Chiesa popolo di Dio? Sì, ma…
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Quando va all’estero papa Francesco incontra spesso i gesuiti che vivono nel paese da lui visitato, e così ha fatto anche nei Paesi baltici.
Il resoconto del colloquio con i confratelli è pubblicato da La Civiltà Cattolica e propone numerosi spunti di riflessione.
Raccolte dal direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, le parole del papa spaziano su vari argomenti, a seconda delle sollecitazioni ricevute.
Centrale è la riflessione sul Concilio Vaticano II. Rispondendo infatti alla domanda di un giovane gesuita lituano (che gli dice: “Lei ha dato tanto alla Chiesa. Le voglio chiedere come noi possiamo aiutarla”), il papa risponde: “Grazie! Non so che cosa chiedere. Ma quello che oggi bisogna fare è accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Io credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. Ho detto tante volte che una perversione della Chiesa oggi è il clericalismo. Ma cinquant’anni fa lo aveva detto chiaramente il Concilio Vaticano II: la Chiesa è il popolo di Dio. Leggete il numero 12 della Lumen gentium. Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono cento anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa”.
Se le riflessioni di Francesco fossero riservate, non sarebbe il caso di intervenire. Ma dal momento in cui sono rese pubbliche diventano oggetto di discussione.
Dunque il papa sostiene che occorre accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Si dice convinto che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. E per spiegare in che senso deve andare il cambiamento parla di quella “perversione” che è il clericalismo.
Ecco dunque il nemico da combattere: il clericalismo. Ma che cos’è esattamente il clericalismo per Francesco?
Nel dialogo nei Paesi baltici, necessariamente sintetico, non lo spiega. Possiamo però fare riferimento ad altri suoi interventi, nei quali il clericalismo è visto come un modo sbagliato di concepire il clero. Nel clericalismo si cade quando al clero è data un’importanza superiore a quella che effettivamente gli spetta, quando i preti “si sentono superiori” rispetto ai laici. Anzi, come ama dire Francesco, rispetto al “popolo”.
I laici stessi, ha detto più volte Francesco, possono cadere nel clericalismo quando svalutano il loro ruolo e si pongono in posizione subordinata rispetto al prete, nella convinzione che egli ne sappia di più.
Caratteristica saliente del clericalismo è la superbia, l’incapacità di lasciarsi interpellare e di mettersi in discussione. Allo stesso tempo, il clericalismo favorisce e alimenta l’abuso di potere. Ecco perché Francesco arriva a identificare proprio nel clericalismo la radice degli abusi sessuali commessi da preti.
La lettura del clericalismo fatta da Francesco può essere più o meno condivisibile, ma di certo, quando il papa ne fa il principale ostacolo al “cambiamento spirituale”, non è difficile vedere un rischio, e cioè che, per combattere il clericalismo, si cada nell’opposto, in una sorta di democraticismo, secondo il quale nella Chiesa saremmo tutti uguali, e in una visione demagogica della Chiesa.
Che siamo tutti uguali, in quanto figli di Dio e fratelli in Cristo, è fuori discussione, ma nella Chiesa esistono funzioni e ruoli diversi. In particolare al sacerdote, al pastore, spetta un compito di docenza che non può essere negato o ridotto. La potestas docendi va esercitata, pena lo sbandamento e l’anarchia. Un conto è evitare l’autoritarismo, un conto è rinunciare alla potestà di insegnare, oppure ridimensionarla in nome di un presunto egualitarismo che nella Chiesa non ha cittadinanza in questi termini.
“La Chiesa è il popolo di Dio”, dice Francesco, e a supporto chiama la Lumen gentium, la seconda delle quattro costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II, dedicata alla dottrina cattolica sulla Chiesa.
Ma la Lumen gentium dice proprio così? Non sembra.
Leggiamo: “La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15)” (n. 6).
Le immagini del pastore, dell’ovile, delle pecore e del gregge richiamano la distinzione dei ruoli. Il pastore e la pecora non sono uguali. Se il pastore non facesse il pastore, il gregge andrebbe disperso e non riuscirebbe a essere messo al sicuro nell’ovile.
Sostenere che la Chiesa “è il popolo di Dio”, senza ulteriori specificazioni, suona quanto meno riduttivo. È vero, la definizione si trova anche nel Catechismo, ma non da sola. Nel Catechismo infatti leggiamo: “Le immagini dell’Antico Testamento sono variazioni di un’idea di fondo, quella del ‘popolo di Dio’. Nel Nuovo Testamento tutte queste immagini trovano un nuovo centro, per il fatto che Cristo diventa il ‘Capo’ di questo popolo, che è quindi il suo corpo. Attorno a questo centro si sono raggruppate immagini desunte sia dalla pastorizia o dall’agricoltura, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali”.
Dunque: corpo con un capo, gregge con un pastore, popolo con una guida. E se la guida non c’è, o è incerta, o non fa il proprio dovere, sono guai. Perché i lupi non aspettano altro.
A supporto della sua affermazione sulla Chiesa popolo di Dio Francesco cita il numero 12 di Lumen gentium, dove però troviamo scritto: “Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15)”.
Il popolo dunque “partecipa” all’opera di Cristo. Non vi si sovrappone, né pretende di essere, di per sé, la Chiesa. Anzi, è popolo se e quando offre a Dio un sacrificio di lode “sotto la guida del sacro magistero”, come si legge più avanti.
Insomma, se prendiamo in esame da una parte il clericalismo e dall’altra la visione di Chiesa come popolo di Dio ci accorgiamo che in mezzo c’è molto: ci sono dimensioni intermedie che non possono essere ignorate. Tanto è vero che Gesù non nega che qualcuno debba guidare e insegnare. Raccomanda sì che l’autorità sia esercitata nel servizio, ma non contesta il fatto che gli apostoli abbiano autorità sugli altri.
Alla fine della sua risposta al giovane gesuita Francesco dice poi: “Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono cento anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa”.
Già, ma quale Concilio? Quello che si trova nei documenti conciliari, o quello strumentalizzato da chi ha voluto vedervi una sorta di rivoluzione e di rifondazione della Chiesa? Quello che, pur attento ai segni dei tempi, ribadisce il depositum fidei e la necessità che la potestas docendi sia esercitata, o quello che, con il pretesto del rinnovamento, pretende di trasformare la Chiesa in una democrazia assembleare?
Anche in questo caso bisognerebbe precisare, perché sappiamo bene a quali abusi ha portato il Concilio a causa di letture superficiali, strumentali o “pilotate” dei suoi testi.
Proprio il caso di Lumen gentium è emblematico. Infatti, se da un lato si può legittimamente sostenere che secondo la costituzione la Chiesa è il popolo di Dio, dall’altro non bisognerebbe dimenticare che nel documento si dice anche che il giudizio sulla “genuinità” e sull’uso “ordinato” dei carismi “appartiene a coloro che detengono l’autorità nella Chiesa”.
Quanto poi al fatto che il Concilio abbia bisogno di cent’anni per realizzarsi, siamo nel campo del totalmente opinabile. Qualcuno, con altrettanta legittimità, potrebbe infatti affermare che ci vogliano almeno cent’anni non perché il Concilio sia realizzato (qualunque cosa voglia dire), ma perché finalmente sia visto per ciò che è, con tutti i suoi limiti e le sue scelte pastorali contingenti.
Aldo Maria Valli
Il resoconto del colloquio con i confratelli è pubblicato da La Civiltà Cattolica e propone numerosi spunti di riflessione.
Raccolte dal direttore della rivista, padre Antonio Spadaro, le parole del papa spaziano su vari argomenti, a seconda delle sollecitazioni ricevute.
Centrale è la riflessione sul Concilio Vaticano II. Rispondendo infatti alla domanda di un giovane gesuita lituano (che gli dice: “Lei ha dato tanto alla Chiesa. Le voglio chiedere come noi possiamo aiutarla”), il papa risponde: “Grazie! Non so che cosa chiedere. Ma quello che oggi bisogna fare è accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Io credo che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. Ho detto tante volte che una perversione della Chiesa oggi è il clericalismo. Ma cinquant’anni fa lo aveva detto chiaramente il Concilio Vaticano II: la Chiesa è il popolo di Dio. Leggete il numero 12 della Lumen gentium. Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono cento anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa”.
Se le riflessioni di Francesco fossero riservate, non sarebbe il caso di intervenire. Ma dal momento in cui sono rese pubbliche diventano oggetto di discussione.
Dunque il papa sostiene che occorre accompagnare la Chiesa in un profondo rinnovamento spirituale. Si dice convinto che il Signore stia chiedendo un cambiamento nella Chiesa. E per spiegare in che senso deve andare il cambiamento parla di quella “perversione” che è il clericalismo.
Ecco dunque il nemico da combattere: il clericalismo. Ma che cos’è esattamente il clericalismo per Francesco?
Nel dialogo nei Paesi baltici, necessariamente sintetico, non lo spiega. Possiamo però fare riferimento ad altri suoi interventi, nei quali il clericalismo è visto come un modo sbagliato di concepire il clero. Nel clericalismo si cade quando al clero è data un’importanza superiore a quella che effettivamente gli spetta, quando i preti “si sentono superiori” rispetto ai laici. Anzi, come ama dire Francesco, rispetto al “popolo”.
I laici stessi, ha detto più volte Francesco, possono cadere nel clericalismo quando svalutano il loro ruolo e si pongono in posizione subordinata rispetto al prete, nella convinzione che egli ne sappia di più.
Caratteristica saliente del clericalismo è la superbia, l’incapacità di lasciarsi interpellare e di mettersi in discussione. Allo stesso tempo, il clericalismo favorisce e alimenta l’abuso di potere. Ecco perché Francesco arriva a identificare proprio nel clericalismo la radice degli abusi sessuali commessi da preti.
La lettura del clericalismo fatta da Francesco può essere più o meno condivisibile, ma di certo, quando il papa ne fa il principale ostacolo al “cambiamento spirituale”, non è difficile vedere un rischio, e cioè che, per combattere il clericalismo, si cada nell’opposto, in una sorta di democraticismo, secondo il quale nella Chiesa saremmo tutti uguali, e in una visione demagogica della Chiesa.
Che siamo tutti uguali, in quanto figli di Dio e fratelli in Cristo, è fuori discussione, ma nella Chiesa esistono funzioni e ruoli diversi. In particolare al sacerdote, al pastore, spetta un compito di docenza che non può essere negato o ridotto. La potestas docendi va esercitata, pena lo sbandamento e l’anarchia. Un conto è evitare l’autoritarismo, un conto è rinunciare alla potestà di insegnare, oppure ridimensionarla in nome di un presunto egualitarismo che nella Chiesa non ha cittadinanza in questi termini.
“La Chiesa è il popolo di Dio”, dice Francesco, e a supporto chiama la Lumen gentium, la seconda delle quattro costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II, dedicata alla dottrina cattolica sulla Chiesa.
Ma la Lumen gentium dice proprio così? Non sembra.
Leggiamo: “La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15)” (n. 6).
Le immagini del pastore, dell’ovile, delle pecore e del gregge richiamano la distinzione dei ruoli. Il pastore e la pecora non sono uguali. Se il pastore non facesse il pastore, il gregge andrebbe disperso e non riuscirebbe a essere messo al sicuro nell’ovile.
Sostenere che la Chiesa “è il popolo di Dio”, senza ulteriori specificazioni, suona quanto meno riduttivo. È vero, la definizione si trova anche nel Catechismo, ma non da sola. Nel Catechismo infatti leggiamo: “Le immagini dell’Antico Testamento sono variazioni di un’idea di fondo, quella del ‘popolo di Dio’. Nel Nuovo Testamento tutte queste immagini trovano un nuovo centro, per il fatto che Cristo diventa il ‘Capo’ di questo popolo, che è quindi il suo corpo. Attorno a questo centro si sono raggruppate immagini desunte sia dalla pastorizia o dall’agricoltura, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali”.
Dunque: corpo con un capo, gregge con un pastore, popolo con una guida. E se la guida non c’è, o è incerta, o non fa il proprio dovere, sono guai. Perché i lupi non aspettano altro.
A supporto della sua affermazione sulla Chiesa popolo di Dio Francesco cita il numero 12 di Lumen gentium, dove però troviamo scritto: “Il popolo santo di Dio partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll’offrire a Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15)”.
Il popolo dunque “partecipa” all’opera di Cristo. Non vi si sovrappone, né pretende di essere, di per sé, la Chiesa. Anzi, è popolo se e quando offre a Dio un sacrificio di lode “sotto la guida del sacro magistero”, come si legge più avanti.
Insomma, se prendiamo in esame da una parte il clericalismo e dall’altra la visione di Chiesa come popolo di Dio ci accorgiamo che in mezzo c’è molto: ci sono dimensioni intermedie che non possono essere ignorate. Tanto è vero che Gesù non nega che qualcuno debba guidare e insegnare. Raccomanda sì che l’autorità sia esercitata nel servizio, ma non contesta il fatto che gli apostoli abbiano autorità sugli altri.
Alla fine della sua risposta al giovane gesuita Francesco dice poi: “Sento che il Signore vuole che il Concilio si faccia strada nella Chiesa. Gli storici dicono che perché un Concilio sia applicato ci vogliono cento anni. Siamo a metà strada. Dunque, se vuoi aiutarmi, agisci in modo da portare avanti il Concilio nella Chiesa”.
Già, ma quale Concilio? Quello che si trova nei documenti conciliari, o quello strumentalizzato da chi ha voluto vedervi una sorta di rivoluzione e di rifondazione della Chiesa? Quello che, pur attento ai segni dei tempi, ribadisce il depositum fidei e la necessità che la potestas docendi sia esercitata, o quello che, con il pretesto del rinnovamento, pretende di trasformare la Chiesa in una democrazia assembleare?
Anche in questo caso bisognerebbe precisare, perché sappiamo bene a quali abusi ha portato il Concilio a causa di letture superficiali, strumentali o “pilotate” dei suoi testi.
Proprio il caso di Lumen gentium è emblematico. Infatti, se da un lato si può legittimamente sostenere che secondo la costituzione la Chiesa è il popolo di Dio, dall’altro non bisognerebbe dimenticare che nel documento si dice anche che il giudizio sulla “genuinità” e sull’uso “ordinato” dei carismi “appartiene a coloro che detengono l’autorità nella Chiesa”.
Quanto poi al fatto che il Concilio abbia bisogno di cent’anni per realizzarsi, siamo nel campo del totalmente opinabile. Qualcuno, con altrettanta legittimità, potrebbe infatti affermare che ci vogliano almeno cent’anni non perché il Concilio sia realizzato (qualunque cosa voglia dire), ma perché finalmente sia visto per ciò che è, con tutti i suoi limiti e le sue scelte pastorali contingenti.
Aldo Maria Valli
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