della vita monastica tradizionale e della vera liturgia.  Ma quando mons. Lefebvre, di fronte all’atteggiamento dilatorio di Roma per ciò che riguardava i suoi successori alla guida della Fraternità Sacerdotale San Pio X, da lui regolarmente eretta nel 1970, prese alla fine la tormentata e dolorosa decisione di procedere alla consacrazione di quattro vescovi, da lui scelti fra i sacerdoti della stessa FSSPX, senza più attendere un mandato pontificio che continuava a non arrivare, dopo lunghi mesi di snervanti trattative ---  a quel punto dom Gérard abbandonò l’anziano prelato francese e negoziò separatamente un accordo con Roma.  Tale accordo gli garantiva il mantenimento dell’impostazione tradizionale del suo monastero, tuttavia al prezzo di alcune importanti e gravi concessioni: tra le quali, il riconoscimento della legittimità della Messa del Novus Ordo, da celebrarsi occasionalmente.  E difatti, dom Gérard ha dovuto sottoporsi all’umiliazione di concelebrare tal Messa almeno due volte[1].  In tal modo egli ha  rinnegato se stesso, ossia la battaglia che per tanti anni aveva combattuto assieme a mons. Lefebvre in difesa della vera Messa cattolica.  I suoi discepoli si sono poi distinti per la difesa delle nuove e singolari dottrine uscite dal Concilio, in particolare di quella sulla “libertà religiosa”[2] 
L’articolo di Scrosati presenta la vicenda indubbiamente drammatica e dolorosa delle Consacrazioni filtrandola attraverso i giudizi negativi di dom Gérard, come risultanti – si intuisce – dalla biografia di Yves Chiron.  I riferimenti ai fatti non sono però sempre precisi e finiscono con l’indurre il lettore ad un’errata interpretazione degli stessi, suggerendogli un’immagine negativa di mons. Lefebvre.   Ma procediamo con ordine.
1. La lefebvriana dichiarazione “storica” del 1974 di fedeltà alla Tradizione viene mal presentata
Incalzato dall’ordine benedettino e dall’Ordinario locale, dom Gérard scelse dunque di “aderire a mons. Lefebvre, che il 21 novembre 1974 pronunciò una dichiarazione storica, nella quale espose la sua ferma intenzione di proseguire la formazione di futuri sacerdoti, secondo lo spirito di Ecône, prima ancora di conoscere l’esito della Visita apostolica in corso nel seminario”[3].
La “dichiarazione storica” di mons. Lefebvre non ebbe luogo mentre la Visita apostolica era ancora “in corso” bensì otto giorni dopo. La Visita, infatti, si effettuò dall’11 al 13 novembre 1974. L’errata informazione data da Scrosati mette di fatto in cattiva luce mons. Lefebvre, quasi egli non avesse nemmeno voluto aspettare la fine di quella Visita per esplodere nella sua polemica “dichiarazione storica”.   I due “visitatori”, due ecclesiastici belgi, mons. Descamps e mons. Onclin, si macchiarono di due gravi inadempienze, sul piano formale:  partirono senza firmare il “protocollo di visita”, come richiesto dal diritto; non inviarono mai copia del loro rapporto a mons. Lefebvre, come ugualmente richiesto dal diritto.  Egli non ricevette mai alcun documento ufficiale concernente la Visita. Inoltre, i due Visitatori, nell’interrogare i seminaristi, se ne uscirono con affermazioni che destarono vivo scandalo: si sarebbe giunti ad ordinare persone sposate; la Chiesa non era l’unica depositaria della verità; la Resurrezione di Nostro Signore non era una certezza.  Significativamente, non si recarono mai a pregare nella Cappella del Seminario.  Si è poi saputo che, privatamente, avevano riferito alle autorità romane che tutto era a posto nel Seminario di Écône, dal punto di vista dottrinale e disciplinare, a parte “il rifiuto della nuova liturgia” e la presenza di “uno spirito ostile al Concilio”, cose che ai loro occhi costituivano ovviamente un demerito[4].
Spinto dall’indignazione per il comportamento dei due Visitatori e ancor più per le loro disinvolte, pubbliche dichiarazioni ereticali, che esigevano una replica, mons. Lefebvre emise allora la sua “storica dichiarazione”, che tuttavia non consisteva nel contrapporre Ecône a Roma, come si potrebbe ricavare dal testo di Scrosati, quasi  la FSSPX si proponesse come una setta, contro Roma;  non era un supposto “spirito di Ecône” quello che veniva invocato dall’anziano presule “per la formazione dei sacerdoti” bensì lo spirito della Roma cattolica perenne contro le deviazioni protestantiche introdottesi nella Roma ispirata alle riforme conciliari.
1.1. Una “dichiarazione storica” rivelatasi profetica, da rileggere e meditare
“Aderiamo con tutto il cuore, con tutta l’anima alla Roma cattolica, guardiana della fede cattolica e delle tradizioni necessarie al mantenimento di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità.
Rifiutiamo, invece, e abbiamo sempre rifiutato di seguire la Roma di tendenza neomodernista e neoprotestante manifestatasi apertamente durante il Vaticano II e dopo il Concilio in tutte le riforme che ne sono seguite.  Tutte queste riforme, in effetti, hanno contribuito e tuttora contribuiscono alla demolizione della Chiesa, alla rovina del Sacerdozio, alla distruzione del Sacrificio e dei Sacramenti, alla scomparsa della vita religiosa, ad un insegnamento naturalista e di tipo teilhardiano nelle Università, nei Seminari, nella catechesi; insegnamento nato dal liberalismo e dal protestantesimo, condannati tante volte dal magistero solenne della Chiesa.  Nessuna autorità, nemmeno la più elevata nella gerarchia, può costringerci ad abbandonare o a diminuire la nostra fede cattolica, chiaramente espressa e professata dal magistero della Chiesa da diciannove secoli.  Ha detto S. Paolo:  “Ma quando NOI STESSI  o un Angelo disceso dal cielo vi annunziassero un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia anatema!”(Gal 1, 8).  Il Santo Padre non ci ripete forse oggi il medesimo concetto?  E se una certa contraddizione si è manifestata tra le sue parole ed i suoi atti e nel comportamento dei dicasteri vaticani, ebbene noi ci teniamo fermi a ciò che è stato sempre insegnato.  Noi facciamo orecchie da mercante alle novità che distruggono la Chiesa”[5].
Mons. Lefebvre affermava dunque con estrema chiarezza e precisione il seguente concetto:  noi non possiamo prender parte alla presente  autodemolizione della Chiesa; resistiamo e ci opponiamo alle novità perniciose e distruttrici, anche se provengono dalle autorità stesse della Chiesa.  Continuava, infatti, subito dopo l’intrepido presule, con estrema lucidità:
“Non è possibile modificare la ‘lex orandi’ senza modificare la ‘lex credendi’.  A messa nuova corrisponde nuovo catechismo, nuovo sacerdozio, nuovi seminari, nuove università, Chiesa carismatica, pentecostale:  tutte cose contrarie all’ortodossia e al magistero di sempre.
Questa Riforma,  prodotto del liberalismo e del modernismo, è interamente pervasa del loro veleno. Nasce dall’eresia e sfocia nell’eresia, anche se tutti i suoi atti non sono formalmente eretici. È pertanto impossibile che i cattolici coscienti e fedeli adottino questa Riforma e vi si sottomettano in qualsivoglia maniera.
L’unico atteggiamento coerente con la fedeltà alla Chiesa e alla dottrina cattolica, per la nostra salvezza, consiste nel rifiuto categorico di accettare tale Riforma.
Pertanto, senza alcuna ribellione, alcun senso di colpa, alcun risentimento noi perseguiremo la nostra opera di formazione sacerdotale guidati dalla stella del magistero di sempre, persuasi di non poter render più grande servigio alla Santa Chiesa Cattolica, al Sovrano Pontefice e alle generazioni future.
Per questo, ci atteniamo fermamente a tutto quello che è stato creduto e messo in pratica nella fede, nei costumi, nel culto, nell’insegnamento del catechismo, nella formazione dei sacerdoti, nell’istituzione della Chiesa, da parte della Chiesa di sempre e codificato nei libri apparsi prima dell’influenza modernista del Concilio, nell’attesa che la vera luce della Tradizione dissipi le tenebre che oscurano il cielo della Roma eterna.
Nel far ciò, con la grazia di Dio, il soccorso della Vergine Maria, di san Giuseppe, di san Pio X,  noi siamo convinti di restare fedeli alla Chiesa Cattolica e Romana, a tutti i successori di Pietro, e di essere “fideles dispensatores mysteriorum Domini Nostri Jesu Christi in Spiritu Sancto”.[6]
Rileggendo queste parole dopo 44 anni, nessun cattolico che abbia conservato il sensus fidei e la capacità di ragionare con la sua testa  può dubitare della loro verità, del loro carattere “profetico”, come si ama dire oggi:  chi può negare che le “novità”introdotte seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II stessero già allora innescando nella Chiesa  un processo  di autoannientamento che non si è  m a i interrotto e che oggi è diventato vera e propria decomposizione, a tutti i livelli:  dottrinale, pastorale, liturgico, dei costumi?  Il tempo è galantuomo, come si suol dire:  esso ha reso giustizia all’occhio acuto, al coraggio intellettuale e morale di mons. Marcel Lefebvre; alla lucidità, al coraggio, alla tenacia sue e di mons. Antonio de Castro Mayer (1904-1991), il vescovo brasiliano, arcivescovo di Campos, fine teologo, che lo ha sempre affiancato nella dura e solitaria battaglia per la difesa della fede. Due soli vescovi, delle centinaia che erano nel Coetus internationalis Patrum, lo schieramento dei vescovi che in Concilio si batterono contro il dilagante neo-modernismo, colpevolmente lasciato avanzare dai Papi al tempo regnanti.  Due soli, ma due giganti della fede.
2. L’Autrice sembra insinuare che le divergenze con dom Gérard del 1985-86 a proposito della Nuova Messa e dell’infausto Incontro di Assisi erano dovute soprattutto ad un atteggiamento arrogante della FSSPX  nei confronti del cardinale Ratzinger e del Papa.
  Nonostante la reciproca stima tra mons. Lefebvre e dom Gérard, si erano manifestate gravi divergenze quando quest’ultimo, nel 1985, aveva inopinatamente accettato “la validità, la legittimità e il carattere non eretico del Novus Ordo Missae”, provocando una lettera di “duro rimprovero” da parte di P. Schmidberger, allora Superiore Generale della FSSPX.  In essa, si ribadiva che “il Novus Ordo era ambiguo, imbevuto di uno spirito eterodosso e protestantizzante; è un vero pericolo per la fede cattolica, e ciò non solamente nella sua direzione evolutiva e negli abusi, ma in se stesso”.  Evidentemente, osservo, dom Gérard la pensava allo stesso modo, altrimenti non si capisce perché si fosse fino a quel momento rifiutato di celebrarlo.  Con l’imprevista apertura nei confronti della nuova liturgia egli cominciava tuttavia a venir meno nella comune battaglia per mantenere la Messa di rito romano antico e l’antica liturgia.  Scrosati riporta una “nota ironica” di dom Gérard, il quale, a margine della citata lettera, là ove P. Schmidberger ribadiva che bisognava “custodire gelosamente i nostri princìpi e la nostra unione con mons. Lefebvre in quanto egli rappresenta l’episcopato in questa posizione cattolica”,  scriveva:  “Voi siete il Sant’Uffizio e attendete che il cardinale Ratzinger si umili riconoscendo i propri errori?”[7]. L’Autrice evidentemente condivide l’atteggiamento di compromesso con il Novus Ordo – un vero e proprio cedimento, per non dire tradimento,  da parte di dom Gérard – e il giudizio beffardo e fuori misura dello stesso, sull’esigenza più che legittima sollevata da P. Schmidberger, di riaffermare e mantenere ad ogni costo la purezza dottrinale e liturgica, così come faceva mons. Lefebvre, unica posizione legittima per un vero sacerdote di Cristo (Gal 1, 8;  1Tim 1, 13; 4, 1-5; Tt, 2, 7) . 
Ma come si fa, postillo, a non osservare che il cardinale Ratzinger, se avesse riconosciuto per tempo “i propri errori”, emendandosi dalle letture e dottrine profane di cui si era sempre nutrito – riconosciuto di fronte a Dio, non di fronte a mons. Lefebvre o a chiunque altro – certamente non avrebbe terminato la sua carriera ecclesiastica inventandosi la figura patetica e incomprensibile del “Papa Emerito”, fonte di grande sconcerto per i fedeli tutti e di notevole confusione dottrinale e pastorale, ulteriore perdita di prestigio del papato come istituzione.
Sbagliava dom Gérard ad accusare di arroganza la FSSPX e sbaglia chi ancor oggi usa quella sua infelice “nota a margine” per rinnovare quell’accusa. Come ognun può vedere, non si trattava di ergersi in Sant’Uffizio bensì di respingere fermamente le deleterie riforme ispirate dal Concilio, a cominciare dalla ambigua “Messa di Montini”, mantenendosi incrollabilmente fermi “nei nostri principi” ossia nella fedeltà al Deposito della Fede e al Magistero di sempre, come proclamato da mons. Lefebvre nella Dichiarazione del 21 novembre 1974, che pur aveva avuto la piena adesione di dom Gérard.
2.1  La critica e l’opposizione alle sconcertanti iniziative ecumeniche di Giovanni Paolo II erano giuste e doverose. 
In quel periodo, “dom Gérard ebbe anche modo di manifestare il proprio dissenso nei confronti della violenza con cui Giovanni Paolo II, in occasione dell’incontro di Assisi del 1986, venne attaccato dalla Fraternità, come anche per altri episodi”[8].
La critica di mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer alle scandalose iniziative ecumeniche di quel Papa, non può esser liquidata così sbrigativamente, sostituendole il logoro, falsissimo stereotipo di un mons. Lefebvre sorta di bècero energumeno, la cui attività principale sarebbe stata quella di criticare e attaccare  il Papa.
La critica era in realtà provocata dallo sconsiderato attivismo ecumenico del Papa, che comportava evidenti cedimenti dottrinali, oltre ai pastorali:  essa aveva un preciso fondamento teologico e rappresentava un dovere per dei Pastori fedeli al loro mandato.  Occorre ricordarla, sulla base della biografia di mons. Tissier de Mallerais, anche perché i cedimenti e gli errori sono stati mantenuti dai successori, ampliandosi ulteriormente con il presente e regnante.
In margine al par. 11 della prima enciclica di Papa Woytila, nel 1979, la Redemptor hominis, mons. Lefebvre scrisse:  “Il n. 11 presenta una concezione completamente nuova del cristianesimo. Si tratta di un umanesimo teilhardiano”.  In margine al n. 13, che fa in pratica l’esegesi di Gaudium et spes 22, sotto il titolo: “Cristo si è unito ad ogni uomo”[sic], là ove vien detto che l’uomo, grazie a tale “unione”, addirittura partecipa del mistero di Cristo “dall’istante in cui è stato concepito nel seno materno [!]”, mons. Lefebvre, accanto ad un grande punto esclamativo, scrisse:  “Che ne è dell’incorporazione a Cristo con il battesimo?”.  Infatti, secondo la bimillenaria dottrina della Chiesa, è solo con il battesimo che veniamo “incorporati a Cristo”, non certo per il fatto stesso di esser nati, di esser uomini.  Affermare questo significa cadere in un grave e pernicioso errore, che conduce alla divinizzazione dell’uomo (errore già confutato da S. Giovanni Damasceno [m. nel 749] e da S. Tommaso).  Ma quest’errore, come hanno mostrato anche le accurate analisi dello scomparso teologo tedesco prof. Johannes Dörmann, Giovanni Paolo II lo ha mantenuto tenacemente nei suoi documenti ufficiali[9].  Nel 1981, ricorda mons. Tissier de Mallerais, egli dichiarò a Manila: “nello Spirito Santo, ogni persona e ogni popolo sono divenuti, grazie alla Croce e alla Resurrezione di Cristo, figli di Dio, partecipi della natura divina, eredi della vita eterna”[10].  Sono divenuti:  è l’errore della salvezza già effettuatasi per tutti grazie “alla Croce e alla Resurrezione”, in sostanza grazie alla supposta (ma impossibile ed inesistente) unione di Cristo  “con ogni uomo” in quanto tale, per il fatto stesso della sua Incarnazione.   
 Quando fu promulgato il nuovo Codice di Diritto Canonico, nel gennaio del 1983, mons. Lefebvre fu molto colpito dal fatto che esso codificasse espressamente l’ecclesiologia del Vaticano II, con tutte le sue ambiguità cariche d’errori, a cominciare dalla nuova idea di collegialità, stabilente la mostruosità giuridica di  d u e  titolari della suprema potestà di giurisdizione sulla Chiesa:  il Papa da solo e il Collegio episcopale con il Papa (c. 336).  Dopo la comparsa del Codice, mons. Lefebvre cominciò a prendere concretamente in considerazione l’idea, fino a quel momento solo ventilata, di consacrare un suo successore e di iniziare delle forme di protesta pubblica.  Quando, nel novembre del 1983, dopo che il Papa in luglio aveva lasciato tutti di stucco con l’attribuire a Lutero una “profonda religiosità”, della quale in verità nessuno si era mai accorto (Documentation Catholique 1855, 3.7.1983, 696), la Commissione mista cattolico-luterana enumerò sette punti importanti “tra le idee del Vaticano II, nei quali si possono trovare accolte le richieste di Lutero”, l’anziano presule avvertì che “la misura era ormai colma”.  Assieme a mons. de Castro Mayer,  diede il 21 novembre di quell’anno corpo all’idea, avanzata da altri, di pubblicare una “lettera aperta” al Papa nella quale, rifacendosi espressamente all’Incidente di Antiochia tra san Paolo e san Pietro (Gal 2, 11-14), si denunciavano 6 errori o deviazioni gravi inquinanti la dottrina e la pastorale correnti, errori già condannati dal Magistero anteriore: 
1. Una concezione latitudinaria ed ecumenica della Chiesa; 
2. Un governo collegiale e un orientamento democratico nella Chiesa; 
3. Una falsa concezione dei diritti naturali dell’uomo, con particolare riferimento alla “libertà religiosa”; 
4. Una concezione assoluta del potere del Papa, quando invece tale potere è subordinato al potere divino attuantesi nella Tradizione, nella Sacra Scrittura e nelle definizioni promulgate dal magistero ecclesiastico;
5. La concezione protestante della Messa e dei Sacramenti, condannata dal Concilio di Trento;
6. In generale, la libera diffusione delle eresie provocata dalla soppressione del Sant’Uffizio[11].
 È importante ricordare oggi questi sei esiziali errori, se solo si considera a cosa sono arrivate le concessioni all’eresia luterana con l’attuale Pontefice e il grado di  “protestantizzazione” ormai raggiunto dalla Chiesa visibile, in generale.  Ma lo è, anche per rammentare agli smemorati che due vescovi, 35 anni fa, avevano pur messo pubblicamente in guardia la Cattolicità dall’abisso che si stava spalancando.
In quegli anni, l’autodemolizione della Chiesa ad opera di Giovanni Paolo II stava procedendo ad un ritmo sostenuto. Il Papa incontrava grecoscismatici (soi-disants Ortodossi) auspicando una “unità armoniosa” tra le due “Chiese”. Andava in visita rispettosa nei templi buddisti, in Tailandia. Partecipava a Ginevra al Consiglio Ecumenico delle Chiese.  Nel Togo ai riti della locale religione animista e in India a quelli indù, facendosi imprimere sulla fronte le ceneri sacre di questi ultimi.  Faceva le stesse cose di Papa Francesco, quanto all’ecumenismo.  Citando sempre la dichiarazione conciliare Nostra Aetate,  3, manifestava grande stima e rispetto per i musulmani. Otto anni dopo la scomparsa di mons. Lefebvre, il 14 maggio 1999, avrebbe reso il famoso bacio di omaggio ad una copia del Corano regalatagli da una delegazione musulmana!  Giovanni Paolo II aveva anche allargato alquanto le “richieste di perdono” a nome della Chiesa per certi suoi supposti errori del passato; pratica sconcertante iniziatasi con Paolo VI che di fatto sottoponeva ad una radicale damnatio memoriae tutto ciò che la Chiesa era stata, come istituzione, come storia e come Magistero[12].  
Cosa avrebbe dovuto fare mons. Lefebvre di fronte a una deriva del genere: tacere per rispetto al Papa, per non scandalizzare le anime pie e i sepolcri imbiancati,  per paura? Tacendo, si sarebbe reso complice.  Nell’omelia della domenica di Pasqua 1986 a Écône, puntualizzò con l’abituale franchezza la situazione senza precedenti: “ Nous nous trouvons devant un dilemme grave qui, je crois, n’a jamais existé dans l’Église:  celui qui est assis sur le Siège de Pierre participe à des cultes de faux dieux…”[13].  
Nel 1984-85 ci fu la revisione del Concordato del 1929 tra la S. Sede e l’Italia. Con soddisfazione del Segretario di Stato cardinale Casaroli, al p. 1 del Protocollo Allegato, si eliminava seccamente il principio secondo il quale la religione cattolica era la sola religione dello Stato italiano.  Tale principio era stato stabilito da Carlo Alberto di Savoia-Carignano, Re di Sardegna, nell’art. 1 dello Statuto Albertino, da luioctroyé il 4 marzo 1848:  “La religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato.  Gli altri culti ora esistenti [nello Stato] sono tollerati conformemente alle leggi”. Lo Statuto, in quanto legge fondamentale del Regno, fu mantenuto nel successivo Regno d’Italia (1861) e ribadito nell’art. 1  delTrattato Lateranense dell’11 febbraio 1929 tra Regno d’Italia e S. Sede, auspici Benito Mussolini e Pio XI.  Il Trattato  risolse la grave “Questione Romana” (i rapporti tra Stato e Chiesa come enti sovrani territoriali paritari) ed entrò in vigore assieme al citato Concordato, nel quale, tra l’altro, lo Stato unitario riconosceva valore civile al matrimonio ecclesiastico, ponendo fine al predominio del matrimonio civile, pur mantenuto[14].
Ma il 3 ottobre 1984, il Papa non concesse la Messa tradizionale con l’indulto Quattuor abhinc annos?  Perché mons. Lefebvre non se ne avvalse, come invece altri?  Perché l’indulto poneva la condizione di riconoscere “la legittimità ed esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato da Paolo VI nel 1970” ossia la legittimità della Nuova Messa e implicitamente del Vaticano II  con tutte le sue riforme.  Mons. Lefebvre aveva sempre mantenuto chiarissimo il concetto che la Nuova Messa era il punto nodale della questione. Nel periodo agitato seguito alla soppressione illegale della Fraternità, quando lo si minacciava di sospensione a divinis (poi irrogata) se avesse proceduto alle ordinazioni sacerdotali, il 29 giugno 1976 disse nel sermone tenuto proprio durante le ordinazioni, ugualmente tenutesi:
“Il est clair, il est net, que c’est sur le problème de la messe que se joue tout le drame entre Écône et Rome […] L’insistance que mettent ceux qui nous sont envoyés de Rome pour nous demander de changer de rite nous fait réfléchir […] Cette nouvelle messe est un symbole, une expression d’une foi nouvelle, d’une foi moderniste.  Car, si la très sainte Église a voulu garder, tout au cours des siècles, ce trésor précieux qu’elle nous a donné du rite de la sainte messe canonisé par saint Pie V, ce n’est pour rien.  C’est parce que, dans cette messe, se trouve toute notre foi…”[15]
Dopo esser andato nella sinagoga di Roma, a render omaggio ai “nostri fratelli maggiori”, come disse, Giovanni Paolo II organizzò a sorpresa nel 1986 l’incontro di preghiera per la pace ad Assisi con i rappresentanti di tutte le religioni del globo (bisogna pur dirlo:  un’indecorosa e blasfema carnevalata liturgica).  La reazione pubblica di mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer di fronte al gravissimo fatto, non poteva mancare.  Dopo aver scritto ad otto cardinali per protestare contro l’annunciato evento, che gli ricordava giustamente “il variopinto Congresso di Chicago del 1895”, organizzato da protestanti e teosofi, riunente tutte le religioni mondiali, al quale Leone XIII aveva proibito ogni partecipazione cattolica, mons. Lefebvre rese nota una pubblica protesta, firmata anche dal suo compagno di lotta brasiliano, il 2 dicembre 1986.  Essi denunziavano il fatto con parole vibranti di giusto e smisurato sdegno.
“Le péché public contre l’unicité de Dieu, contre le Verbe incarné et son Église fait frémir d’horreur: Jean-Paul II encourageant les fausses religions à prier leurs faux dieux: scandale sans mesure et sans précédent, […] impiété inconcevable et humiliation insoutenable pour ceux qui demeurent catholiques dans la fidélité à vingt siècles de profession de la même foi”[16].
La situazione obiettiva costringeva mons. Lefebvre a “combattere per la fede, denunciando lo scandalo” rappresentato dalle deviazioni dottrinali e pastorali dilaganti nella Chiesa e proprio per colpa dei Papi:  era convinto che questo fosse il compito che a lui, in quanto vescovo, era stato affidato dalla Provvidenza[17].  Si trattava di un combattimento epocale per la difesa della vera fede, al quale si era affiancato anche dom Gérard, salvo poi tirarsi indietro  quando lo scontro si era fatto inevitabilmentefrontale contro le inaccettabili e frenetiche iniziative ecumeniche di un Papa determinato a portare sino in fondo il “rinnovamento” promosso dal Concilio.  La questione di sostanza era teologica, dottrinale; le questioni di forma erano del tutto secondarie.  Nessuno voleva mancare di rispetto al Papa o attaccarlo, ma chi si considerava ancora autenticamente cattolico,  era costretto a denunziare nel modo più fermo le sue deviazioni dottrinali e pastorali.  La verità è che dom Gérard ad un certo punto non se la sentì di continuare nell’infuocata battaglia, contro il Papa e tutta o quasi la Gerarchia; evidentemente non aveva l’eccezionale tempra di combattente di mons. Lefebvre, nella cui tenacia e perseveranza di impavidoDefensor Fidei è comunque impossibile non vedere l’azione dello Spirito Santo.
3.  Le vicende che portarono alle Consacrazioni senza mandato sono riferite da Scrosati in modo parziale e sfavorevole a mons. Lefebvre
La ricostruzione di Scrosati muove dal Protocollo di Accordo concordato con il cardinale Ratzinger e firmato da mons. Lefebvre il 5 maggio 1988, con firma ritirata il giorno successivo. Il protocollo conteneva la “regolarizzazione canonica della Fraternità” e così disciplinava la possibilità di criticare il Concilio:  “riguardo a certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o che riguardano le riforme successive della liturgia e del diritto, e che a noi sembrano difficilmente conciliabili con la tradizione, noi ci impegniamo ad avere un atteggiamento positivo di studio e confronto con la Sede apostolica, evitando ogni polemica”[18].
Perché mons. Lefebvre ritirò la sua firma?  L’Autrice non cerca di dare una qualche spiegazione. “Ma Mons. Lefebvre, il giorno dopo, ritirò la sua firma e chiese a Roma, come prova della sincerità di questa proposta, di fissare la data delle ordinazioni episcopali entro il 30 giugno di quell’anno.  Si trattava di un ultimatum.  Il 24 maggio, mons. Lefebvre si recò nuovamente da Ratzinger, chiedendo la consacrazione non più di uno ma di tre vescovi, scelti da una commissione la cui maggioranza fosse composta da non meglio precisati membri della tradizione e che venisse data risposta entro il 1 giugno.  Il 30 maggio Lefebvre incontrò diversi responsabili della Fraternità e i superiori delle comunità religiose amiche.  Tra questi ultimi era presente dom Gérard, che era contrario ad una rottura con Roma ed auspicava l’accettazione dell’accordo proposto dalla Santa Sede […].
Nel frattempo Roma rispondeva di voler accelerare le nomine dei futuri vescovi, di modo che le consacrazioni potessero essere fatte entro il 15 agosto dell’anno in corso, forse per assecondare la sincera percezione di mons. Lefebvre di non esser lontano dal redde rationem (morirà infatti nel 1991).  Ma il 15 giugno Lefebvre annunciò in una conferenza stampa la volontà di procedere comunque alle ordinazioni episcopali il 30 giugno ed indicò i nomi dei quattro futuri vescovi.  La Congregazione dei vescovi indirizzò allora un Monitum a Lefebvre, avvertendo che lui ed i quattro futuri vescovi sarebbero incorsi nella scomunica latae sententiae ; nel contempo la Santa Sede chiedeva ai membri della Fraternità e a tutti i fedeli di riconsiderare la propria posizione e affermava “che saranno prese tutte le misure per garantire la loro identità nella piena comunione della Chiesa cattolica”[19].
Questa succinta (ed anche lacunosa) ricostruzione degli eventi non situa il comportamento di mons. Lefebvre nel suo effettivo contesto storico, non cerca di far capire perché ad un certo punto sia sorto il problema stringente di uno o più successori, non ci rende noto il carattere piuttosto deludente dell’accordo da lui saggiamente rescisso.  Già riferire i fatti a partire dal protocollo del 5 maggio, significa esporli in modo tronco e parziale, cosa che fatalmente finisce col mettere in cattiva luce la figura di mons. Lefebvre. 
Ma valga il vero.  Negli anni 1981-82 c’era stato in Brasile un antefatto assai poco incoraggiante. Dimessosi per limiti d’età il 28 agosto 1981 mons. de Castro Mayer, il suo successore, nominato dall’autorità vaticana, mons. Alberto Navarro, aveva rapidamente demolito tutto ciò che aveva costruito il suo predecessore:  chiusi i seminari, cacciati insegnanti e seminaristi, trasferiti i preti che celebravano nel rito tridentino.  Un’autentica persecuzione, uno sterminio completo[20].
Da quell’epoca mons. Lefebvre cominciò pertanto a porsi il problema di un successore fedele alla Tradizione della Chiesa.  Il problema si acuiva man mano che passavano gli anni.  La sua salute peggiorava, rendendogli ad un certo punto impossibili i lunghi viaggi in aereo, necessari per andare a impartire le Cresime nelle Americhe, per esempio.  Peggiorava sempre più la situazione della Chiesa visibile.  Dal 1983 lasciò trasparire più volte pubblicamente la sua intenzione, condivisa da mons. de Castro Mayer, di consacrare lui stesso dei collaboratori, ricevendo puntuali repliche ossia messe in guardia dal cardinale Ratzinger, al tempo Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede[21].
Lo scandalo inaudito dell’Incontro interreligioso di Assisi fu da lui interpretato come un primo segno dall’Alto per rompere gli indugi.  Un secondo segno fu costituito dalla risposta di cinquanta pagine data dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel marzo 1987 a trentanove Dubia  da lui sottomessi nell’ottobre 1985 sulla compatibilità della nuova dottrina sulla “libertà religiosa” con l’insegnamento tradizionale della Chiesa.  La risposta, che voleva dimostrare  esser la novità del tutto compatibile con la dottrina di sempre, convinceva mons. Lefebvre del carattere sempre più neo-modernista di un magistero che, ispirandosi sempre al Concilio,  appariva “schiavo ormai di falsi princìpi”.  Nel consueto sermone per le ordinazioni del 29 giugno 1987 annunciò che “avrebbe proceduto a nominare dei successori per continuare quest’opera, dato che Roma è nelle tenebre”[22].
  Nell’agitazione che ne seguì, scrisse l’8 luglio successivo a Ratzinger: “Nous supplions le Saint-Père, par votre intermédiaire, de procurer le libre exercise de la Tradition” in modo da permettere “que S.E. Mgr de Castro Mayer et moi-même puissions nous donner des auxiliaires de notre choix”[23].
Cominciarono nervose e a tratti convulse trattative, che durarono quasi un anno, per poi fallire clamorosamente.  L’articolo di Scrosati, ispirandosi verosimilmente al libro di Yves Chiron, sembra scaricare sul solo mons. Lefebvre la colpa del fallimento, facendolo apparire come persona arrogante e testarda, prona anche a colpi di testa, come il famoso ritiro della firma del 5 maggio.  E senza mai cercare di spiegare al lettore le sue ragioni.  Ma questa rappresentazione della personalità e dell’azione di mons. Lefebvre non regge ad un’analisi obiettiva dei fatti.
3.1  L’insensibilità e la tattica dilatoria di Roma fecero fallire le trattative
Il cardinale Ratzinger, ricevuto mons. Lefebvre a Roma il 14 luglio 1987, propose una soluzione pratica: dichiarazione attenuata della FSSPX sul Concilio e il Nuovo Messale per ottenere dal Papa un vescovo per le future ordinazioni.  In séguito, si sarebbe trovato il modo di garantire una certa autonomia nei confronti dei vescovi diocesiani, per poter continuare nell’impostazione fedele alla Tradizione.   Il 28 luglio Ratzinger fece maggiori concessioni in una lettera a mons. Lefebvre: niente più dichiarazioni di tipo dottrinale,  si sarebbe concessa “una struttura giuridica adeguata” per la “giusta autonomia” della Fraternità; ci sarebbero stati degli “ausiliari”. Si confermava la concessione del Messale del 1962, la continuazione dei seminari, delle ordinazioni.  Sarebbe stato inviato un Visitatore Apostolico, peraltro già richiesto da tempo dalla stessa Fraternità.
Secondo mons. Tissier de Mallerais, che ha vissuto quegli eventi in prima persona come teologo, attivo collaboratore di mons. Lefebvre,  quest’ultimo era intenzionato a procedere alle consacrazioni già per il 25 ottobre di quell’anno, festa di Cristo Re, trovando ancora generiche le offerte romane e, soprattutto, non avendo più fiducia nei confronti di autorità pervase da una mentalità chiaramente neo-modernista. Ma poi ci ripensò, perché, annota il suo biografo, anche lui “non era tutto d’un pezzo”.  I suoi collaboratori lo invitavano alla prudenza e premeva anche a lui trovare un accordo[24].
Mons. Lefebvre non ha mai agito senza consultarsi.  Ha sempre ascoltato molte persone: non solo i collaboratori, gli amici qualificati ma, a volte, persino il quisque de populo. Chiedeva l’opinione altrui, ascoltava, rifletteva.  Poi però la decisione la prendeva lui, da solo, in modo netto, assumendosene pubblicamente tutta la responsabilità.  Così, a ben vedere, deve fare un vero capo, un vero pastore del gregge affidatogli da Nostro Signore.
 Il 3 ottobre, “fece un volta-faccia pubblico”, dinanzi a 4000 fedeli venuti ad Écône per festeggiare i suoi quarant’anni di episcopato, assieme a tutti i seminaristi e a preti e religiosi amici. Disse che Roma “aveva presentato delle soluzioni che sembravano straordinarie”.  Improvvisamente, si aprivano grandi speranze di una soluzione ottimale.  L’11 novembre venne il Visitatore Apostolico, nella persona del cardinale Édouard Gagnon, presidente del Consiglio Pontificio della Famiglia, noto per il suo carattere mite e paziente.  Per intercessione di Jean Guitton, con il quale era in buoni rapporti, mons. Lefebvre aveva ottenuto da Ratzinger che il Visitatore svolgesse compiti solo informativi.  Il cardinale Gagnon fece un’ottima relazione sull’ortodossia dottrinale e sullo “spirito ecclesiastico” del Seminario.  Ma mons. Lefebvre aveva notificato al cardinale “tre esigenze” ulteriori, da trasmettere a Roma:  1. per l’effettiva autonomia dai vescovi diocesani un Ordinariato con il Superiore generale della Fraternità come Ordinario;  2. una Commissione romana presieduta da un cardinale ma i cui membri fossero selezionati dal Superiore generale, per regolare i rapporti tra il futuro Ordinariato e la S. Sede, Curia compresa;  3. tre vescovi invece di uno solo, tra i quali lo stesso Superiore generale, da inquadrarsi nel modello degli Ordinari Militari[25].  
Come si vede, la volontà di avere tre vescovi, essendo stato uno solo sempre da lui considerato del tutto insufficiente, mons. Lefebvre l’aveva manifestata in modo ufficiale ben nove mesi prima del 24 maggio 1988; non apparve all’improvviso in quella data, come si ricava dalla lacunosa ricostruzione di Scrosati.  E fin dall’inizio non aveva forse richiesto più ausiliari? In un’intervista del 2 febbario 1988, egli ribadì il concetto: “sono deciso a consacrare almeno tre vescovi per il 30 giugno [di quell’anno], sperando di aver l’approvazione di Giovanni Paolo II. Ma, se non dovessi averla, passerei oltre, per il bene della Chiesa, per la perpetuità della Tradizione”.  Perché il 30 giugno?  Perché veniva dopo il 29, Festa dei Santi Pietro e Paolo, giorno nel quale ogni anno a Écône si facevano le ordinazioni sacerdotali, con ampia partecipazione di clero e  fedeli: tutta la struttura organizzativa dell’evento era dunque in loco, già approntata[26].
I tre punti erano per mons. Lefebvre fondamentali.  In una lettera al Papa del 20 febbraio, insisteva per avere una data per le Consacrazioni anteriormente al 30 giugno.  Il 18 marzo, il cardinale Ratzinger rispose proponendo l’istituzione di una commissione per trovare una soluzione pratica, con due esperti per parte, un canonista e un teologo.  La commissione si riunì il 12 e il 13 aprile 1988 nel Palazzo del Sant’Uffizio.  Presidente Ratzinger, moderatore il P. Benoît Duroux OP con P. Tarcisio Bertone (il futuro cardinale) e P. Fernando Ocariz dell’Opus Dei.  Dall’altra parte, mons. Lefebvre con P. Patrice Laroche (canonista) e P. Bernard Tissier de Mallerais (teologo e futuro biografo dello stesso monsignore).  Mons. Lefebvre si lasciò convincere ad accettare il documento finale perché gli permetteva di sostenere che “alcuni punti del Concilio e delle riforme liturgiche e del diritto canonico gli sembravano difficilmente conciliabili con la Tradizione”[27].  Ma sui tre punti che gli stavano a cuore, non aveva in realtà ottenuto nulla di concreto.  La Commissione sarebbe stata composta a larga maggioranza da membri della Curia, cinque contro due della Fraternità.  Non si voleva concedere alcun vescovo.  Poi si accondiscese a uno, grazie ad un intervento di Bertone eleggibile tra i membri della Fraternità.  Si chiedeva di riconoscere la giurisdizione degli Ordinari locali per le Cresime. Nei confronti della nuova liturgia, sottolineò il cardinale Ratzinger, “occorreva reciprocità nell’accettazione dei riti”.  Le comunità legate alla Fraternità sarebbero state reincorporate nei loro ordini anche se  con uno “statuto particolare”.  Per il vescovo, ci voleva comunque tempo, occorreva far pervenire i dossier dei candidati, che andavano studiati. Già il 3 maggio mons. Lefebvre fece avere quattro nomi di eleggibili, i dossier li inviò a ruota.  Il 4, Ratzinger disse che a Parigi, nella chiesa della Fraternità, Saint-Nicolas-du-Chardonnet, si sarebbe dovuta celebrare anche una Messa della parrocchia, cioè con il nuovo rito poiché “la Chiesa è una”.  Per la data, il P. Laroche ne propose una non oltre il 15 agosto, possibilmente il 30 giugno.  Ma sulla data il cardinale Ratzinger non si pronunciò.[28]
Mons. Tissier de Mallerais, presente ai fatti, testimonia che mons. Lefebvre non era affatto tranquillo; era combattuto tra una “vera soddisfazione” per l’accordo con Roma e una “sorda diffidenza”.  Non appariva affatto contento di se stesso.  Lo fece capire, nello stesso pomeriggio della firma, alle Discepole del Cenacolo, le suore che curavano e a tutt’oggi curano a Velletri la redazione di sì sì no no, il famoso periodico “antimodernista” fondato nel 1975 da don Francesco Putti del Clero Romano (1909-1984), loro padre spirituale.  Disse loro: “ Se don Putti fosse qui, che direbbe?  - Monsignore, dove state andando? – Monsignore, che state facendo?”[29].
Bisogna sapere che mons. Lefebvre aveva sempre avuto grande stima di don Putti, che aveva incontrato più volte, mostrando di tener sempre in gran conto la sua opinione.  Nel 1983, sì sì no no aveva pubblicato la “lettera aperta” inviata al Papa con la denuncia dei “sei errori” da mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer (vedi supra).  Nel ringraziarlo, mons. Lefebvre l’aveva definito “l’ultimo araldo della Fede cattolica a Roma”[30].  Don Putti combatteva la stessa coraggiosa battaglia dei due vescovi difensori della fede contro l’avanzata del neo-modernismo all’interno della Chiesa.  L’inattesa evocazione dell’opinione di don Putti, faceva capire che, secondo lo stesso mons. Lefebvre, don Putti non sarebbe stato affatto contento del documento testé firmato dall’anziano presule.  E di questo, mons. Lefebvre si angustiava.  Dopo una notte praticamente insonne e passata in preghiera al Priorato di Albano, il giorno dopo, perfettamente calmo per la ritrovata tranquillità dello spirito, fece recapitare a Ratzinger una lettera nella quale ritirava la firma (lettre de dédit) e poneva la questione della fissazione della data della Consacrazione al 30 giugno come questione fondamentale, da lui già in precedenza sollevata ma negletta dal cardinale.  Il tempo per approvare i dossier dei candidati c’era, scriveva. Il Papa poteva abbreviare la procedura e far avere il suo mandato per il 15 giugno.  Se la risposta fosse stata negativa, mons. Lefebvre avrebbe comunque proceduto alla Consacrazione, forte del fatto che il Protocollo d’Accordo gli concedeva un vescovo.  Le reticenze delle autorità romane sulla consacrazione di un sacedote della Fraternità, gli facevano temere dilazioni[31].
Sembrava appunto un ultimatum.  Ma bisognava pure cercar di sbloccare un negoziato che si stava trascinando da quasi un anno e costringere la S. Sede a mettere le carte in tavola! Il cardinale Ratzinger, rimasto di stucco dal ritiro della firma, dopo aver annullato la conferenza stampa che avrebbe annunciato l’avvenuto accordo, scrisse a mons. Lefebvre chiedendogli di “riconsiderare la sua posizione”.  Il 10 maggio, quest’ultimo fece una quadro generale della situazione ai sacerdoti della Fraternità, ribadendo che “il 30 giugno ci saranno delle consacrazioni episcopali, con o senza l’accordo con Roma”.  Il 17 maggio Ratzinger scrisse a mons. Lefebvre una lettera contenente quelle che sembravano essere le definitive condizioni poste da Roma: sarebbe stata necessaria una lettera al Santo Padre nella forma di una “umile supplica” per chiedere “riconciliazione e perdono”.  Si poteva anche chiedere la concessione di un vescovo per la Fraternità ma “senza suggerire data alcuna”.  Questa lettera di Ratzinger è taciuta da Scrosati.  Il 20 successivo, mons. Lefebvre scrisse al Papa, ribadendo che per lui “il 30 giugno” era una data limite e che occorrevano “più vescovi” poiché uno solo era del tutto “insufficiente”.  Il 24 maggio, a Roma, chiese a Ratzinger di trasmettere al Papa questa richiesta:  di volergli indicare, prima del 1°giugno, se concedeva la consacrazione di  t r e  vescovi per il 30 successivo, e se concedeva una maggioranza di membri della Tradizione nella famosa commissione.
Il 30 maggio il cardinale comunicò la risposta del Papa. Niente maggioranza nella commissione, la Fraternità “non ne ha bisogno”.  Circa i vescovi, il Santo Padre “è disposto a nominare un vescovo della Fraternità […] in modo che la consacrazione possa aver luogo il 15 agosto”.  Ma occorre che siano inviati al Santo Padre ulteriori dossier in modo che il Santo Padre possa scegliere un candidato “con il profilo previsto dall’accordo”. I candidati finora indicati non avevano “il profilo”.  Bisognava affidarsi al Papa e al Signore[32].
Tormentato sulla giusta decisione da prendere, ma sempre fedele al suo metodo, mons. Lefebvre convocò per il 30 maggio al priorato di Notre-Dame-du-Pointet “i sacerdoti difensori della fede e i superiori e le superiori delle comunità monastiche amiche”.  Una sorta di “petit concile de la Tradition”, nel quale ognuno potè esprimersi in tutta franchezza[33].
Si dichiararono per  l’accordo il P. Lecareux, i cappuccini, il P. Coache e lo stesso P. Tissier de Mallerais, unitamente a dom Gérard.  Altri vi si opposero. Le suore quasi all’unanimità erano tutte contrarie[34].  Dom Gérard evocò il rischio di finire col diventare “una piccola Chiesa”, per sempre separata dalla grande Chiesa. Contro i pericoli di assorbimento e dissoluzione paventati da mons. Lefebvre, disse che “ci si sarebbe difesi con la forza delle nostre posizioni dottrinali”.   I fatti poi lo hanno drammaticamente smentito, dal momento che il Barroux, fatto l’accordo con Roma, ha rapidamente accettato le pessime novità introdotte dal Concilio, in particolare la “libertà religiosa”, ispirata a ben noti modelli profani!  Il concetto espresso da mons. Lefebvre, alla fine, affermava un principio “luminoso”, commenta il suo biografo:  “Le lien officiel à la Rome moderniste n’est rien à côté de la préservation de la foi!”[35].
Scrosati non cerca di spiegare al lettore i motivi per i quali mons. Lefebvre decise alla fine di rompere le trattative.  Eppure risultano chiaramente dalla documentazione.  Durante la riunione del Pointet del 30 maggio, mons. Lefebvre così riassunse la situazione:  “Finora eravamo protetti in modo naturale, la selezione si faceva da se stessa per l’esigenza di una frattura con il mondo conciliare; d’ora in poi bisognerà fare dei controlli continui, difendersi senza tregua dagli ambienti romani, dagli ambienti diocesani.  È per questo che vogliamo tre o quattro vescovi e la maggioranza nel consiglio romano [la commissione, vedi supra].  Ma fanno orecchie da mercante.  Hanno accettato soltanto un vescovo e sotto minaccia continua, e hanno rimandato la data.  Ritengono inconcepibile che li si tratti come un ambiente contaminato, dopo tutto quello che ci accordano.  Dunque per noi si pone il problema morale: bisogna assumersi il rischio di contatti con questi ambienti modernisti nella speranza di convertire qualche anima, e con la speranza di proteggersi con la grazia di Dio e la virtù della prudenza, e quindi rimanere uniti a Roma legalmente, secondo la lettera, dato che lo siamo nella realtà e secondo lo spirito?  O bisogna prima di tutto preservare la famiglia della Tradizione per mantenere la sua coesione e il suo vigore nella fede e nella grazia, considerando che il legame puramente formale con la Roma modernista non può venir equiparato con la salvaguardia di questa famiglia, la quale rappresenta ciò che resta della vera Chiesa cattolica?  Che cosa Iddio, la SS.ma Trinità e la Vergine di Fatima ci chiedono come risposta a questa domanda?”[36]  
In effetti, come annota P. Gleize, “rimanere integri in un ambiente contaminato è molto spesso un’impresa votata al fallimento. Fu il sogno di dom Gérard e fu pure il suo scacco”[37].
Dagli argomenti esposti da mons. Lefebvre si vede, comunque, che la commissione da lui proposta aveva soprattutto il compito di costituire un filtro nei rapporti ordinari tra la Fraternità e la Curia, non quello di scegliere i vescovi al posto del Papa, come sembra affermare l’articolo di Scrosati: “…la consacrazione non più di uno ma di tre vescovi, scelti da una commissione la cui maggioranza fosse composta da non meglio precisati membri della tradizione…”.  Inoltre, non è vero, come scrive l’Autrice, che “nel frattempo Roma rispondeva di voler accelerare le nomine dei futuri vescovi, di modo che le consacrazioni potessero esser fatte entro il 15 agosto…”.   Quali “futuri vescovi”?  Il Papa ne concedeva u n o  a malapena, sia pure tratto dai sacerdoti della Fraternità, ma mostrava di tirarla in lungo sulla scelta effettiva, richiedendo nuovi dossier.  Non dimostrava affatto l’intenzione di “accelerare” per arrivare senza intoppi al 15 agosto.  L’articolo vuol far credere che la S. Sede avesse concesso più di un vescovo a mons. Lefebvre e che gli stesse venendo premurosamente incontro sulla data!
      Il 2 giugno, festa del Corpus Domini (Fête-Dieu), mons. Lefebvre scrisse la famosa lettera al Papa, nella quale interrompeva le trattative e dichiarava di tirar dritto per la via indicatagli dalla Provvidenza.
“Étant donné le refus de considérer nos requêtes et étant évident que le but de cette réconciliacion n’est pas du tout le même pour le Saint-Siège que pour nous, nous croyons préferable d’attendre des temps plus propices  au retour de Rome à la Tradition.
C’est pourquoi nous nous donnerons nous-même les moyens de poursuivre l’oeuvre que la Providence nous a confiée…”[38].
I concetti erano chiari: ci troviamo di fronte al rifiuto di prendere in considerazione le nostre richieste; il fine di questa riconciliazione non è il medesimo per la S. Sede e per noi (questo è un punto essenziale); preferiamo allora aspettare dei tempi più propizi al ritorno di Roma alla Tradizione, solo allora sarà possibile “riconciliarci”.  Ci daremo quindi da noi stessi i mezzi per proseguire nell’opera assegnataci dalla Provvidenza (procederemo, pur in assenza del mandato del Papa).  Subito dopo, la lettera aggiungeva che l’azione era giustificata anche dalla lettera del cardinale Ratzinger del 30 maggio, dalla quale risultava che “la consacrazione episcopale non è contraria alla volontà della S. Sede, essendo stata accordata per il 15 agosto”.   In realtà, abbiamo visto che il Papa si dichiarava “disposto” a concedere un solo vescovo, possibilmente per il 15 agosto.  Mons. Lefebvre qui utilizzava a suo favore il senso delle dichiarazioni di Ratzinger, anche se è vero che il principio della consacrazione di un vescovo tratto dalla Fraternità era stato accettato (ma accettato, sottolineo, nel senso che il Papa era disposto a concedere un vescovo, uno solo,  se  avesse trovato tra i preti della Fraternità il candidato con il giusto “profilo”).
Mons. Lefebvre tagliò con un colpo di spada i bizantinismi con i quali la S. Sede continuava a dar l’impressione di prender tempo e dilazionare.  E consacrò  q u a t t r o  vescovi.  Il Papa rispose il 9 giugno alla lettera di mons. Lefebvre qualificando il suo progetto come “atto scismatico”. Il cardinale Ratzinger inviò il suo segretario, che fu ricevuto il 10 a colloquio per molte ore da mons. Lefebvre. Si avanzò la proposta di riconsiderare la composizione della ipotizzata commissione[39]. Un’offerta tardiva, comunque parziale e non risolutiva, non certo tale da indurre mons. Lefebvre a ritornare sui suoi passi.
Il 29 giugno mons. Lefebvre ordinò quindici sacerdoti. Il 25 era arrivato il vescovo emerito di Campos, mons. Antonio de Castro Mayer,  con diversi suoi sacerdoti; pur sofferente, egli aveva voluto esser presente per testimoniare il suo appoggio, leale sino alla fine. Dopo l’omelia della consacrazione di mons. Lefebvre, lesse una breve, incisiva dichiarazione, contenente una “professione pubblica di fede” di sostegno alla posizione assunta da mons. Lefebvre.  Il 17 giugno era arrivata l’ammonizione del cardinale Gantin, che lo scongiurava di non procedere, se non voleva ritrovarsi scomunicato ipso facto.  Il pomeriggio del 29 venne a visitarlo Jean Guitton, che fu sorpreso della calma e della pace interiore che da lui emanavano. A domanda, rispose che si sentiva calmo “perché aveva l’impressione di fare la volontà di Dio”.  Alla sera un messaggio di Ratzinger esprimeva il paterno monito del Papa di soprassedere.  Mons. Lefebvre lo commentò così con un suo sacerdote: “Se oggi stesso mi portassero il mandato pontificio con tanto di firma, rinvierei la consacrazione al 15 agosto e l’annuncerei domani”[40].
4.  Non ci fu nessuno scisma, né “formale”, né “sacramentale”, né “di fatto”, solo una disobbedienza giustificata dallo stato di necessità.
Scrosati mostra di aderire alla tesi di Yves Chiron, che a sua volta si basa acriticamente sulla tesi ufficiale sostenuta a suo tempo dall’autorità vaticana. L’Osservatore Romano del 30 giugno-1 luglio 1988 accusò anonimamente di scisma in senso formale (“atto formalmente scismatico”) mons. Lefebvre, negandogli la buona fede: aveva agito contro il volere espresso del Papa mentre "la pretesa ‘necessità’ era stata da lui creata appositamente per conservare un atteggiamento di divisione dalla Chiesa cattolica, nonostante le offerte di comunione e le concessioni fatte dal Santo Padre Giovanni Paolo II”.  Un’accusa del tutto assurda. L’esistenza dello scisma in senso formale è stata negata da autorevoli canonisti e nel 2005 anche dal cardinale Dario Castrillón Hoyos al tempo Prefetto della Congregazione per il Clero.
In un’intervista concessa al mensile 30giorni, 9/2005, dichiarò, dopo aver precisato che la FSSPX non poteva considerarsi né sedevacantista né eretica:  “purtroppo, mons. Lefbvre procedette con le consacrazioni e pertanto si è creata una situazione di separazione, anche se non si è trattato di uno scisma in senso formale”(corsivo mio).  Nel luglio del 1995, i giuristi della Pontificia Università Urbaniana non approvarono forse una “tesina” di laurea del P. Murray che sosteneva la stessa cosa?  C’è stata una “separazione”, sottolineava Sua Eminenza, ma non uno scisma in senso proprio o formale. I vescovi della Fraternità erano stati validamente ordinati anche se illecitamente, mancando il mandato pontificio.  Nel 2005, pertanto, la Fraternità si trovava pertanto nella situazione di una “associazione non riconosciuta [dal CIC del 1983] i cui vescovi si dichiarano degli ausiliari”.  Ausiliari della FSSPXperché, non avendo diocesi alcuna, non esercitando perciò il potere di giurisdizione (che non avevano avuto), non governando insomma diocesi di una “chiesa parallela”, esercitavano solamente una “giurisdizione supplita” per il caso concreto che via via si presentasse, ad personam, per il bene delle anime.  
Ma cerchiamo di spiegare la differenza tra “separazione” e ‘scisma”.
Una situazione di “separazione” costituisce di per sé uno scisma?  Evidentemente no.  La “separazione”derivante da una disubbiedienza, non è a ben vedere una vera “separazione”dalla Chiesa militante poiché la disubbidienza non configura una situazione che possa considerarsi come talescismatica, altrimenti bisognerebbe affermare che ogni disubbidienza costituisce scisma, il che non è, ovviamente.  Perché si abbia uno scisma non basta la disubbidienza, occorre che l’atto della disubbidienza presenti la natura di un vero e proprio atto scismatico.  La nozione di tale atto la troviamo ben spiegata da Yves Congar OP, non ancora approdato alla nouvelle théologie, nella ben nota voceschisme da lui curata per il Dictionnaire de Théologie Catholique.  Riassumendo il pensiero dell’Aquinate, scriveva:  “L’atto scismatico è dunque quell’atto malvagio che ha direttamente, propriamente ed essenzialmente quale oggetto specifico una cosa contraria alla comunione ecclesiastica, vale a dire a quell’unità che, tra i fedeli, è l’effetto proprio della carità.  Un atto, in effetti, si caratterizza per l’oggetto cui tende per sé, per il fatto stesso di ciò che esso [atto] è.  Un atto mostrerà allora la qualità di atto scismatico, allorché, per la sua stessa natura, avrà di mira la separazione dall’unità spirituale frutto della carità”[41].
L’atto scismatico, dunque, è, e non può non essere, quello che ha come scopo “direttamente, propriamente ed essenzialmente” – non si parla quindi di un approccio indiretto – la rottura dell’unità ecclesiale.  E perché si possa dire che un atto abbia uno scopo del genere, occorre un segno certo, dato non dalla disobbedienza in quanto tale, ma dalla “volontà di costituire per proprio conto una Chiesa particolare”.  Secondo la limpida dizione di san Tommaso:  “dicuntur enim schismatici qui concordiam non servant in Ecclesiae observantiis, volentes per se Ecclesiam constituere singularem[42].
Non basta “non conservare la concordia”, non basta la sola disubbidienza, occorre la volontà manifesta di costituirsi come Chiesa separata.  L’atto scismatico per eccellenza non sarà allora quello che resta confinato alla mera disubbidienza (quale una consacrazione episcopale senza mandato); sarà, invece, quello che istituisce la gerarchia di una Chiesa parallela con la missio canonica, cioè con il conferimento del potere di giurisdizione ai vescovi illegittimante consacrati e l’istituzione delle relative diocesiUn atto del genere mira di sicuro alla “separazione dall’unità spirituale frutto della carità”.  È segno certissimo. Con quest’atto si ha lo scisma in senso formale poiché con esso ci si sottrae formalmente alla sottomissione al Papa, negandogli l’autorità come Sommo Pontefice, cioè come capo della Chiesa universale: “ut summus Pontifex”[43].    
Lo studio imparziale delle dichiarazioni e degli atti di mons. Lefebvre dimostra inequivocabilmente che egli non ha mai avuto l’animus dello scismatico. Aveva preannunciato pubblicamente che non avrebbe istituito nessuna “chiesa parallela”, con una gerarchia propria, fornita di potere di giurisdizione, secondo i canonisti (come si è visto) la vera prova della volontà di scisma e dell’esistenza di quest’ultimo.  E difatti non conferì ai quattro vescovi da lui consacrati senza mandato il potere di giurisdizione. Conferì solo il potere dell’Ordine, su base personale, da esercitarsi ad actum ovvero secondo le necessità, l’esigenza posta dal caso concreto (per esempio, Cresime da amministrare, ordinazioni sacerdotali).  A tutt’oggi la Fraternità non ha diocesi.  È divisa in “distretti” amministrativi, i cui titolari sono quasi sempre sacerdoti.  È rimasta quello che era:  una congregazione di vita in comune senza voti (pubblici), regolarmente eretta nel 1970 secondo il CIC del 1917, al tempo vigente.  Essa si trova fuori del nuovo CIC del 1983, che ha introdotto figure parzialmente diverse dalle antiche, non fuori della Chiesa visibile.    
Nel settembre 1986, durante un ritiro per i sacerdoti da lui predicato a Écône, mons. Lefebvre per l’appunto illustrò il ruolo limitato che avrebbero avuto i futuri vescovi, se li avesse dovuti consacrare:
“Sarebbero i miei ausiliari, senza alcuna giurisdizione ed unicamente per le cresime e le ordinazioni, con una funzione anche dentro la Fraternità; ma agli occhi della Chiesa, conta il Superiore Generale, i vescovi sarebbero al servizio della Fraternità.  È la Fraternità che viene dalla  Chiesa [C’est la Fraternité qui est d’Èglise], che è stata approvata dalla Chiesa.
Non si tratta assolutamente di fare una “Chiesa parallela”.  Lo scopo è semplicemente “quello di continuare la Fraternità, affinché essa non faccia una brutta fine per l’impossibilità di avere chi consacra i sacerdoti”[44].   La mancanza di ogni intento scismatico è confermata anche dalla conclusione del ragionamento:  “E quando Roma tornerà alla verità della Chiesa di sempre, questi vescovi rimetteranno la loro dignità episcopale nelle mani del Papa, dicendogli: “Eccoci!  Che volete fare di noi?  Se lo volete, ci riduciamo ora a semplici preti; se volete servirvi di noi, servitevi di noi”[45].
Né si può parlare, come qualcuno ha fatto, di “scisma virtuale”, costituito appunto dalla situazione di “separazione” nella quale di fatto si trovano ad essere i membri della FSSPX ed i fedeli che assistono alle loro funzioni e ricevono i Sacramenti dai suoi sacerdoti.  Lo scisma “virtuale” sarebbe una situazione canonicamente irrilevante ma “teologicamente reprensibile”, come sosteneva il P. Murray, che pure negava radicalmente l’esistenza dello scisma in senso formale.  Ma, mi chiedo, può parlarsi di scisma virtuale quando si ha una situazione di separazione esteriore imposta dalla necessità?  Non occorre  che ci sia anche qui una effettiva volontà di scisma, non ancora attuatasi?  Ma questo non è stato certo il caso di mons. Lefebvre, dei suoi sacerdoti e dei fedeli che frequentano la S. Messa di sempre presso le loro chiese.  Qui la separazione non esprime la volontà di scindersi ma è imposta dallo stato di necessità; non è voluta, è subìta. È il prezzo che si deve pagare innanzitutto per poter celebrare una Messa non ambigua (come quella di Paolo VI) e sicuramente cattolica. Insomma, è il prezzo che si deve pagare per poter rimanere fedeli alla Tradizione della Chiesa.  Se qui ci troviamo in presenza di uno scisma in senso virtuale allora erano scismatici in senso virtuale anche coloro  che si mantenevano di fatto separati dagli ariani eretici mentre costoro dominavano nella Chiesa ufficiale del tempo.  Anche sant’Atanasio dovrebbe considerarsi uno scismatico in senso virtuale!  E che tale separazione, pur in assenza di un nuovo rito della Messa, ci fosse, lo rivela la sua famosa frase, che fu anche un grido di battaglia:  “Loro [gli ariani eretici] hanno le chiese, noi abbiamo la fede!”.
Come ha dimostrato la “tesina” del P. Murray, mons. Lefebvre non avrebbe neanche dovuto esser scomunicato, a norma del CIC del 1983.  Egli agì convinto di trovarsi in un impellente stato di necessità: la necessità di provvedere – lui, unico vescovo, ormai anziano e logoro nel fisico – alla sopravvivenza della Fraternità nel sicuro rispetto dello spirito dei suoi statuti, che erano e sono quelli di una congregazione la cui missione consiste nella formazione di sacerdoti in modo conforme alla Tradizione della Chiesa e nel mantenimento della Messa di rito romano antico (detta “tridentina”).  Una convinzione del genere, giusta o sbagliata che sia, secondo il CIC del 1983 impedisce in ogni caso l’applicazione della scomunica.
La disubbidienza rappresentata da una consacrazione episcopale senza mandato del Papa veniva punita dal CIC del 1917 con la sospensione a divinis (c. 2370).  Il codice attuale, al c. 1382, prevede invece la scomunica latae sententiae (cioè applicabile dal Papa senza processo canonico poiché il fatto stesso comporta la sentenza di scomunica), a meno che non ci siano delle cause attenuanti od esimenti, tra le quali si annovera l’esistenza e persino la semplice convinzione (ancorché errata) dell’esistenza dello stato di necessità[46].
Infatti, il Codice stabilisce che, per ciò che riguarda lo stato di necessità, quando la violazione della norma è avvenuta con un’azione intrinsecamente cattiva o dannosa per le anime, si ha una circostanza solo attenuante, sufficiente però ad escludere l’applicazione della scomunica, che deve essere sostituita da un’altra pena o da una penitenza.
Se la violazione, invece, ha avuto luogo con un atto né intrinsecamente cattivo né dannoso per le anime (e una consacrazione senza mandato fatta senza animus scismaticus non è certamente né cosa cattiva né dannosa per le anime), allora l’imputabilità addirittura non sussiste e non si può irrogare né pena né altra forma di sanzione.
Se però il soggetto per errore colpevole (per errorem, ex sua tamen culpa) ha ritenuto di essere costretto ad agire in stato di necessità, senza che la sua azione costituisse qualcosa di malvagio in sé o di dannoso per la salute delle anime, in questo caso ha diritto alle sole attenuanti. Il che significa che, anche in questo caso, se merita la scomunica, questa non può esser dichiarata, perché deve esser sostituita da un’altra pena o da una penitenza.  Quando poi l’errore di valutazione di cui sopra ha luogo senza colpa da parte del soggetto agente, allora, invece dell’attenuante, il medesimo ha diritto all’esimente.
A norma di legge, la disobbedienza del cosiddetto “vescovo ribelle”non avrebbe potuto esser punita con la scomunica.  Questo punto è stato dimostrato dalla “tesina” del P. Murray, che ricostruisce attentamente la fattispecie in oggetto, anche se poi il P. Murray ritiene che mons. Lefebvre, sia pure agendo in perfetta buona fede, si sia sbagliato nel valutare la gravità dello stato di necessità (valutazione, questa del P. Murray, che a mio avviso è a sua volta errata).  Sulla base del dettato del Codice, mons. Lefebvre e la Fraternità, forti della loro buona fede e della convinzione che lo stato di necessità esistevaoggettivamente, hanno sempre sostenuto che la scomunica doveva  considerarsi invalida e che lo scisma non c’è mai stato.
Ma lo scisma non c’era mai stato non tanto a causa della invalidità della scomunica quanto perché né mons. Lefebvre né i quattro vescovi da lui consacrati hanno dimostrato di avere una volontà scismatica. La buona fede di mons. Lefebvre, che il comunicato dell’Osservatore Romano cercava di mettere in dubbio,  risultava dal fatto inoppugnabile di aver conferito ai suoi vescovi il solo potere di Ordine; di averli istituiti, così come aveva detto, come semplici “ausiliari” della Fraternità, in modo che questa non restasse in futuro senza sacerdoti[47].  Il comunicato amplificava alquanto le “concessioni” fatte da Giovanni Paolo II, glissando sulla deleteria tattica dilatoria messa in atto durante le trattative.  Inoltre, faceva mostra di ignorare sia lo stato di necessità nel quale si trovava la FSSPX, sulla quale incombeva il reale pericolo di restare senza sacerdoti, sia lo stato di necessità nel quale si era venuta a trovare l’intera Cattolicità dopo il Vaticano II:  ignorava nel modo più completo la crisi della Chiesa. 
4.1 L’accusa di mendacio rivolta da Scrosati  a P. Schmidberger è ridicola oltre che priva di senso
 Ecco come Scrosati conclude il suo articolo, sempre, credo, sulla falsariga di Yves Chiron.
“Dom Gérard, come gesto di riconoscenza nei confronti di mons. Lefebvre, decise di essere presente alle ordinazioni.  Dopo un discorso iniziale di mons. Lefebvre ed un breve intervento di de Castro Mayer, Lefebvre domandò, secondo il rito del Pontificale Romanum, al Superiore Generale: “Habetis mandatum apostolicum?”; Schmidberger rispose affermando il falso: “Habemus”.  Ma dom Gérard probabilmente non ascoltò questa – bisogna dirlo – bugia, perché decise di allontanarsi prima delle consacrazioni vere e proprie, nel bel mezzo del sermone di Lefebvre, precisamente nel punto in cui il vescovo francese richiamò il messaggio delle apparizioni della SS. Vergine a Quito, nelle quali si annunciava una grande apostasia che avrebbe travolto la Chiesa nel XIX e gran parte del XX secolo.  Così commentò mons. Lefebvre [la rivelazione privata di Quito]:  “Ella parlava di un prelato che si opporrà decisamente a questa ondata di apostasia e di empietà, preservando il sacerdozio e facendo dei bravi preti.  Fate voi l’applicazione, se volete; io non la voglio fare, non posso”.  All’amico della prima ora, Laurent Meunier, dom Gérard aveva confidato:  “La commedia è durata abbastanza, questo comizio, questi applausi, non abbiamo più nulla da fare qui, noi rientriamo”.  Rientriamo in monastero, voleva dire dom Gérard; rientriamo nella Chiesa, voleva dire il buon Dio”[48].
Dunque:  P. Schmidberger, con la complicità o per istruzione di mons. Lefebvre, avrebbe affermato scientemente il falso.  Vedi come sono malvagi questi “lefebvriani”, che propinano agli allocchi che li frequentano una smaccata bugia, quella di avere un “mandato” pontificio che in realtà non avevano ricevuto!  Ma non era di pubblico dominio che le Consacrazioni sarebbero avvenute senza mandato pontificio?  E P. Schmidberger avrebbe, assieme a mons. Lefebvre, sfidato scioccamente l’opinione pubblica di mezzo mondo con il fingere platealmente di avere un mandato che tutti sapevano non esserci?
Ma perché Scrosati non ha citato il prosieguo del rito?  Non finiva mica con lo “Habemus”. Continuava, secondo la prassi, esibendo il mandato ovvero spiegando in che senso il mandato c’era, anche se non era quello del Papa regnante, provenendo invece esso dalla Chiesa, dalla sua Tradizione, in sostanza da Nostro Signore!  In nessun rigo del testo letto nel rito si è fatto credere di aver avuto il mandato da Giovanni Paolo II.  Per rendersene conto bisogna riportare compiutamente le fonti:  da esse si ricava in che modo, pur senza poter nominare il Papa, si ritenesse di essere comunque in possesso di un valido mandato apostolico.
“Avete un mandato apostolico?
L’abbiamo.
Che sia letto.
L’abbiamo dalla Chiesa Romana, la quale, nella sua fedeltà alle sante tradizioni ricevute dagli Apostoli, ci ordina di trasmetterle fedelmente ossia di trasmettere il deposito della fede a tutti gli uomini, per la salvezza delle loro anime[49].
Se le autorità ufficiali della vigente Gerarchia rifiutano la loro autorizzazione ad una consacrazione episcopale richiesta dallo stato di necessità in cui versano le anime, alle quali il clero, afflitto dagli errori neomodernisti, non trasmette più il Deposito della Fede (l’ha di recente fatto rilevare persino il cardinale Gerhardt Müller, riferendosi alla decadenza dell’episcopato cattolico attuale), è del tutto legittimo ritenere che la “Chiesa di Roma”, quale si è costituita e mantenuta in quasi venti secoli, sino al Vaticano II escluso, “ordini “ a coloro che sono rimasti fedeli al dogma della fede di “trasmettere fedelmente il deposito della fede”.  Chi ha autorizzato, allora, mons. Lefebvre a consacrare i quattro vescovi?  La Chiesa cattolica di sempre, il cui capo è Cristo e non il Papa, il quale ne è il Vicario pro tempore in questo mondo.   Se il Vicario, se il garante terreno si rifiuta di autorizzare un atto richiesto dalla pubblica e generale necessità e del tutto consono alle intenzioni della Chiesa di sempre, come quello rappresentato dalla consacrazione di quattro vescovi fedeli al dogma, pienamente sottomessi alla Sede Apostolica e che vogliono essere in comunione con il Papa, è lecito ritenere che Ecclesia supplet iurisdictionem.
4.2 Il vero significato dell’importante omelia pronunciata da mons. Lefebvre in occasione delle Consacrazioni.
Ma Scrosati vuol aggiungere una nota di dileggio nelle righe finali del suo articolo, riportando un altro commento offensivo di dom Gérard, che avrebbe lasciato la cerimonia giudicandola “una commedia, un comizio” [!], nel momento in cui mons. Lefebvre ricordava la figura del vescovo combattente da solo (nella Gerarchia) contro la grande apostasia che avrebbe devastato la Chiesa nel XX secolo, di cui alla profezia contenuta nella rivelazione privata di Quito, in Ecuador, più di tre secoli fa.   Con questa citazione e il relativo commento di dom Gérard, l’Autrice sembra voler proporre al lettore l’immagine finale di un mons. Lefebvre visionario megalomane, che si sentiva un sant’Atanasio mentre invece entrava in scisma (crede lei) con la Chiesa!  Il “buon Dio”, crede di sapere Scrosati, non approvava l’azione di mons. Lefebvre mentre avrebbe benedetto quella di dom Gérard, che si apprestava a “rientrare nella Chiesa”, per esser più precisi ad accordarsi con quell’autorità romana che, a partire dal Vaticano II, aveva fatto strame delle vera dottrina, pastorale e liturgia cattoliche!
La citazione estratta dal contesto getta una luce falsa su tutta l’omelia di mons. Lefebvre.  QuestaOmelia delle Consacrazioni è un testo importante, nel quale appaiono enunciati, con la chiarezza e lucidità tipiche di mons. Lefebvre, i princìpi in base ai quali i cattolici devono opporsi all’apostasia dilagante, senza timore di fronte alle false accuse di coloro che tentano di intimidirli.
Innanzitutto, il pugnace presule ribadì fermamente che non si stava attuando nessuno scisma.
“Non si tratta di separarci da Roma e di sottometterci ad un qualche potere estraneo a Roma, né di costituire una sorta di chiesa parallela come hanno fatto per esempio i vescovi di Palmar de Troya in Spagna, i quali hanno nominato un papa ed hanno istituito un collegio di cardinali.  Per noi non si tratta affatto di cose simili.  Lungi da noi questo miserabile pensiero di allontanarci da Roma.  Al contrario, è per manifestare il nostro attaccamento alla Chiesa di sempre, al Papa e a tutti coloro che hanno preceduto questi Papi che disgraziatamente dal Concilio Vaticano II hanno creduto di dover aderire ad errori gravi che stanno demolendo la Chiesa e distruggendo il sacerdozio cattolico.  Voi troverete proprio in questi fascicoli che mettiamo a vostra disposizione uno studio assolutamente ammirevole fatto dal prof. Georg May, direttore del Seminario di Diritto Canonico dell’Università di Magonza in Germania, che spiega meravigliosamente perché ci troviamo nel caso di necessità per venire in aiuto alle vostre anime, in vostro aiuto.
Il vostro applauso di poc’anzi [per il giuramento e la professione di fede dei consacrandi] penso che non siano una manifestazione puramente naturale, bensì una manifestazione spirituale che traduce la vostra gioia di avere infine dei vescovi e dei sacerdoti cattolici che salvino le vostre anime, che donino alle vostre anime la vita di NS Gesù Cristo, con la dottrina, i sacramenti, il Santo Sacrificio della Messa. Vita di Nostro Signore di cui avete bisogno per andare in Cielo e che sta per scomparire dovunque in questa Chiesa conciliare.  Essa segue sentieri che non sono sentieri cattolici. Essi portano semplicemente all’apostasia.  È per questo che noi procediamo a questa cerimonia”[50].
Si trattava, dunque, di resistere all’apostasia dilagante nella Chiesa visibile innanzitutto mantenendo la struttura gerarchica improntata alla fedeltà alla Tradizione della Chiesa, al momento obnubilata. L’apparente disobbedienza non era dunque affatto una ribellione al papato: la cosa era ovvia ma bisognava ribadirla.
“Lungi da me di erigermi a papa.  Io non sono che un vescovo della Chiesa cattolica che continua a trasmettere la dottrina.  Io penso, e ciò senza dubbio non tarderà, che si possano scrivere sulla mia tomba queste parole di san Paolo:  “Vi ho trasmesso ciò che ho ricevuto”, semplicemente.  Sono il postino che porta una lettera, questo messaggio, questa parola di Dio:  è Dio stesso, è Nostro Signore Gesù Cristo stesso.  Noi abbiamo trasmesso ciò che abbiamo ricevuto, tramite questi sacerdoti qui presenti e tramite tutti coloro che hanno creduto di dover resistere a questa ondata di apostasia nella Chiesa, conservando la fede di sempre e trasmettendola ai fedeli”[51].
Nel continuare a “trasmettere ciò che aveva ricevuto” mons. Lefebvre si sentiva spiritualmente in comunione con tutti i Papi che avevano preceduto il Vaticano II, ossia con tutto quello che era stato il Magistero della Chiesa, l’elemento portante della sua Tradizione.  Erano loro ad incitarlo moralmente.
“Mi sembra di sentire, miei carissimi fratelli, le voci di tutti questi papi, da Gregorio XVI, Pio IX, Leone XIII, San Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, che ci dicono:  Ma di grazia, di grazia, che state facendo dei nostri insegnamenti, della nostra predicazione, della fede cattolica:  volete abbandonarla? Volete lasciarla scomparire da questa terra? Di grazia, di grazia, continuate a conservare questo tesoro che vi abbiamo dato.  Non abbandonate i fedeli, non abbandonate la Chiesa!  Continuate la Chiesa!  Poiché infatti dal Concilio, ecco che le autorità romane adottano e professano ciò che noi abbiamo condannato. Come è possibile questo? “[52].
Gli errori condannati erano così sintetizzati dall’indomito presule: “liberalismo, comunismo, socialismo, modernismo, sillonismo (democratismo cristiano)”. E come riapparivano ora?  Sottolineo: nell’adozione della laica “libertà religiosa” e nella separazione della religione dallo Stato, ridotta a semplice sentire della coscienza individuale, sociologicamente organizzato in gruppi che lo Stato deve riconoscere; nella “teologia della liberazione”(oggi addirittura imperversante con Papa Francesco); nella mentalità modernistica tutto pervadente che relativizza la nozione stessa del vero distruggendo il concetto di verità rivelata; nella commistione di cattolicesimo e democrazia cristallizzati  nell’infausta esperienza storica dei partiti democristiani:  il tutto confluente nel gran calderone dell’ecumenismo sincretistico che ci ammorba da più di cinquant’anni. Esso ha azzerato la differenza tra il cattolicesimo e tutte le altre religioni, e posto al centro dell’azione della Chiesa il  dialogo interconfessionale e interreligioso per tutelare la “dignità dell’uomo” e realizzare l’unità del genere umano nella pace e nel progresso, nella democrazia, cioè in simbiosi con le ideologie profane…Peggio di così…
Pertanto, precisava il Nostro,  “abbiamo fatto di tutto, io stesso e mons. de Castro Mayer” per convincere Roma a ritornare alla vera dottrina, con ogni sorta di iniziative (colloqui, lettere aperte, interviste, opuscoli), a rigettare “questo ecumenismo e tutti questi errori, questo collegialismo”, tutte cose “contrarie alla fede della Chiesa e che sta distruggendo la Chiesa.  Tutto invano.  “ È per questo che noi siamo persuasi che, procedendo a queste consacrazioni, oggi obbediamo all’appello di questi papi [preconciliari] e di conseguenza all’appello di Dio poiché essi rappresentano NS Gesù Cristo nella Chiesa”[53].
Non era una questione semplicemente disciplinare, il conflitto che si era creato, non per colpa di mons. Lefebvre, tra la Fraternità e la Roma “conciliare”.  Le questioni di competenza e di opportunità nascondevano, come spesso accade, un profondo contrasto dottrinale, di fede : era la lotta tra chi voleva rimanere fedele ad ogni costo al Deposito della Fede, fedele sino alla fine al mandato ricevuto da Cristo come battezzato e miles Christi e come sacerdote (Ap 2, 10), e le forze deviate, prone agli errori del Secolo, che si erano impadronite del governo della Chiesa col Concilio e dal Concilio in poi.  Il contrasto dottrinale, che coinvolge appunto la fede nel modo più profondo, emergeva continuamente come la pietra d’inciampo che, al momento decisivo, faceva fallire ogni accordo con la Roma “conciliare”, in teoria possibile a certe condizioni.
“E perché, monsignore – mi si dice – avete interrotto questi colloqui che sembravano tuttavia avere un certo successo? ---  Precisamente perché nello stesso momento in cui firmavo il protocollo, nello stesso minuto, l’inviato del cardinale Ratzinger, che mi portava questo protocollo da firmare, mi affidava in seguito una lettera nella quale mi chiedeva di domandare perdono per gli errori fatti.  Ma se sono nell’errore, se insegno degli errori, è chiaro che devo essere ricollocato nella verità.  Nello spirito di quelli che mi hanno inviato questo documento da firmare, attraverso cui riconosco i miei errori, questa stessa proposta equivale a dire: se voi riconoscete i vostri errori, noi vi aiuteremo a ritornare alla verità.  Quale è questa verità per loro se non la verità del Vaticano II, se non la verità di questa Chiesa Conciliare?...”[54].
Si trattava quindi di realizzare “la sopravvivenza della Tradizione”, cedere sarebbe stato un vero e proprio “suicidio”.  Ma perché proprio lui stesso e mons. de Castro Mayer artefici di questa “operazione sopravvivenza”?    
“Ora, quali sono i vescovi che hanno conservato la Tradizione, che hanno conservato i sacramenti tali e quali la Chiesa li ha ammnistrati da venti secoli fino al Concilio Vaticano II?  Ebbene siamo mons. de Castro Mayer e io stesso.  Io non posso farci nulla ma è così.  E dunque molti seminaristi si sono affidati a noi, hanno sentito che qui c’era la continuità della Chiesa, la continuazione della Tradizione.  E dunque sono venuti nei nostri seminari, malgrado le difficoltà che hanno incontrato, per ricevere una vera ordinazione sacerdotale, e per poter offrire il vero Sacrificio del Calvario, il vero Sacrificio della Messa e darvi i veri sacramenti, la vera dottrina, il vero catechismo:  ecco lo scopo di questi seminari.  E dunque non posso in coscienza lasciar orfani questi seminaristi.  Non posso lasciare anche voi [fedeli] orfani, scomparendo senza fare niente per l’avvenire.  Non è possibile.  Sarebbe contrario al mio dovere…”[55].    
Un fatto così straordinario e clamoroso, impossibile a negarsi, che, dal Concilio in poi, la Tradizione della Chiesa fosse stata conservata da due soli vescovi in tutto l’orbe cattolico, spingeva di per sé a considerarlo in una prospettiva escatologica, come risultante da alcune rivelazioni private ufficialmente riconosciute dalla Chiesa.  Nel prosieguo del suo sermone, mons. Lefebvre richiamava pertanto la famosa visione profetica di Leone XIII, secondo la quale “un giorno la Sede di Pietro sarebbe stata la sede dell’iniquità”.  E difatti, aggiungeva subito dopo: “E credo veramente di poter dire che non c’è stata mai un’iniquità più grande nella Chiesa della giornata di Assisi, la quale è contraria al primo Comandamento di Dio ed è contraria al primo articolo del Credo! Non abbiamo mai subito una umiliazione simile!”. 
Subito dopo passava a quella di Quito, dove si parlava per l’appunto di un prelato che si sarebbe opposto all’ondata dell’apostasia, per salvare la Chiesa “da una situazione di assoluta catastrofe”; poi a La Salette e infine a Fatima.  Collegamenti del tutto spontanei e naturali, imposti dalle circostanze eccezionali e, bisogna pur dire, tragiche nelle quali si era venuta a trovare e tuttora si trova la Chiesa. Perché mai il riferimento a Quito avrebbe dovuto irritare dom Gérard e spingerlo a lasciare la cerimonia? Era vero o non, che un solo vescovo,  con l’apporto di mons. de Castro Mayer e di qualche altro coraggioso, si stava battendo con estrema (e persino sorprendente) fermezza contro la catastrofica situazione nella Chiesa?  O dobbiamo sempre fingere che la crisi nella Chiesa non ci sia o che sia stata messa sotto controllo da Papi come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, non meno devoti al Vaticano II dei loro immediati predecessori e successori?
In conclusione, mons. Lefebvre si affidava alla Provvidenza, “persuasi che Dio sa ciò che fa”.  La “disubbidenza” che stava per compiere era solo “apparente” mentre le accuse “di cui noi siamo oggetto sono nulle, assolutamente nulle!  È per questo che non ne teniamo assolutamente conto.  Così come non abbiamo tenuto conto della sospensione e abbiamo finito per ricevere le felicitazioni della Chiesa, della stessa Chiesa progressista…”.  Infatti, il cardinale Gagnon, come si ricorderà recente Visitatore Apostolico, oltre ad essersi complimentato per l’eccellente livello del Seminario assistè “in prima persona, secondo il cerimoniale pontificale”, alla Messa celebrata dallo stesso mons. Lefebvre l’8 dicembre 1987 per il rinnovo delle promesse dei seminaristi, nonostante il celebrante fosse dal 1976 sospeso a divinis (per essersi rifiutato di chiudere il Seminario) e quindi (in teoria) impossibilitato ad amministrare i sacramenti.  Ciò dimostrava, sottolineava mons. Lefebvre, che “avevamo fatto bene a restistere”. E tanto più si faceva bene a resistere oggi, provvedendo con una apparente disubbidienza alla sopravvivenza della Tradizione della Chiesa e, a ben vedere, della Chiesa cattolica stessa
Paolo   Pasqualucci
Domenica, 22 luglio 2018.    



[1] Vedi, per questi dettagli, l’articolo su internet di Christian Bless, La biographie de Dom Gérard par Yves Chiron, del 31 maggio 2018, su tradinews.blogspot/2018/06/christian-bless-la-biographie-de-dom.html.  Inoltre: Bernard Tissier de Mallerais, Marcel Lefebvre, une vie, Clovis, 2002, l’ormai classica biografia scritta da S. E. mons. Tissier de Mallerais, della FSSPX, che resta il testo fondamentale per la ricostruzione degli eventi che portarono alle famose Consacrazioni del 1988.  Le Consacrazioni Episcopali, preannunciate da tempo, ebbero luogo il 30 giugno di quell’anno.  Dal 21 giugno dom Gérard aveva iniziato a negoziare separatamente con Roma, dopo aver fatto capire a mons. Lefebvre che si sarebbe sganciato dal patto d’azione comune (Tissier de Mallerais, op. cit., p. 589). 
[2] Sul punto, vedi l’articolo di don Jean-Michel Gleize, Rivolto al Concilio.  Quando Dom Calvet abbandonò la via della Tradizione difesa da monsignor Lefebvre, tr.it. apparsa sul sito Riscossa Cristiana il 6 luglio corrente, pp. 4 di un articolo comparso inizialmene sul Courrier de Rome dell’aprile 2018.
[3] Scrosati, op. cit., p. 3/5.
[4] Tissier de Mallerais, op. cit., p. 505.
[5] Il testo originale integrale l’ho ripreso da:  La condamnation sauvage de Mgr Lefebvre, l’eccellente raccolta commentata di documenti sulla soppressione illegale della FSSPX, curata da Jean Madiran, come numero della rivista ‘Itinéraires’ da lui diretta, numero speciale dell’aprile 1977, pp. 326; pp. 8-9; p. 8.  Traduzione mia.
[6] La Déclaration du 21 novembre 1974, in “Itinéraires’, cit., p. 9.
[7] Scrosati, p. 3/5.
[8] Op. cit., ivi.
[9] Vedi l’articolata analisi delle sue tre Encicliche fondamentali costituenti una sorta di “trilogia trinitaria” – Redemptor hominis, Dives in Misericordia, Dominum et Vivificantem – apparsa in tre volumi nel 1990-94 e postuma in unico volume: Johannes Dörmann, Johannes Paul II.  Sein Theologischer Weg zum Weltgebetstag der Religionen in Assisi, Sarto Verlag, 2011, pp. 858.  Ne esistono una traduzione italiana e una francese a cura della FSSPX, con il titolo: La strana teologia di Giovanni Paolo II
[10] Tissier de Mallerais, op. cit., p. 557, anche per le due citazioni di mons. Lefebvre.  La frase di Giovanni Paolo II risulta da: Documentation Catholique  1894 (15.3.1981) 281.
[11] Op. cit., pp. 559-560.
[12] Quest’atteggiamento del Papa gli attirò il plauso entusiastico di tutto lo schieramento laico.  Vedi: Luigi Accattoli, Quando il Papa chiede perdono.  Tutti i mea culpa di Giovanni Paolo II, Mondadori, 1997.
[13] Op. cit., p. 564.
[14] Trattato Concordato costituiscono i Patti lateranensi , perché firmati nel Palazzo del Laterano, a Roma.  L’art. 1.2 del Concordato affidava allo Stato italiano anche il compito di mantenere e tutelare “il carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi”.  Nell’accordo del 1984, sempre con la soddisfazione di Casaroli, invece, all’art. 4 ci si limitava a dire che “La Repubblica italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità”. (Fonti:  Felice Battaglia (a cura di), Le carte dei diritti. (Dalla Magna Charta alla Carta del Lavoro), Sansoni, Firenze, 1934; Giovanni Barberini (a cura di), Raccolta di fonti normative di diritto ecclesiastico, Giappichelli, Torino, 1997, 4a ed. riveduta ed ampliata).    
[15] Op. cit., p. 513.  Sul rifiuto di mons. Lefebvre di celebrare la Messa Tridentina sulla base dell’Indulto, vedi: op. cit., pp. 561-562.  Due giorni prima delle ordinazioni in questione, giunse in loco, dopo altri, il P. Édouard Dhanis, autorevole accademico, il quale, quasi supplicando, disse a mons. Lefebvre:  “Monseigneur, si aujourd’hui même vous acceptez de dire avec moi cette messe, tout est aplani avec Rome!”(op. cit., pp. 512-513). Mons. Lefebvre non ha mai celebrato la Nuova Messa.  E ha fatto benissimo. Ora, svelando la sua vera natura, essa è intesa soprattutto come l’atto di culto nel quale “la Chiesa fa memoria del Signore Risorto mettendo in una comunione viva e reale i suoi figli con Dio uno e trino” (Documenti chiese locali, 99, “Islam e Cristianesimo”, Conf. Episc. dell’Emilia Romagna, EDB, 2000, p. 30). Il significato della Messa ha subìto una profonda mutazione: dalla Passione alla Resurrezione; dal Cristo crocifisso, per espiare l’ira divina e ottenerci misericordia per i nostri peccati, al Cristo glorioso, la cui Resurrezione – avendo Egli già salvato tutti unendosi a ogni uomo con l’Incarnazione ! – deve esser celebrata con una Gioia cui possono partecipare anche i (già salvati!) non-cattolici e i non-cristiani, come dimostrano le frequenti messe “ecumeniche”.  Questo stravolgimento del senso autentico della Messa, si è giovato anche delle visioni allucinate di un Teilhard de Chardin, che farneticava sul significato “cosmico” della Messa, comportante la santificazione della Natura.  La Messa era intesa anche da Giovanni Paolo II come atto di culto “cosmico”, “sull’altare del mondo”, “per restituire tutto il creato, in un supremo atto di lode, a Colui che lo ha fatto dal nulla”, restituirlo “redento”! (Enciclica, Ecclesia de Eucharistia, 8, del 2003).    
[16] Op. cit., pp.564-566; p. 565.  E questo “orrendo peccato pubblico contro l’unicità di Dio e il Verbo incarnato” hanno continuato a commetterlo sia Benedetto XVI che Papa Francesco.
[17] Op. cit., p. 564.
[18] Scrosati, p. 3/5.
[19] Op. cit., pp. 3-4/5.
[20] Tissier de Mallerais, op. cit., p. 568.
[21] Per i particolari qui citati e per l’intera vicenda delle Consacrazioni, la mia fonte principale è sempre:  Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 566-595.   
[22] Op. cit., pp. 574-575.
[23] Op. cit., p. 576.
[24] Op. cit., pp. 577-579.
[25] Op. cit., pp. 580-581.
[26] Op. cit., p. 581.
[27] Op. cit., p. 582.
[28] Op. cit., pp. 583-584.
[29] Op. cit., p. 584.
[30] Citato da: Francesco Spadafora, Araldo della Fede cattolica. Sac. Don Francesco Maria Putti, fondatore di “sì sì no no”(1909-1984), pro manuscripto, Velletri, 1993, p. 196.  Si tratta di una biografia di don Putti scritta da mons. Spadafora, edita da sì sì no no. Mons. Spadafora, autorevole esegeta, subentrò di fatto a don Putti nella direzione della Rivista. 
[31] Op. cit., pp. 584-585.
[32] Op. cit., pp. 585-587. Annota il suo biografo: l’invito ad “aver fiducia” nel Papa non avrebbe potuto suonare più falso agli orecchi di mons. Lefebvre, preccupato com’era di mantenere coesa e intatta la “famiglia della Tradizione”, non inquinata dagli errori circolanti. In una nota per la riunione del 30 maggio scriveva che tutto l’ambiente dei contatti e dei colloqui con le autorità romane, i loro ragionamenti facevano chiaramente capire  “che il desiderio della Santa Sede è quello di avvicinarci al Concilio e alle sue riforme, di riportarci dentro la Chiesa conciliare” (op. cit., p. 586).
[33] Op. cit., pp. 587-588.
[34] Op. cit., p. 588.
[35] Op. cit., pp. 588-589.  È anche vero che dom Gérard e i suoi discepoli si mostravano già allora propensi ad accettare le novità dottrinali del Concilio, liturgiche escluse.  Secondo mons. Lefebvre, dom Gérard “non vedeva con chiarezza i problemi teologici del Concilio, della libertà religiosa.  Non vedeva con chiarezza la malizia di quegli errori”.  Forse, azzardo, non aveva la necessaria preparazione teologica.  Un suo discepolo, P. Basilio Valuet, pubblicò nel 1998 un’opera in sei volumi per dimostrare la conformità della “libertà religiosa” con la Tradizione cattolica (vedi l’articolo del P. Gleize in traduzione italiana, già citato).  Scrosati ricorda, quasi fosse titolo di merito, che dom Gérard inviò il 26 giugno, quattro giorni prima delle Consacrazioni, il suddetto dom Basilio da mons. Lefebvre per convincerlo (5 ore di infruttuoso colloquio) che il decreto conciliare sulla libertà religiosa era dottrinalmente legittimo (Scrosati, op. cit., p. 4/5). 
[36] Il testo si trova nell’articolo di P. Gleize citato nella traduzione italiana.  Risulta evidente che per mons. Lefebvre la “famiglia della Tradizione” andava ben oltre la FSSPX, ricomprendendo essa tutti gli ordini amici e alleati nella battaglia per la difesa della Fede e implicitamente tutti i singoli cattolici ugualmente partecipanti a questa battaglia.
[37] Cito dal medesimo articolo.
[38] Op. cit., p. 590.
[39] Tissier de Mallerais, op. cit., p. 590.
[40] Per tutti questi dettagli, Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 592-593.
[41] DTC, voce:  schisme, coll. 1299-1300.
[42] Citato in DTC, voce: schisme, col. 1301.
[43] Op. cit., ivi, col. 1304.
[44] Tissier de Mallerais, op. cit., p. 573.
[45] Op. cit., ivi. Mons. Lefebvre incaricò i suoi teologi di studiare il caso della “azione straordinaria” di un vescovo e la portata della “giurisdizione supplita” dalla Chiesa, nel caso di stato di necessità (op. cit., ivi).  Fu influenzato soprattutto dal breve ma fondamentale studio dell’illustre canonista tedesco, prof. Georg Mai, sullo stato di necessità: Notwehr, Widerstand, Notstand [legittima difesa, resistenza, necessità], del 1984 (op. cit., p. 591).
[46] Nel 1951 fu introdotta la scomunica riservata alla S. Sede per le ordinazioni senza mandato pontificio, con Decreto del Sant’Uffizio del 9 agosto, dopo le drammatiche vicende della Chiesa nella Cina comunista. Mons. Lefebvre sarebbe morto 33 mesi dopo le Consacrazioni, il 25 marzo 1991, Lunedì Santo, dopo esser stato operato di un vasto cancro allo stomaco l’11 dello stesso mese. Ne soffriva da tempo. Si mantenne sempre lucido sino agli ultimissimi giorni, accettando con cristiana umiltà e rassegnazione le sofferenze inflittegli dalla dolorosa malattia (Tissier de Mallerais, op. cit., pp. 636-645).   
[47] I riferimenti alle questioni dello scisma e della scomunica in senso stretto, li ho tratti da miei due saggi, ai quali mi permetto di rimandare (unitamente alla letteratura ivi citata) chi volesse eventualmente approfondire:  P. Pasqualucci, La persecuzione dei “lefebvriani” ovvero l’illegale soppressione della Fraternità Sacerdotale San Pio X, Solfanelli, 2014, in particolare l’Appendice, pp. 127-143;  P. Pasqualucci, Una scomunica invalida-Uno scisma inesistente.  Due studi sulle consacrazioni lefebvriane di Ecône del 1988, Solfanelli, 2017, specialmente la parte: 2. I termini giuridici della questione, p. 75 ss., nel saggio che costituisce il mio contributo.  Il cardinale Gerhardt Müller, che ha sempre avuto scarsa simpatia per la FSSPX, ha sostenuto nel 2013 che, nonostante la remissione della scomunica da parte di Benedetto XVI, la Fraternità si troverebbe comunque di fatto in una situazione di “scisma sacramentale”, nozione inusuale ed oscura, che critico nella citata Appendice del primo mio saggio citato, pp. 135-143.
 
[48] Scrosati, op. cit., p. 4/5.
[49] Cfr.:  Fideliter, 65, sept.-oct. 1988, p. 11.  Per il testo in latino:  “Fraternité St Pie X, Bulletin Officiel du District de France, 10, 13 luglio 1988, p. 2.
[50] Traduzione italiana dell’omelia apparsa in un numero speciale de La Tradizione Cattolica, IX, n. 37, 1998, contenente la traduzione degli interventi essenziali con i quali mons. Lefebvre e mons. de Castro Mayer si sono pubblicamente opposti alla deriva in corso nella Chiesa (vedi supra). Titolo: Omelia delle consacrazioni episcopali, Ecône, 30 giugno 1988, pp. 43-48, testo su due colonne; pp. 44-45.
[51] Op. cit., p. 45.
[52] Op. cit., ivi.
[53] Op. cit., p. 45.
[54] Op. cit., ivi.

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