Massimo Gandolfini – ovvero il Family Day (del fenomeno di compenetrazione tra le due entità ci informa lo stesso compenetrato) – vince il premio “Intervista dell’anno” con una conversazione a tutto campo sullo stato dei temi cosiddetti “etici” nel panorama politico attuale e sul suo auspicabile progresso. Medaglia strameritata, frutto di duro allenamento e di annosa esperienza. Un testo che è una miniera, perché mette in fila con ordine e diligenza tutte le posizioni del kamasutra democristiano con la loro potente carica di ipocrisia subdola, suggestiva, farisaica.
Dal sito In Terris il neurochirurgo bresciano ci parla di vita e di morte, di educazione, di identità, di sesso ad andata e ritorno, di famiglia, di salute: tutte cosette da niente, adatte al clima balneare tanto quanto gli amorazzi dei vip nei rotocalchi di costume.
Ne esce una summa ideologica per la prossima stagione autunno/inverno 2018/19 (pare dominerà il giallo-verde non molto in tinta con il cromatismo dei benpensanti), utilizzabile come manuale del perfetto neo-democristiano, ultima versione dell’immarcescibile tipo umano dal look benevolo e rassicurante, molto moderato, sempre dialogico, orante quanto basta, votato a digerire e far digerire, filtrandolo in chiave cattobuonista, tutto quanto di marcio, distruttivo e diabolico gli edificatori del mondo nuovo stanno preparando per noi e per i nostri fortunati posteri.
Evidentemente era incombenza urgente la stesura del prontuario, se il Nostro ha dovuto provvedervi la vigilia di Ferragosto: evidentemente agli zucchetti è salita improvvisa la fretta di diramare un avviso ai naviganti e ribadire i nuovi dogmi della nuova morale radical-globalista finalmente sbocciata alla luce del sole, dopo lunga incubazione, nella fantastica era bergogliana ove si compie la congiuntura astrale tra l’esplosione delle meraviglie della scienza e della tecnica e l’esplosione dell’eresia. Forse, gli zucchetti hanno avvertito il rischio che il già spaesato popolo cristiano si trovi oggi vieppiù disorientato dallo strano comportamento degli esponenti di uno strano governo alcuni dei quali, tra le altre stravaganze, si sognano persino di riesumare il cadavere di quei princìpi non negoziabili già seppelliti da una chiesa proiettata trionfalmente verso i lidi nichilisti di una totale e spensierata dissoluzione identitaria. Uno strano governo davvero, se parla di sovranità, di italianità, di tradizioni, e se, pur bastonato a sangue da opinionisti, pensatori e chierichetti, guadagna consensi oltre ogni aspettativa sfuggendo al controllo occhiuto dei pupari di professione. Si profila quindi un problema di concorrenza, e si capisce quanto urga porvi rimedio conducendo il concorrente nei ranghi dell’ecclesialmente (che poi è lo stesso del politicamente) corretto, sì da farlo inoffensivo: la posta in gioco è alta, ci sono di mezzo affari grossi e un intreccio inestricabile di equilibri planetari.
E chi allora meglio dell’entità gandolfiniana, reductio ad unum della (sedicente) milionata di teste attirate al Circo Massimo (e quindi, sulla carta, discreto bacino di voti eterodiretti), unta dai vescovi in funzione insieme eversiva e normalizzatrice, può adempiere l’arduo compito? L’”entità” è stata anche munita, probabilmente grazie all’esca del voto “cattolico”, di una propria estrinsecazione parlamentare, riuscendo a infiltrare le fila del partito vincente. Sotto sotto, infatti, alla CEI vige sempre la vecchia dottrina Ruini (il cardinale pensava male, ma almeno pensava, ora non c’è più uno lì dentro che sia in grado, non dico di avere una visione, ma neanche di aggiornare il modello), che insegna da decenni come sia d’uopo impollinare l’intero arco costituzionale, con un occhio di riguardo per le realtà meno prone alle malìe della politica e ai clericalismi d’ogni risma.
E così, al traino di un Gandolfini che, uno e plurimo, pontifica a comando sotto dettatura episcopale, spunta a Montecitorio un Pillon che, ripescato per il rotto della cuffia in quota leghista senza essere leghista (in un partito dove la gavetta è sacra, e la gerarchia anche, deve aver avuto più d’un santo in paradiso…), calca le scene istituzionali nei panni dell’eroino pro life senza macchia e senza paura.
CEI chiama, DNF risponde: il modello Topo Gigio.
Ma torniamo alla nostra intervista. Era dunque tempo, per l’episcopato in uscita, di mettere qualche puntino sulle i. Ché i parvenu al governo non facciano troppo gli spiritosi.
Per interposto Gandolfini, i vescovi esternano. Il risultato – come dicevamo – è strepitoso: una scala reale di aberrazioni persino divertenti se non fosse che più d’uno ci cascherà, fidandosi del pericolosissimo principio dell’ipse dixit.
L’ipse, qui, così dicendo, evoca tutta la fenomenologia dell’eterocomando: le marionette a fili, i pupazzetti a calzino, i veicoli radiocomandati, gli auricolari di Ambra, Topo Gigio, e chi più ne ha più ne metta.
Con l’aggravante che il pilota da remoto versa in evidente stato confusionale. Che l’episcopato brancoli nel buio come un esercito di mosche cieche ognuna delle quali improvvisa il proprio modus credendi e vivendi, risulta dalla stessa candidatura tardiva degli agenti inquinanti vescovili dentro la Lega: dettaglio che dimostra come, fino all’ultimo momento, non ci fosse tra i vescovi un’idea di dove e come sbattere la testa davanti alla situazione a dir poco bizzarra di un partito identitario anti-immigrati in impennata di consensi, da una parte, e dall’altra il boss di Santa Marta che dell’importazione dei negri in Europa ha fatto la sua cifra sin dai primi giorni di pontificato (memento Lampedusa), ma con l’indice di gradimento in picchiata. Come si conviene a ogni investitore oculato, meglio diversificare, avrà pensato alla fine l’avveduto zucchetto lanciando Pillon nel Carroccio in corsa.
E ora, come i vasi di coccio costretti a viaggiare con quelli di ferro, i vescovi devono reggere la parte e lavorare sodo per avvicinare i due poli contrapposti – o far convergere le parallele, che dir si voglia – sotto il segno, appunto, del sempreverde democristianismo italico. In attesa della fase B. Infatti funziona così: si coltiva il proprio candidato annidandolo al calduccio di una compagine politica forte – tipo Angelino nel vecchio PDL – fino a che, una volta maturo, lo si può staccare dalla pianta che lo ha nutrito e, con lui, si scorpora un partitello paracattolico – tipo NCD, escrescenza vescovile all’epoca del Family Day – che funga finalmente da megafono ufficiale della CEI, alla faccia dell’elettorato tradito. Gandolfini lo dice a chiarissime lettere, alla fine della sua grandiosa intervista, che “il vasto mondo cattolico” “non ha più una rappresentanza politica” e “per il momento non vuole fare un partito proprio” e “invece vuole influenzare in positivo le forze politiche”. Appunto.
Vale sempre la pena di citare, a imperitura memoria, i disastri che l’accolita di Alfano, della Roccella e della Lorenzin (NCD) è riuscita a realizzare nonostante la sua imbarazzante insignificanza numerica: in particolare, a ridosso della loro passerella al Family Day, i cattolicissimi paladini del cattolicesimo aggiornato non hanno esitato a votare sia la c.d. buona scuola sia la legge Cirinnà, barattando la definitiva omosessualizzazione della società italiana (a partire dal vivaio scolastico, per giungere alla marcia nuziale) con il piatto di lenticchie erariale elemosinato alle scuole paritarie, immortale businnes model dell’azienda-chiesa nel tempo dell’apostasia.
La cinghia di trasmissione tra la CEI e il Parlamento, a ben guardare, è sempre uscita dalle oceaniche manifestazioni di cartapesta, espressione di finta democrazia utile al potere per mostrare che c’è pluralismo, micidiale trappolone per tanti poveri cattolici desiderosi di far valere nell’agone pubblico i principi veritativi che affiorano ancora dai meandri del subconscio ma che nel frattempo sono stati commutati, a loro insaputa, in moneta di scambio per il commercio col male.
Ecco dunque qual è l’orizzonte della fantasmagorica intervista di Gandolfini, ovvero del signor Family Day autoincoronatosi Difensore dei Nostri Figli.
Via libera all’indottrinamento scolastico.
Leccando a destra e a manca la Lega, i Cinque Stelle, ministri dell’una e degli altri, il Governo tutto – esattamente come faceva qualche mese or sono con gli omologhi dell’esecutivo piddino, a partire dalla ineffabile Fedeli, grande amica sua e anche di Bergoglio – il Nostro infila una sequenza di perle che neanche i pescatori di Bizet. A partire proprio dal mercimonio di cui sopra: libero genderismo scolastico in cambio di quattro spiccioli alle scuole paritarie.
Dice infatti, con straordinaria disinvoltura, il difensore dei nostri figli: insegnate pure agli scolari la bellezza della omosessualità o del transessualismo, prego accomodatevi, basta che avvisiate i genitori. Cioè, con Gandolfini siamo in una botte di ferro: almeno sappiamo quando stuprano il cervello del pupo (magari non solo il cervello) e addirittura possiamo chiedere di andarlo a prendere per l’oretta in cui gli “educatori” educano tutti gli altri alla perversione come valore. È lo stesso identico ragionamento, ammesso si possa chiamarlo così, della onorevole Roccella (NCD) quando ha votato la fiducia posta dal governo Renzi sulla legge 107 “la buona scuola” e ha tranquillizzato l’elettorato “cattolico” promettendo che avrebbe concordato con la Giannini una circolare che prevedesse il consenso informato dei genitori per i progetti genderisti.
Peraltro, la gentile concessione gandolfiniana vale solo per i corsi extracurricolari, perché va da sé che per il curricolo ce la dobbiamo mettere via, e tutta la propaganda che passa inesorabile attraverso i programmi aggiornati alle direttive europee e attraverso i libri di testo rivisti e corretti in chiave invertita, lo stesso nostro pupo se la deve tracannare in religioso silenzio, dall’asilo fino all’università.
Omaggio integrale all’autodeterminazione (eterodiretta) sulla pelle degli innocenti; la verità – come da programma ecclesiale – non esiste più, è definitivamente archiviata nella pratica e financo nella teoria del prode Gandolfini; oppure, alla pari del sesso, si è fluidificata. Ah, le meraviglie dell’evoluzione! Ah, i traguardi del dialogo!
Ma occhio che la contropartita c’è. Il contentino-farsa del “consenso informato” per tacitare le perplessità di qualche nostalgico (peraltro in via di estinzione per assorbimento nel gruppone conforme) fa il paio, guardacaso, con un annunciato “costo standard per le paritarie”: a naso, lo stesso piatto di lenticchie guadagnato dai compagni dell’NCD col voto di scambio alla legge 107.
Abbiamo capito cha a Gandolfini preme rassicurare tutti, specie il padrone episcopale, che i soldi per le scuole paritarie – in cui, diciamolo, imperversano l’educazione sessuale e il gender forse più che nelle statali, dove almeno puoi esonerare tuo figlio dall’ora di “religione” – non mancheranno. E dove non arriva l’otto per mille (se Dio vuole in calo inesorabile) arriva qualche altra piega del Concordato a dirottare i soldi dell’ignaro contribuente verso la chiesa in uscita (“uscita” nel senso di outing).
Triptorelina? Discutiamone.
Comica la posizione sull’ormone per transessualizzare i bambini, che il neurochirurgo già aveva salutato con cauto ottimismo nelle scorse settimane. Certo non si strappa i capelli, anche perché tecnicamente non potrebbe, e rimane in attesa di più circostanziati ordini superiori.
Oltretevere la triptorelina sappiamo che piace, altrimenti gli zucchetti non avrebbero spinto i membri del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB) in quota vaticana a offrire placido consenso all’aberrazione farmaceutica. Sul perché, vallo a capire, potrebbe non esserci solo il fatto che Sodoma regni incontrastata su Roma: anche Big Pharma ha il suo ascendente nei Sacri Palazzi, e lo sappiamo dai tempi del Cardinale Angelini (altrimenti detto: Sua Sanità), benché nessuno ad oggi abbia mai osato indagare a fondo sull’indicibile intreccio di interessi tra i due centri di potere, quello vaticano e quello farmaceutico.
Ad ogni buon conto, il difensore dei nostri figli tiene ripetutamente a farci sapere che è in contatto stretto con il ministro Giulia Grillo, con la quale non fa che confrontarsi. Il ministro grillino (di nome e di fatto) è in cima ai pensieri di Gandolfini. La qual cosa, manco a dirlo, ci conforta moltissimo. Se son rose fioriranno.
Cannabis e vaccini: un colpetto al cerchio, una randellata alla botte.
A proposito di liaison con il ministro Grillo, la mirabolante intervista affronta altri temi riguardanti la salute.
Sulla legalizzazione delle droghe leggere la coppia ministeriale non ha ancora raggiunto una piena coincidenza di vedute, ma nel fantastico mondo democristiano, dove non esistono né dissenso né divisione, la cosa non deve preoccupare. L’essenziale è dialogare. Il confronto è la meta, e la meta – ci dice e ridice Gandolfini – col ministro Grillo è raggiunta. Sarebbe divertente interpellare anche la Lei sui rapporti che intrattiene con il suo confidente, ma per il momento concentriamoci sul Lui.
Piena sintonia di coppia, invece, sul controverso tema dei vaccini, zona off limits dove le due fazioni contrapposte (obbligatorietà sì, obbligatorietà no) si stanno combattendo senza esclusione di colpi.
L’esternazione del difensore dei nostri figli sul tema è interessante, anche perché – che ci risulti – è una prima assoluta. Va letta anche tra le righe.
L’occasione per entrare in argomento è la leccata di prammatica al ministro Lorenzo Fontana, con il quale comunque pare non esserci il rapporto stretto che c’è con la Grillo. La leccata è piena e incondizionata sulla dannosità della cannabis light, mentre sulla vexata quaestio dei vaccini è messa paternalisticamente sub condicione: diamo tempo a quello sprovveduto di Fontana, che “non è medico” e deve ascoltare chi lo è (e quindi possiede l’auctoritas per esprimersi; un po’ come succede con l’educazione sessuale a scuola, dove i genitori debbono cedere la parola agli “esperti” perché non hanno le “competenze”). Qui il dogma del confronto tende un po’ a vacillare, ma solo in apparenza. Gandolfini è certo che il confronto con Fontana – che, ricordiamolo, non è medico – lo porterà a ravvedersi. Anche la Lorenzin, che non è medico ma non si vede perché lei a differenza di Fontana ci è arrivata subito, guadagna una amichevole e affettuosa tiratina d’orecchi, perché, pur avendo ragione nel merito, ha sbagliato il metodo: per imporre la valanga di vaccini ai neonati, una roba mai vista, infatti, non bisogna porre l’accento sull’”obbligo” – ci spiega l’esimio neurochirurgo – ma sulla “scienza” (la S è maiuscola) come infallibile strumento di persuasione delle masse, per definizione beote. Il Nostro arriva a dichiarare che “è normale che in un’epoca permeata di individualismo come l’attuale, questo atteggiamento impositivo abbia suscitato reazioni avverse”, dove sfoggia senza vergogna un uso capzioso e di quell’“individualismo” che solletica lo sdegno dei cattolici adulti che sono notoriamente altruistissimi, accoglientissimi e misericordiosissimi. I genitori (individualisti) di bambini danneggiati sentitamente ringraziano il difensore dei loro figli…
Ringraziano anche per il prosieguo della risposta, che vale la pena citare testualmente. “Comunque, da medico, voglio ribadire un concetto” si allarga Gandolfini: “i vaccini sono indispensabili per il bene del singolo bambino, della singola famiglia e della società. C’è chi mescola nel torbido diffondendo fandonie sulla presunta correlazione tra vaccini e alcune malattie. Le famiglie non devono dar retta a simili dicerie ma alla comunità scientifica, la quale sottolinea l’importanza della vaccinazione. Lo Stato dunque ha il dovere di informare, dati scientifici alla mano, e di non permettere che si abbassi l’immunità di gregge, anche ricorrendo all’obbligatoria, perché una malattia rischia altrimenti di diventare prima endemica e poi addirittura epidemica”.
Qui si apre un mondo. Il radiocomando deve funzionare proprio bene, perché sappiamo che la Chiesa è talmente fanatica dei vaccini per tutto e per tutti che, all’introduzione della legge Lorenzin, annunciò a reti unificate (CEI, SIR, Famiglia Cristiana) che sì, è vero che i preparati contengono cellule di feto abortito, ma va tutto bene, perché quegli aborti sono oramai lontani nel tempo e il tempo sana ogni cosa. Paglia, al solito, è un genio assoluto.
Epperò notiamo come l’illustre intervistato, laddove fa riferimento alla “presunta correlazione” con alcune malattie si guarda bene dal citare quali: si guarda bene, in particolare, dal parlare di autismo (per il quale sua divinità la “scienza” dice altro, e i bugiardini pure…), forse temendo di perdere per la strada qualche figlio altrui da difendere e qualche relativo genitore.
Ma, a parte certi piccoli tocchi prudenziali, la posizione di Gandolfini qui è meno democristiana del solito, anzi non lo è affatto. L’ordine congiunto di vescovi e multinazionali del farmaco è perentorio e, costi quel che costi, prevale su tutto. Anche sul dogma del confronto. Anche sul consenso. Del resto, lui, è medico. E con (certa) scienza non si discute. Capito, ministro Fontana? (Pare che anche Mengele fosse medico, ma glissiamo).
Gandolfini è un pro-choice?
Sull’aborto, dopo aver letto le parole del difensore dei nostri figli (anche quelli sottoforma di embrione?), non possiamo far altro che passare direttamente il microfono all’uomo simbolo della vera ortodossia prolife, Mario Palmaro, perché pare davvero che Gandolfini lo abbia letto con attenzione, ma a testa in giù. Vi proponiamo un faccia a faccia.
Ecco Gandolfini: “Il primo passo è che venga applicata la legge 194 nella sua interezza, compresa la prima parte che riguarda la prevenzione. Fino ad oggi soltanto il mondo cattolico, anche con sacrifici economici personali dei volontari dei Centri d’Aiuto alla Vita, ha compiuto un lavoro di deterrenza per convincere le donne a non abortire. Il mondo cattolico dal 1978 ad oggi ha salvato circa 200mila bambini. È ora che anche lo Stato agisca in tal senso”.
E ancora Gandolfini: “Credo che in prospettiva si possa pensare anche a cambiare la legge. Innanzitutto su un punto, che è quello dell’aborto tardivo, cioè fino alla 24esima settimana. Oggi, grazie al miglioramento delle conoscenze mediche e di terapia intensiva neonatale, un bambino di 23 settimane e 4 giorni è in grado di sopravvivere…Credo sia ragionevole discutere dunque di abbreviare il termine per il cosiddetto aborto tardivo”. (Della serie: abortiamoli subito, n.d.r.)
Ed ecco un Palmaro di annata: “L’esito di questo ‘finto’ dibattito – abortisti e antiabortisti che ‘difendono’ la legge 194 – porta al raggiungimento di un punto di equilibrio perfetto dell’abortismo; da un lato, l’accettazione del diritto di aborto per legge; dall’altro lato, il contenimento del numero di aborti (e magari perfino la loro riduzione) grazie al lavoro del volontariato cattolico, che si fa carico delle difficoltà delle donne incinte in ristrettezze economiche. È la quadratura del cerchio abortista: rendere fisiologico l’aborto legale, in una nuova, inedita alleanza con il solidarismo cattolico”.
E ancora Palmaro: “C’è un tragico processo che le leggi ingiuste innescano nella testa della gente, cattolici inclusi: digerire, assimilare, assorbire poco alla volta l’ingiustizia. In un primo tempo dicendo (giudizio politico) che ‘non abbiamo la forza per eliminare quella legge’; dopo qualche anno, affermando (giudizio morale e filosofico-giuridico): ‘quella legge tutto sommato non è poi così cattiva, anzi è buona’”. E il gioco gandolfiniano, ovvero democristiano, è fatto.
La legge cioè “non è messa in discussione, ma al massimo” – dice sempre Mario Palmaro – “si sostiene le ‘serva fare un tagliando’: come si trattasse di una buona automobile, solo un po’ vecchiotta, che richiede una certa manutenzione per riprendere sicura il suo cammino”.
Imperdibile, infine, l’esegesi di Palmaro sul concetto di “abortismo”. Ve ne proponiamo uno stralcio perché si attaglia perfettamente alla nostra fattispecie e illumina l’orizzonte speculativo dei vari Gandolfini:
“Si lascia intendere che l’abortista sia una persona che promuove l’aborto, lo giudica positivamente, ne auspica la diffusione, o lo osserva quanto meno con indifferenza. Si tratta di una raffigurazione distorta e caricaturale: tutto il fronte abortista degli anni Settanta, ad eccezione dei Radicali e di pochi altri, sosteneva questa tesi: ‘noi siamo contro l’aborto, che è una sconfitta della donna e della società. Solo che dobbiamo regolamentarlo per sconfiggere l’aborto clandestino’. L’abortismo è essenzialmente questa cosa: affermare che la donna possa liberamente decidere – sotto il mantello della legge statale – se abortire o non abortire. Qualunque sia l’ampiezza di questa facoltà – dai futili motivi, al caso di pericolo per la salute della donna – siamo pur sempre nell’ambito del pensiero abortista. Cioè: di una gravissima ingiustizia non solo morale ma innanzitutto giuridica. Dire – come alcuni fanno – che l’aborto è una brutta cosa, ma che bisogna poi lasciar decidere alla donna il da farsi – significa essere irrimediabilmente su posizioni abortiste. Negli Stati Uniti non a caso gli abortisti si chiamano pro-choice, in contrapposizione ai pro-life, che sono intrinsecamente contro la libera scelta. Di uccidere”.
Ergo, Gandolfini sarebbe un pro-choice. Ergo – tenetevi forte – secondo la logica di Mario Palmaro, è tecnicamente un criptoabortista. Ma, tranquilli, è in buona compagnia.
La tiritera dell’utero in affitto: guardate il dito e non la luna, la luna deve restare nascosta.
La fantasia non è una prerogativa degli eterocomandati, e infatti gli eterocomandati rispolverano ad nauseam questo vecchio babau. Che a ben guardare ha una sua utilità, sicuramente ce l’ha per chi guida le danze verso l’invasione dell’umanità sintetica.
Concentrando il gregge sul dito dell’utero in affitto – come inesorabilmente fa Gandolfini, e come ripete Pillon – si cavalca il sempre remunerativo filone femminista nella prospettiva dello sfruttamento della donna, insieme all’altro mantra del “diritto del bambino ad avere un padre ed una madre”; intanto però si distrae la platea dal vero cuore pulsante della questione, presupposto di ogni più tremendo abominio “scientifico” (a proposito di “scienza”…vero dottore?): il male assoluto, su cui tutti vogliono glissare, è la fecondazione in vitro, che significa produzione e commercio di esseri umani sintetici. Il dirottamento dell’attenzione generale sul problema collaterale e derivato dell’affitto di uteri implica che sulla FIVET (ed eugenismo correlato) ci sia ormai definitiva universale acquiescenza, se non esplicito plauso: da parte della società tutta, dei LEA, della chiesa ex cattolica. Non è un silenzio casuale e scusabile, è un silenzio strategico e inescusabile. Perché porta con sé conseguenze apocalittiche di cui pochi hanno vera contezza.
Nel suo famoso question time, Pillon enumerava tutto quanto di brutto e cattivo comporti l’affitto di uteri, ma si dimenticava di dire che tutto quanto andava enumerando, e molto molto più di quello, discende dalla FIVET ed è possibile soltanto grazie ad essa. Con la FIVET, a fronte di un bimbo (suppellettile) in braccio vengono uccisi di defaultuna ventina di embrioni (antiabortisti, dove siete?). Nella FIVET è incorporata d’ufficio l’eugenetica. Tutti si sono dimenticati che la tecnica con cui si fabbrica l’uomo nelle provette – sì che l’uomo è diventato manufatto e quindi merce di scambio, e quindi cosa, o tutt’al più animaletto da compagnia – è una faccenda di per sé mostruosa, e quindi tutti gli accidenti disumani che ne discendono e che stanno distorcendo e violentando il significato del nascere, del vivere e del morire, dei legami famigliari e generazionali – dall’affitto di uteri, alla compravendita di bambini, alla micromorte incruenta e massiva, al sovraffollamento di embrioni nei freezer, agli esperimenti di ibridi e chimere, alla manipolazione del dna – non sono altro che il “fisiologico” precipitato di quell’antefatto aberrante sul quale i bravi cattolici hanno pensato bene di mettere una bella pietra tombale.
Il fine biotecnologico a cui lavorano tutti insieme appassionatamente è questo: rendere palatabile l’umanità sintetica. Un’umanità sradicata da tutto, disincarnata, faustiana, assemblata su ordinazione dagli apprendisti stregoni (gli “scienziati”, caro professore) che giocano a fare dio.
Il nostro cattolicissimo intervistato ha così ben metabolizzato la cosa che “si chiede sempre”, sempre da solo, la seguente domanda: “è stata messa la fecondazione artificiale nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), perché per lo stesso principio di incentivare le nascite non si inserisce nei Lea anche la prevenzione dell’aborto per le donne in condizioni economiche difficili?”.
Fantastico. Gandolfini finge di non capire (o non capisce davvero?) che la radice dell’aborto e quella della FIVET è identica: esattamente come, se aspetto un figlio non desiderato, ho il diritto di ucciderlo (legge 194), così, se il figlio lo desidero, ho il diritto di fabbricarmelo quando come e con chi voglio, nelle provette dei laboratori all’avanguardia (legge 40). Il mio desiderio è diritto e diventa legge; e chissenefrega del bambino ucciso, o di quello fabbricato e destinato a un’esistenza dis-umana o al congelatore a tempo indefinito. Gandolfini finge di non capire (o non capisce davvero?) che alla base dell’ingresso della fecondazione artificiale nei LEA di Stato di certo non c’è la preoccupazione “di incentivare le nascite”, come pure aveva tentato di far credere a tutti il ministro Lorenzin (che non è medico, ma ha imparato il mestiere) con la bella trovata del Fertility Day (e in effetti tutti i beoti prolife ci erano cascati). L’obiettivo è un altro, e prevale su tutto: è la desessualizzazione della procreazione e la selezione eugenetica della specie, in costanza di libera orgia. A questo punta il Fertility Day (o “festa della provetta”) della Lorenzin, a questo punta la neochiesa, a questo puntano le multinazionali del farmaco. A questo, ne prendiamo atto, punta anche lo strenuo difensore dei nostri figli. Il che ci rincuora e ci conforta.
Emigrazioni, immigrazioni, tratte.
Vabbé che c’entra poco con la neurochirurgia, ma qui il povero intervistato straparla di diritti (esistenti) a trovare lavoro nella propria patria e di inesistenti doveri ad emigrare. È comprensibile la sua difficoltà ad affrontare il tema caldo del momento, che è poi quello autenticamente “divisivo” fra le parallele che bisogna far convergere: la retta leghista e quella bergogliana. E si sa che la divisività è la più oscena delle parolacce in casa democristiana.
Sicché, premettendo che per lui il tema è “complesso”, il Nostro si barcamena come può: la tattica delle parole in libertà è sempre una tattica vincente.
Ma ecco che gli appare un salvagente, un jolly da giocare, adatto sulla carta sia alla sensibilità del “Santo Padre” sia a quella del Governo: e cala sul tavolo il “contrasto alla criminalità organizzata” e alla “tratta”. Ma, un po’ a causa della famosa complessità su cui già aveva messo le mani avanti, un po’ forse che il sollievo può portare a voler strafare, scivola anche qui sulla buccia di banana: si avventura a dare consigli all’Italia, che a suo dire dovrebbe adottare il “modello nordico”, cioè sanzionare i clienti della prostituzione schiavizzata. Gli sfugge tuttavia come la cronaca ci consegni tristi casi di pensionati o padri di famiglia che arrivano a suicidarsi per le multe che qualche sindaco si è demagogicamente inventato per fermare la tratta: invece che colpire i papponi, che sbarcano a frotte con le navi negriere celebrate e assistite dagli sponsor episcopali, colpiamo l’italiano disperato. È non solo nell’ottica merliniana, del peggior democristianismo farisaico, ma anche nell’ottica del similcattolicesimo degenerato, quella di bastonare l’italiano per aiutare la “risorsa”, quale che sia, anche se è una risorsa criminale.
Salvini e mondo “cattolico”.
Va riconosciuto che qui la stoffa del bravo democristiano, che studia e si applica, salta fuori.
Interrogato sulle frizioni tra il leader leghista e una parte del mondo cattolico, Gandolfini parte in quarta affermando che la parte frizionatrice, che si è espressa in particolare nella copertina di Famiglia Cristiana, è “una parte minoritaria”. Il che è bellissimo, se si pensa che è la parte che comprende Bergoglio, la Conferenza Episcopale e la stragrande maggioranza dei preti e delle suore del paese, col concorso esterno dei cattolici adulti di rigoroso credo piddino.
Forse accorgendosi della gaffe, smussa la propria presa di posizione distribuendo le colpe equamente: Salvini è “contestabile in alcune scelte”, epperò i famigli cristiani non sono stati sufficientemente “aperti al dialogo e al rispetto anche nei confronti di chi la pensa in maniera diversa”, come si converrebbe a chi, in ossequio al magistero evoluto, deve sempre dire permesso grazie scusa, pensare arcobaleno e fare la raccolta differenziata della spazzatura. Paragonare Salvini a Satana, insomma, ammette Gandolfini, è stato un azzardo poco caritatevole.
Profonda anche la domanda che si auto-rivolge al termine del contorsionismo: “dov’erano ‘Famiglia Cristiana’ e il sempre più ristretto mondo che rappresenta quando il governo Renzi smontava il concetto di famiglia e quello Gentiloni faceva passare una legge di fatto eutanasica?”. A parte il fatto che quelli erano i suoi amici di poco tempo fa e non sta bene per un bravo cristiano criticarli, chi è lui per giudicare, la risposta che Gandolfini non sa dare alla propria domanda è facile e gliela diamo noi: Famiglia Cristiana era lì e, festeggiando con lancio di coriandoli e stelle filanti, dedicava fior di copertine celebrative ai suoi miti: Boldrini, Napolitano, Renzi, Monti, e chi più sinistri ha, più ne metta.
Gandolfini non se la sente, comunque, di criticare Salvini per aver esibito in pubblico simboli cristiani, e a modo suo lo difende dalle accuse dei propri correligionari di aver strumentalizzato la Croce. Il modo suo è un modo originale ed ecumenico, come la sua religione (che è altra dalla nostra, e speriamo anche da quella di Salvini) prescrive: più si innalza la Croce meglio è – dice – perché essa è l’immagine dell’Amore di Dio per l’uomo. E noi che pensavamo che fosse l’immagine del sacrificio di Cristo per la salvezza dell’umanità redenta dalla luce della verità. Ma ammettiamo che la nostra è una lettura divisiva e può urtare la sensibilità di atei, musulmani, ebrei, massoni, eccetera.
In conclusione, comunque, Gandolfini si dichiara ottimista perché “il clima sta cambiando, per merito di singoli e di associazioni”. Singoli tipo lui, associazioni tipo Difendiamo i nostri figli, Scienza e Vita, il Movimento per la Vita, e tutti i carrozzoni episcopali che lavorano con abnegazione per il moderatismo normalizzatore e grazie ai quali siamo trasportati dolcemente, senza traumi e senza scossoni, attraverso le tappe progressive segnate nella agenda mondialista antiumana e necroculturale.
Ma anche noi vogliamo essere ottimisti, perché il clima forse sta proprio cambiando, e sta cambiando nonostante certi individui e certe conventicole. Speriamo infatti che il senso della realtà sia miracolosamente ancora vivo dietro tante allucinazioni collettive, e che si possa reimparare pian pianino a parlare come si mangia, ad agire come si pensa, e a camminare con i piedi per terra, la nostra terra. Speriamo che il buon senso recondito e quasi dimenticato, rimasto troppo a lungo soffocato sotto la coltre del potere falso e corrotto che pretende di pensare per noi e di disporre della nostra vita, riesca davvero a fare capolino qua e là e poi propagarsi per contagio virtuoso, e infine risvegliare nella gente stanca e rassegnata la voglia di reagire al proprio annientamento programmato. C’è ancora uno spazio per combattere, purché ci si convinca di doverlo fare da uomini liberi, costi quel che costi, al servizio di nessun altro padrone che non sia la coscienza abbeverata alla fonte perenne della verità. Quella che abita la Croce di Cristo.
P.S. Prevediamo e preveniamo le critiche “diaballiste” (da dià-ballo, in greco “divido”), sempre puntuali come un treno giapponese quando si toccano certi personaggi circondati da un’alone quasi mistico. Già le sentiamo arrivare: è il diavolo che divide, bisogna restare uniti, ognuno fa secondo il proprio stile e la propria sensibilità ma tutti abbiamo lo stesso obiettivo, dobbiamo lavorare per l’unità dei cattolici, agire sempre in spirito di carità, chi siamo noi per giudicare, disuniti non si va da nessuna parte, solo l’unione fa la forza, e via banalizzando. Le anticipiamo, facendo subito pubblica professione di diaballismo, anzi, di integralismo diaballista. Il mondo che si definisce “cattolico” è oggi una cloaca maleodorante in cui le idee degenerate hanno il sopravvento e puntano alla conquista di sempre nuovi adepti. Noi, con gli estintori per professione degli ultimi tizzoni di sana resistenza, mai andremo a braccetto né firmeremo alcun armistizio. I loro obiettivi sono antitetici ai nostri obiettivi, per metodo e anche per fine. Mai taceremo per quietovivere laddove, in omaggio a interessi corporativi, sia mistificata per convenienza la realtà delle cose. Ci interessa il futuro dei nostri figli ben più delle relazioni diplomatiche coi loro finti difensori.
– di Elisabetta Frezza e Roberto Dal Bosco
Al Meeting di Rimini di Rimini impazza il ’68. Si potrebbe dire che sia il vero protagonista della manifestazione riminese. Un protagonista all’insegna della nostalgia e dell’amarcord, come se fosse una rimpatriata tra vecchi indossatori di eskimo anziché la kermesse di quello che un tempo era considerato un movimento cattolico “integralista”. E in effetti forse è propria questa voglia di essere accettati e accreditati dal mondo che muove CL a rimpiangere i “bei tempi” delle contestazioni e delle okkupazioni. Un ’68 mitizzato e selezionato, in un Meeting assolutamente dimentico di altri avvenimenti e personaggi di quell’anno terribile, che avrebbero meritato da parte di CL un ricordo con incontri o mostre, come l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, la strage di Città del Messico che venne testimoniata da Oriana Fallaci, la morte di Padre Pio, l’uscita dell’Enciclica Humanae Vitae e il polverone di polemiche e contestazioni da parte del progressismo teologico e la nascita del “Dissenso” all’interno dello stesso mondo cattolico. Volendo si poteva anche ricordare uno dei momenti più esaltanti del ’68 per lo sport italiano, cioè i due titoli mondiali pugilistici conquistati da Benvenuti e Mazzinghi.
Invece questo Meeting dal sapore peace and love privilegia la nostalgia e il rimpianto per la rivoluzione mutilata. Così non può stupire l’intervento ieri sera di Aldo Brandirali, fondatore di uno dei movimenti più estremisti di quei “formidabili” anni: Servire il popolo, poi convertito al Cristianesimo in seguito all’incontro con don Giussani. Del suo periodo rivoluzionario pre- giussaniano tuttavia non butta via niente, come col maiale. “Se non avessi fatto il ’68 pieno di domande, di contraddizioni, di fallimenti, non corrispondente con i bisogni e il reale – ha detto al pubblico – non avrei incontrato don Giussani che trentasei anni fa mi ha fatto il dono di Gesù, che restituisce me a me stesso”.
Brandirali racconta che da piccolo frequentava l’oratorio, il papà lo manda in chiesa, faceva il chierichetto ma qualcosa non lo convince; non lo convince – dice- “soprattutto il moralismo dominante e bacchettone del periodo. ” Eccola qua una delle parole magiche di CL: moralismo. Quante volte la si è sentita negli scorsi anni, in particolare di fronte alle obiezioni su comportamenti politici o affaristici “disinvolti” da parte di esponenti del Movimento: non facciamo i moralisti. E così tutto era concesso e permesso. Ovviamente per Brandirali la “Chiesa moralista” era ovviamente quella dei sacerdoti con la tonaca, che insegnavano il Catechismo e le preghiere, la Chiesa di sempre.
Durante la rivoluzione studentesca ha 27 anni. Fa prima l’operaio, poi il sindacalista, il militante del partito co-munista, poi è curatore del giornale “Servire il popolo”. È in questo periodo che scoppia la voglia di rompere col passato ed incominciano a germinare le domande sulla vita, sul significato dell’esistenza, sul senso comune degli uomini e della storia. Aggiunge: “Anche la partecipazione nella ‘comune’, dove mettevamo insieme i soldi per gli ideali, era il tentativo per dare risposte utili alla gente, era il nostro modo di servire il popolo; dopo un po’, però, mi sono accorto che non avevo riferimenti culturali”.
Il ‘68 ha rappresentato uno spartiacque nei rapporti fra figli e genitori. “Ci chiedevamo – prosegue – quali fossero i punti in comune con i nostri padri, contestavamo il loro modo di pensare e agire, era il periodo della lotta fra la classe operaia e quella borghese”. È il periodo delle teorie marxiste, del popolo sfruttato contrapposto agli sfruttatori, del popolo come massa contro la classe borghese, proletariato contro capitalismo.
Anche in questi anni Brandirali non si ferma, si interroga, è alla ricerca di risposte, è critico contro le sue stesse idee. Le risposte arrivano agli inizi degli anni Ottanta, quando incontra don Giussani. “Di lui – dice – mi ha colpito profondamente il suo approccio con la realtà. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha detto ‘Aldo, che entusiasmo, che passione!’ “.
La conversione è un cammino lento e ci vuole tempo per capire, dice. Intanto riprende a fare politica, e segue il Movimento che sceglie di schierarsi con Berlusconi. Da Servire il Popolo a servire Mediaset.
Brandirali racconta che da piccolo frequentava l’oratorio, il papà lo manda in chiesa, faceva il chierichetto ma qualcosa non lo convince; non lo convince – dice- “soprattutto il moralismo dominante e bacchettone del periodo. ” Eccola qua una delle parole magiche di CL: moralismo. Quante volte la si è sentita negli scorsi anni, in particolare di fronte alle obiezioni su comportamenti politici o affaristici “disinvolti” da parte di esponenti del Movimento: non facciamo i moralisti. E così tutto era concesso e permesso. Ovviamente per Brandirali la “Chiesa moralista” era ovviamente quella dei sacerdoti con la tonaca, che insegnavano il Catechismo e le preghiere, la Chiesa di sempre.
Durante la rivoluzione studentesca ha 27 anni. Fa prima l’operaio, poi il sindacalista, il militante del partito co-munista, poi è curatore del giornale “Servire il popolo”. È in questo periodo che scoppia la voglia di rompere col passato ed incominciano a germinare le domande sulla vita, sul significato dell’esistenza, sul senso comune degli uomini e della storia. Aggiunge: “Anche la partecipazione nella ‘comune’, dove mettevamo insieme i soldi per gli ideali, era il tentativo per dare risposte utili alla gente, era il nostro modo di servire il popolo; dopo un po’, però, mi sono accorto che non avevo riferimenti culturali”.
Il ‘68 ha rappresentato uno spartiacque nei rapporti fra figli e genitori. “Ci chiedevamo – prosegue – quali fossero i punti in comune con i nostri padri, contestavamo il loro modo di pensare e agire, era il periodo della lotta fra la classe operaia e quella borghese”. È il periodo delle teorie marxiste, del popolo sfruttato contrapposto agli sfruttatori, del popolo come massa contro la classe borghese, proletariato contro capitalismo.
Anche in questi anni Brandirali non si ferma, si interroga, è alla ricerca di risposte, è critico contro le sue stesse idee. Le risposte arrivano agli inizi degli anni Ottanta, quando incontra don Giussani. “Di lui – dice – mi ha colpito profondamente il suo approccio con la realtà. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha detto ‘Aldo, che entusiasmo, che passione!’ “.
La conversione è un cammino lento e ci vuole tempo per capire, dice. Intanto riprende a fare politica, e segue il Movimento che sceglie di schierarsi con Berlusconi. Da Servire il Popolo a servire Mediaset.
Decide quindi di lasciare definitivamente la politica. Oggi si definisce un educatore.“Oggi posso dire che, come nel ‘68 si può servire il popolo ma in un modo diverso. Oggi servire il popolo, per me, è servire Cristo, il vero Amore. Il pensiero moderno ti dice che c’è contraddizione fra l’io e il tu. Invece ho imparato che non c’è contraddizione, è la stessa cosa. Cristo è rivoluzionario, la battaglia per l’affermazione dell’amore è faticosa ma lascia una bellezza ed un gusto di vivere unici”.
Molto più pragmatico l’intervento due ore dopo nell’Auditorium Intesa Sanpaolo (ah, questi sponsor)di Mario Calabresi, il direttore di Repubblica.
Il direttore risponde alla domanda sul cambiare il mondo prendendo le mosse dall’impressione che Marchionne gli riferì aver avuto dal Meeting: “ho visto dei giovani con un’energia negli occhi che non credevo possibile”. Passa poi all’esempio di sua zia, che partecipò alla prima occupazione, alla Statale di Milano, nel 67; vista la piega che presero gli eventi (dimostrazioni, scontri) la zia, laureatasi medico, decise di andare a fondare un ospedale in Uganda; fece la lista nozze indicando come regali il necessario per il piccolo ospedale (una stanza nella savana) si sposò e partì col marito. Calabresi, tornato dopo 45 anni a vedere cosa avesse prodotto quella lista di nozze, ha trovato un ospedale che (tra l’altro) assiste diecimila parti l’anno: “Questo significa andare ad aiutarli a casa loro; non è sbagliato dire aiutiamoli a casa loro, bisogna però poi anche farlo”. Non poteva mancare la stoccata alla Lega. L’aneddoto della zia è comunque significativo: come un tempo ci si vantava di qualche parente che aveva partecipato alla Marcia su Roma, così ora fa cool vantare qualche congiunto che abbia “fatto il ‘68”. Calabresi poteva anche non chiamare in causa la zia: anche suo padre infatti era stato protagonista di quegli anni, dalla parte però delle Forze dell’Ordine, e dell’onda lunga della rivoluzione rimase drammaticamente vittima. Ma Mario non lo cita.
In compenso Calabresi Junior spiega che negli anni ‘60 nacque il consumismo, nemico dell’”autenticità”.
Il direttore risponde alla domanda sul cambiare il mondo prendendo le mosse dall’impressione che Marchionne gli riferì aver avuto dal Meeting: “ho visto dei giovani con un’energia negli occhi che non credevo possibile”. Passa poi all’esempio di sua zia, che partecipò alla prima occupazione, alla Statale di Milano, nel 67; vista la piega che presero gli eventi (dimostrazioni, scontri) la zia, laureatasi medico, decise di andare a fondare un ospedale in Uganda; fece la lista nozze indicando come regali il necessario per il piccolo ospedale (una stanza nella savana) si sposò e partì col marito. Calabresi, tornato dopo 45 anni a vedere cosa avesse prodotto quella lista di nozze, ha trovato un ospedale che (tra l’altro) assiste diecimila parti l’anno: “Questo significa andare ad aiutarli a casa loro; non è sbagliato dire aiutiamoli a casa loro, bisogna però poi anche farlo”. Non poteva mancare la stoccata alla Lega. L’aneddoto della zia è comunque significativo: come un tempo ci si vantava di qualche parente che aveva partecipato alla Marcia su Roma, così ora fa cool vantare qualche congiunto che abbia “fatto il ‘68”. Calabresi poteva anche non chiamare in causa la zia: anche suo padre infatti era stato protagonista di quegli anni, dalla parte però delle Forze dell’Ordine, e dell’onda lunga della rivoluzione rimase drammaticamente vittima. Ma Mario non lo cita.
In compenso Calabresi Junior spiega che negli anni ‘60 nacque il consumismo, nemico dell’”autenticità”.
La giornata sessantottesca si è conclusa con la presentazione dell’autobiografia del cardinale Angelo Scola, al suo ritorno al Meeting dopo anni di assenza, dovuta a gravosi impegni pastorali. Scola ha dato un piccolo saggio del suo pensiero teologico-antropologico, con chicche come la locuzione che segue, in cui il cardinale del “meticciato culturale” espone in maniera limpida la sua visione del momento presente: “E’ un’epoca che definirei della post-secolarizzazione: si è interamente compiuto il processo di negazione della possibilità che un Fatto particolare, un Uomo, sia la ragione e il senso di tutto. L’esito finale è il nichilismo, un problematicismo radicale e la censura delle domande e del dialogo sul senso della vita. Occorre rialzare lo sguardo, non soffocare l’attesa di una novità di vita, poterla incontrare e sperimentare”. Non manca un significativo giudizio sull’attuale pontificato: “Lo stile è l’uomo – prende a dire Scola – e Francesco ha uno stile molto personale e sorprendente per noi. La sua elezione è stata un salutare pugno nello stomaco per noi, membri di chiese europee spesso stanche e poco vivaci. Il ministero di papa Bergoglio è fatto di gesti, linguaggio, esempi, senso di appartenenza al popolo (el pueblo fiel) che costituiscono una novità che dobbiamo imparare”. Il cardinale coglie l’occasione per definire una “fake news” quanto si scrisse a suo tempo, che fosse entrato in Conclave da papa: “Era evidente a me e ad altri che la stanchezza delle chiese europee, la perdita del senso di presenza di Gesù nella vita concreta dei cristiani, le rendeva non in grado di esprimere un Pontefice. Via, non ho proprio mai pensato di diventare papa”. Scola insiste: “Abbiamo il dovere di imparare la novità che questo papa testimonia, accoglierlo e seguirlo senza riserve. All’intervistatore che gli pone la questione di una Chiesa in cui c’è un filone conservatore che critica il papa e uno progressista che lo sostiene, Scola risponde: “I primi sostengono che il papa sbaglia perché non dice le cose che pensano loro. I secondi dicono che finalmente c’è un papa che dice le cose che loro sostenevano già 50 anni fa. Io dico che sbagliano gli uni e gli altri, e gravemente”.
Chi è dunque nel giusto? La risposta il cardinale non la da, forse perchè come cantava Bob Dylan nel mitico ’68, risposta non c’è o forse chissà….
– di Paolo Gulisano
https://www.riscossacristiana.it/meeting-di-rimini-2018-quella-voglia-pazza-di-68-di-paolo-gulisano/
VITTADINI E LE UNIONI CIVILI: COMPROMESSO ACCETTABILE! UNA LETTERA APERTA A JUAN CARRON
“Diciamo che le unioni civili sono un compromesso accettabile per chi desideri un altro tipo di famiglia”. Giorgio Vittadini. Che cacchio di fine sta facendo CL?
Così su Twitter, dopo le dichiarazioni dell’organizzatore del Meeting di Rimini. Ma c’è chi è andato oltre i 280 caratteri di Twitter, per esprimere il suo sdegno. È un sacerdote, Pierre Laurent Cabantous, di formazione ciellina, che ha scritto una lettera aperta a Don Julian Carron.
LETTERA APERTA A DON JULIAN CARRON
Rev. mo don Julian Carron,
mi sorprende che non ci sia stata, da parte sua, una immediata presa di distanza da quanto affermato dal dott. Vittadini nella sua intervista al Corriere della Sera. Sono un semplice parroco della provincia romagnola, non ho responsabilità nel Movimento, ma ho avuto la grazia nella mia vita di incontrare don Giussani, di essere stato educato e guidato nella mia adolescenza dal suo carisma, di aver maturato la mia vocazione al sacerdozio che vivo con letizia e di godere tutt’ora della compagnia di tanti amici che come me e con me hanno vissuto e vivono ancora la sequela a Cristo e alla Chiesa che il fascino del carisma di don Giussani aveva in noi suscitato. E non ci sto – è diventato per me insopportabile e doloroso – che il carisma, che mi ha educato e che amo, venga buttato al macero così. Soprattutto l’affermazione del dott. Vittadini : «Diciamo che le unioni civili sono un compromesso accettabile per chi desideri un altro tipo di famiglia» , contraddicono – non solo il carisma di don Giussani – ma il magistero della Chiesa. Anche recentemente il Papa si è chiaramente pronunciato: “La famiglia è solo quella tra uomo e donna”( Incontro con la delegazione del Forum delle associazioni familiari – 16 giugno 2018) Mi auguro che lei prenda presto le distanze da tali affermazioni, altrimenti “chi tace acconsente” e in questo caso equivale a “tradire”.
Se volete seguire il dibattito che ne è scaturito, potete andare su questo link.
Quanto al resto, il mutamento genetico avvenuto in Comunione e Liberazione genera sofferenza in molti seguaci di don Giussani, e di questo ne abbiamo conferma quasi quotidiana da amici e conoscenti. Quantum mutatur ab illo….
Marco Tosatti
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