ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 9 settembre 2018

Sui due piatti della bilancia

LA CROCE: IL SEGRETO DELLA VITA


Santità è portare la croce di chi non vuol portarla. L’uomo moderno è il peggiore scolaro che abbia mai seduto sui banchi di quella grande scuola che è la vita. Il suo segreto è trasformare la sofferenza in serenità e gioia 
di Francesco Lamendola  

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Il mondo è pieno di sofferenza: ne è letteralmente intriso. Certo, vi è anche la gioia: tuttavia è impossibile non vedere che vi è una sproporzione fra le due, se non in termini oggettivi, che Dio solo conosce, in termini soggettivi, che è quanto conta per l’uomo. Infatti, per l’uomo esiste quella realtà che egli esperisce, e l’esperienza è sempre un fattore soggettivo; per cui, senza scomodare né Leopardi, né Schopenhauer, né Sartre o qualsiasi altro filosofo moderno, è innegabile che la stragrande maggioranza degli uomini percepiscono la vita in questi termini: che in essa c’è molta più sofferenza che gioiaalmeno rispetto alle loro aspettative. Lasciamo per dopo il discorso sulle aspettative e concentriamoci sull’affermazione: nella vita c’è più sofferenza che gioia. Abbiamo detto che essa nasce da una percezione soggettiva; d’altra parte, se la percezione soggettiva si estende alla maggioranza del genere umano, è un qualcosa che non si può liquidare in termini di psicologia, ma è un dato di fatto attinente alla natura umana, perciòè una questione filosofica. Ora, non sarebbe realistico immaginare che tutti gli uomini possano diventare filosofi; se anche lo volessero, non tutti ne sarebbero capaci; e se anche tutti ne fossero capaci, non tutti lo vorrebbero. Si tratta perciò di vedere e di capire in che modo gli uomini possano adattarsi a vivere, in maniera non disperata, anzi serena e, se possibile, ottimistica e gioiosa, una vita che quasi tutti percepiscono come più ricca di sofferenze che di gioie. Sembrerebbe una cosa impossibile, tanto più che si presenta come una contraddizione in termini: se c’è più sofferenza che gioia nella vita, come si può pretendere che gli uomini la vivano serenamente e addirittura gioiosamente? Come possono, la serenità, la gioia e l’ottimismo, scaturire dalla sofferenza?

0 DITA DIO
La sofferenza provocata dal male morale si manifesta in vari modi, ma tutti riconducibili a una trasgressione della legge fondamentale: ama il prossimo come te stesso. Inganni, invidie, gelosie, rivalità, contese, maldicenze, calunnie, violenze, tradimenti, furti e omicidi, hanno questa radice: il disprezzo dell’altro, visto come uno strumento per realizzare i propri scopi egoistici, o come un ostacolo da eliminare.

Arrivati a questo punto, bisogna guardare più da vicino il fatto della sofferenza. Che cos’è? Vediamo per prima cosa che vi sono due diversi tipi di sofferenza: quella che deriva da eventi naturali e quella che deriva da atti umani. Una invalidità dovuta a una malattia, per esempio, genera una sofferenza che è riconducibile a cause naturali; una invalidità provocata da un incidente in cui vi è stata una colpevole leggerezza, come quella di mettersi alla guida dopo aver bevuto molto, rientra nella seconda categoria. Vi sono sofferenze naturali inevitabili, come quelle legate alla vecchiaia, o alla perdita delle persone care, e ve ne sono totalmente volute e deliberate, come quelle generate dalla delinquenza o dalle passioni sregolate. Vi è anche una zona grigia, nella quale è difficile stabilire una netta linea di separazione: vi sono incidenti, dai quali derivano invalidità e traumi permanenti, anche gravissimi, nei quali vi è una componente di fatalità, ma anche una d’imprudenza. La sofferenza dovuta a fattori naturali è propria dell’essere umano in quanto creatura (parzialmente) biologica: essa va accettata come parte del piano di realtà al quale gli uomini appartengono, il piano fisico e materiale; anche se non vi appartengono del tutto, ma solo perciò che è legato alla carne. Questa è una sofferenza che dovrebbe essere puramente accettata, perché immodificabile e perché non è maligna in se stessa, in quanto fa parte del ciclo della natura: se non vi fossero le malattie, la vecchiaia e la morte, non ci sarebbe alcun rinnovamento e gli individui, pressoché perenni, renderebbero impossibile il sopravvenire di nuovi individui. Si osservi una foresta: mano a mano che i vecchi alberi cadono e muoiono, abbattuti dalla tempesta, o colpiti dal fulmine, o bruciati dal fuoco di un incendio, o sopraffatti dallo sviluppo delle piante parassite, subito ne nascono di nuovi, che sfruttano l’acqua, i sali minerali, l’aria e la luce divenuti disponibili. Gli uomini tendono a non accettare la loro condizione naturale, specie gli uomini moderni, perché la loro cultura, impregnata di scientismo materialista, li ha illusi di poter sconfiggere tutte le malattie, ritardare l’avanzata della vecchiaia e forse, chissà, un domani, sconfiggere anche la morte. Per intanto, le cure estetiche e perfino la chirurgia estetica vengono ampiamente utilizzate per mascherare gli effetti dell’invecchiamento; il quale, peraltro, continua a fare il suo lavoro e se ne infischia di tutti gli espedienti e gli stratagemmi che coprono la superficie, ma non modificano per nulla la sostanza delle cose: per cui una donna di sessant’anni può anche rivaleggiare, se lo vuole, esteticamente, con sua nipote di sedici, ma biologicamente è e rimane una sessantenne che ha esaurito da un pezzo la fase ascendente del suo ciclo vitale e che si avvia verso gli acciacchi della vecchiaia. Qui, naturalmente, un peso determinante è svolto dalle aspettative sociali, che, come dicevamo all’inizio, sono molto importanti nella percezione del proprio stato: più grandi le aspettative, più grande la delusione di fronte alla loro caduta e al susseguente disinganno. La civiltà moderna è quella che, per definizione, ha fatto le più grandi promesse ai suoi figli, e perciò, automaticamente, anche quella che li ha maggiormente ingannati, generando aspettative esagerate e irrealistiche. Pare che gli uomini moderni non vogliano rassegnarsi ad accettare il fatto della loro mortalità, con tutto quel che ne consegue, per cui sono pronti a gridare al tradimento ogni qualvolta le cose non vanno come essi si aspettano che vadano. Un inconveniente fisico diventa un capo d’accusa contro Dio e contro la vita; e così, per reazione, gli uomini moderni puntano sempre più sull’ausilio della scienza e della tecnica, illudendosi di poter rimediare alle imperfezioni della natura. Questo è possibile, ma solo fino a un certo punto: oltre il quale si genera l’assurdo meccanismo di pretendere sempre di più, senza limite alcuno. Per fare un esempio: una persona che subiva l’amputazione di una gamba, un tempo, si accontentava della protesi di legno e organizzava la propria vita accettando la propria menomazione: faceva quel che poteva fare, e rinunciava a ciò che non poteva. Poi sono arrivate le protesi di acciaio, elastiche, e le persone hanno cominciato a desiderare di poter fare tutto, ma proprio tutto, quel potevano fare prima di perdere le gambe: di correre alle olimpiadi, di sfilare nei concorsi di bellezza, eccetera. Quasi una rivalsa contro la vita ”ingiusta”, come a dire: la vita ha cercato di fregarmi, e l’ho fregata a mia volta. C’è una vecchia canzone di Patty Pravo – ci scusino i filosofi accademici se non citiamo Hegel o Kant, ma Patty Pravo – che dice:La cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me… Ecco: questo è l’ideale dell’uomo moderno: cambiare la vita, perché lui, quanto a se stesso, non ha nessuna intenzione, né di cambiare, né di lasciare che lo cambino gli agenti naturali: la malattia, la vecchiaia e la morte. In questo senso, l’uomo moderno è il peggiore scolaro che abbia mai seduto sui banchi di quella grande scuola che è la vita: il più ostinato, il più refrattario, il più tetragono a imparare alcunché. Non ha nemmeno capito di essere lui lo scolaro, e che la vita è la sua insegnante; crede di poter rovesciare i termini e dettare alla vita le regole che lui ha deciso di stabilire.

0 HOMO MICHELANNGELO
L’uomo moderno è il peggiore scolaro che abbia mai seduto sui banchi di quella grande scuola che è la vita.

Su questo aspetto, cioè sull’aspetto psicologico e culturale, è dunque necessario che l’uomo lavori su se stesso, facendo prima un grande bagno di umiltà. Inutile dire che l’attuale linea di tendenza va nella direzione opposta alla trasformazione della sofferenza in serenità, perché parte dall’idea che la sofferenza sia male, sempre e comunque, e che vada combattuta con ogni mezzo, fino a sterminarla, come si combattono le zanzare con il DDT, o come si combatte il mal di testa con l’aspirina. La sola cosa che egli vuole è che essa se ne vada; non gl’interessa di sapere se, per caso, essa non abbia qualche importante annuncio da fargli, qualche decisivo segreto da comunicargli. Vuole scacciarla come una visitatrice del malaugurio, e l’unica cosa che sa fare è escogitare sempre nuove strategie per tentare di tenerla fuori della porta. Se proprio non ci riesce, preferisce staccare la spina e smettere di vivere. L’origine dell’eutanasia è qui. E anche l’origine dell’aborto, se è per questo: bisogna allontanare tutto ciò che potrebbe costituire un problema, tutto ciò che potrebbe creare imbarazzo, disagio o sofferenza: del resto, per l’uomo moderno (per la donna moderna, in questo caso) tutto ciò che sfugge al suo controllo è sinonimo di sofferenza, proprio perché egli soffre quando si accorge di non poter controllare tutto, di non avere ogni cosa sotto il suo dominio. E una vita che arriva, non desiderata e non cercata, rappresenta il massimo dello sconvolgimento per una simile mentalità: meglio, dunque, rimuovere il problema alla radice. In fondo, che ci vuole? La tecnologia rende la cosa estremamente semplice; basta vincere le ultime resistenze morali. Basta convincersi che in quell’azione non vi è alcunché di riprovevole, cosa tanto più facile in quanto l’intera società sembra avere adottato una simile opinione.
Ora ci resta da considerare quell’altra forma di sofferenza che non deriva da eventi naturali, ma da eventi umani più o meno volontari. È a questa sofferenza che spetta, propriamente, l’appellativo di male: perché il male morale è il vero male, mentre il male generato da eventi naturali, per quanto doloroso esso sia, non rappresenta una sfida al senso etico, ma, tutt’al più, una sfida al senso di giustizia universale, e investe direttamente i fondamenti dell’essere. La sofferenza provocata dal male morale si manifesta in vari modi, ma tutti riconducibili a una trasgressione della legge fondamentale: ama il prossimo come te stesso. Inganni, invidie, gelosie, rivalità, contese, maldicenze, calunnie, violenze, tradimenti, furti e omicidi, hanno questa radice: il disprezzo dell’altro, visto come uno strumento per realizzare i propri scopi egoistici, o come un ostacolo da eliminare. Ancora più a monte, vi è probabilmente anche un disamore di sé, mascherato da amore disordinato, noto anche come narcisismo. Il narcisismo è un amore disordinato di sé, perché non sa riconoscere ciò che fa star bene l’io, ma lo scambia con qualcosa d’altro, con qualcosa che lo illude di star bene sul momento, e poi lo lascia in condizioni peggiori di prima: sempre bisognoso, perciò, di iniezioni, ognora più massicce, di piacere e di gratificazioni. In questa maniera si sviluppano le personalità cronicamente distorte, disarmoniche, mostruose, che godono solo infliggendo sofferenza e calpestando gli altri, perché hanno bisogno di dosi massicce di quel piacere che intendono strappare ad ogni costo, a qualsiasi prezzo, beninteso agli altri. Ma chi ha un giusto amore di sé, non imbocca questa strada e non si pone in tali situazioni. Avere un giusto amor di sé significa saper riconoscere le cose buone, che fanno star bene l’anima, e quelle cattive, che la fanno star male. Il rispetto del prossimo non è mai disgiunto dal giusto amor di sé, e viceversa. Ne consegue che la giusta risposta al disordine morale provocato dal male e dalla sofferenza che esso genera consiste nel riconoscere le cose che giovano all’anima, e nell’evitare le altre. In effetti, il segreto è tutto qui: trasformare la sofferenza in serenità e in gioia. Prendiamo, per esempio, la vendetta. Un tale è stato ucciso, e suo figlio medita la vendetta: soffre nel veder soffrire la madre e i suoi fratelli, e brucia dalla voglia di uccidere a sua volta l’assassino. Crede che questo restituirà la pace a lui e ai suoi cari, e non sa che una tale azione non sortirà affatto quel risultato, ma servirà solo ad innescare una catena di vendette senza fine, perfino tra persone che non si conoscono neppure. La giusta risposta al male morale è sempre il perdono e soprattutto la remissione alla volontà di Dio: rimettersi alla volontà di Dio equivale a levare il pesantissimo fardello dell’infelicità dalle proprie spalle e nell’affidarlo nelle mani del Signore, che saprà cosa farne: ci penserà Lui a trasformarlo in una peso lieve e perfino giocondo. Santa Rita da Cascia aveva visto quanto vi è di sbagliato nella vendetta e tentò in ogni modo di dissuadere i suoi due figli adolescenti dal proponimento di vendicare il loro padre, uccidendo, quando fossero cresciuti, il suo assassino: e spinse il suo eroismo di madre fino a chiedere a Dio che se li prendesse, piuttosto che si macchiassero le mani di sangue. Così avvenne; dopo di che lei entrò in convento e intraprese l’erta via della santità, diventando per tutti la santa dell’impossibile. C’è dunque un problema: che moltissime anime non arrivano a vedere, come i figli di santa Rita, ciò che giova e ciò che non giova a lenire la sofferenza. E questo accade perché ciascuno di noi è animato dalla falsa idea che il bene o il male che facciamo, ma soprattutto il male, riguardino noi soli. Specialmente la società moderna incoraggia questa forma esasperata di individualismo, che distorce completamente il giudizio sulla relazione morale che unisce fra loro tutti gli uomini, anche quelli che non si conoscono o che sono vissuti a distanza di secoli. Di fatto, esiste una comunione del bene universale, come esiste una comunione del male, che sono simili ai cerchi sempre più larghi formati dall’acqua, allorché si getta qualcosa in un laghetto tranquillo. Le conseguenze di una cattiva azione, come abbiamo detto, possono ripercuotersi di generazione in generazione, in un grandissimo arco di tempo. Anche le conseguenze delle buone azioni sono incalcolabili e imprevedibili: vi sono persone la cui vita è stata radicalmente cambiata, e orientata verso il bene, semplicemente dalla lettura di un libro, o dall’aver udito una certa parola. Il bene e il male che facciamo vanno ben oltre quel che crediamo abitualmente: si prolungano nello spazio e nel tempo in una maniera che nessuno potrebbe predire.

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Il bene e il male che facciamo vanno ben oltre quel che crediamo abitualmente: si prolungano nello spazio e nel tempo in una maniera che nessuno potrebbe predire.  Per spezzare questa diabolica catena è necessario che vi siano degli uomini e delle donne eroici, disposti a prendersi sulle spalle tutto quel male, a pregare e a fare penitenza per trasformarlo in una offerta d’amore a Dio.


Santità è portare la croce di chi non vuol portarla

di Francesco Lamendola

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