Il Discernimento degli Spiriti secondo S. Alfonso de’ Liguori
Introduzione
Molti conoscono le “Regole per il Discernimento degli Spiriti” contenute negli “Esercizi Spirituali” (nn. 313-336) di S. Ignazio da Loyola, ma anche S. Alfonso Maria de’ Liguori ha composto un trattato (meno conosciuto) in cui affronta, in maniera diversa, lo stesso tema.
Nel 1775 S. Alfonso scrisse un libro di teologia ascetica intitolato Condotta ammirabile della Divina Provvidenza (Napoli, Editore Paci), in cui da pagina 127 a pagina 157 affrontò la questione del Discernimento degli Spiriti, nel capitolo intitolato Consigli di sollievo e di confidenza per un’anima desolata. Colloquio tra Monsignor l’Autore e l’Anima che domanda consiglio.
Il Redentorista Padre Alfonso Amarante, nel 2008, ha curato la 10a edizione di quest’opera, con adattamento in lingua italiana corrente, pubblicata da Shalom Editrice di Camerata Picena in provincia di Ancona1.
Nel presente articolo riassumo il contenuto dell’opera alfonsiana e invito il lettore a studiare e a meditare il testo medesimo del Santo Dottore della Chiesa.
A partire da un presunto stato di fallimento spirituale di un’anima desolata S. Alfonso insegna le varie tappe della vera conversione interiore e della rinascita spirituale. Secondo il Santo le pene maggiori degli uomini non sono quelle materiali e fisiche, ma le tentazioni e le desolazioni di spirito. La tentazione è un incitamento al male, che viene dal demonio, dalla nostra natura (ferita dal peccato originale) o dal mondo, ponendoci in pericolo di perdere la grazia santificante. La desolazione spirituale è uno stato d’animo in cui si ritiene di aver persa la grazia di Dio e di essere stati abbandonati dal Signore. L’aridità sensibile è meno grave della desolazione spirituale poiché in essa non si sentono più le consolazioni spirituali, che allietavano la natura sensibile dell’anima pia. Molti Santi hanno trattato questi temi (aridità, desolazione) con terminologie diverse (per esempio S. Francesco di Sales nella Filotea o Introduzione alla vita devota le chiama aridità e desolazioni come S. Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali e come S. Alfonso nel presente trattato; S. Giovanni della Croce nell’opera Notte oscura le chiama “notte dei sensi e notte dello spirito”), ma la realtà significata è la medesima: la notte dei sensi corrisponde all’aridità e la notte dello spirito alla desolazione2.
Il testo di S. Alfonso
Il Santo Dottore distingue l’aridità volontaria da quella involontaria. La prima avviene quando la persona che la prova commette peccati veniali deliberali e volontari e non cerca di correggersi. Questa più che aridità volontaria dovrebbe chiamarsi tiepidezza. L’aridità vera e propria è quella involontaria che si sperimenta quando la persona cerca di santificarsi, si guarda bene dal commettere peccati di proposito deliberato, prega assiduamente, frequenta i sacramenti, ma nonostante tutto avverte aridità di spirito.
Il Santo affronta innanzitutto la questione degli scrupoli e spiega che l’anima la quale ne soffre si confessa e riconfessa, ma teme di non aver confessato tutto e resta sempre inquieta; si vede assalita da mille tentazioni contro la fede, la castità, la superbia e resta con un certo timore di avervi consentito. Il Santo la sprona ad aver fiducia e a prestar sempre obbedienza al direttore spirituale, evitando di affidarsi al proprio giudizio; nelle cose spirituali e nei dubbi di coscienza è importante obbedire al padre spirituale. Il disagio degli scrupoli è un vero tormento per le anime pie, molto più penoso delle malattie.
L’anima risponde che pur obbedendo al direttore spirituale non prova devozione o consolazione sensibile. Il Santo ribatte che non bisogna cercare le dolcezze o le consolazioni sensibili, ma la volontà di Dio. Infatti ci si può santificare pure senza provare consolazioni sensibili in questa vita, poiché la vera virtù non consiste nel sentirla, ma nel volerla. Se un’anima vuol confidare, anche se non prova nessuna confidenza sensibile, è già nella virtù di fiducia. Così è per l’amore verso Dio. Esso sta nella volontà. Se uno vuol amare Dio già lo ama senza volere il piacere di “sentire” o sperimentare l’amore. Certe volte è Dio medesimo che non vuole che noi avvertiamo la consolazione di provare la virtù in noi per farci avanzare di più nella vita spirituale. Infatti nell’aridità si agisce solo per amor di Dio e non per amore delle nostre consolazioni. Se Dio vuole che anche le persone, che vivono ostinate nel peccato si convertano e tornino a lui, come potrebbe abbandonare una persona che vuole amarlo?
I due timori che assalgono maggiormente le anime pie, riprende S. Alfonso, sono quelli di non salvarsi e di non essere state perdonate da Dio. Ora, spiega il Santo, se è vero che è il Signore che ci converte e ci salva, è pur vero che noi dobbiamo cooperare con lui e impegnarci nella nostra continua ascesa spirituale. Dio non lascerà di salvarci, egli non abbandona se prima non è stato abbandonato da noi. Perciò se ci proponiamo di non volerlo abbandonare dobbiamo star sicuri che lui non ci abbandonerà mai e se per disgrazia nostra dovessimo cader nel peccato, torniamo a lui col cuore pentito e lui ci perdonerà. Il pensiero secondo cui Dio creerebbe delle anime solo per condannarle all’inferno senza nessuna loro colpa è una bestemmia di Lutero e di Calvino.
Dunque, prosegue il Santo, Dio abbandona solo gli ostinati nel male, che rifiutano di convertirsi, ossia coloro che vogliono vivere nel peccato. Perciò non dobbiamo mai dire che Dio ci ha abbandonati. Quando una persona cerca di amare Dio, allora il Signore non può non amarla. Se certe volte Dio “si nasconde” a coloro che ama, lo fa per il loro maggior bene spirituale: il desiderio di avere la sua grazia e di non perderla mai. Infatti nessuna cosa avvicina noi a Dio e avvicina il Signore al nostro cuore quanto la desolazione perché nello stato di desolazione gli atti di uniformità alla volontà di Dio sono più perfetti e più puri. Più grande è la desolazione e più grande è l’umiltà.
Purtroppo le persona scrupolose, continua S. Alfonso, vedono Dio come un tiranno che incute ai sudditi solo ansia e paura. Quindi temono che a ogni loro parola, a ogni loro pensiero Dio si faccia prendere dalla collera e le mandi all’inferno. No, Dio non ci priva della sua grazia, se non quando noi, a occhi aperti, deliberatamente lo disprezziamo e gli voltiamo e spalle.
Conclusione
Aridità: cause e rimedi
Padre Alfonso Amarante scrive: “Le cause dell’aridità possono essere di natura psicofisica, disturbi di carattere psichico e nervoso o di malferma salute; oppure di natura morale, per forme inadatte di preghiera, intensa attività esteriore, grande attenzione data alla sensibilità, vana compiacenza nella devozione sensibile (golosità spirituale), tiepidezza, deliberata rinuncia alla santità. L’aridità è una specie di stanchezza sia fisica che mentale e a volte può essere provocata da Dio stesso. In questo caso è una prova per saggiare la fedeltà di una persona, il suo amore. Sottraendole la devozione sensibile Dio la mette nella condizione di confidare e riposare unicamente in lui. I rimedi sono i seguenti: se l’aridità è provocata da infermità, si deve curare maggiormente il corpo, evitare affaticamenti, concedersi più riposo. Se proviene da rilassamento spirituale, bisogna rinnovare il desiderio di santità, rinvigorire l’ascesi. Se l’aridità è provocata da Dio, si richiedono atti di uniformità alla sua volontà. Tale prova la sperimentano un po’ tutti. Tutti, prima o poi, attraversiamo il deserto della preghiera arida per giungere, poi, a un’unione più intima e a una preghiera più profonda. L’aridità radica nell’umiltà. La persona, immersa nella notte oscura del senso, prende coscienza dei propri limiti e ricorre più spesso a Dio” (S. Alfonso Maria de’ Liguori, Solitudine e aridità spirituale, Introduzione di Alfonso Amarante, cit., p. 17-18).
La desolazione: cause e rimedi
“La desolazione è un’inquietudine dovuta a vari tipi di agitazione e tribolazione. La persona desolata vive sfiduciata, senza speranza, senza amore. […]. I maestri di vita spirituale hanno individuato tre tipi di desolazione:
1°) Punitiva: nasce quando Dio si allontana da una persona;
2°) Educativa: è una correzione paterna da parte di Dio. Scaturisce spesso da lentezza e pigrizia nella vita spirituale.
3°) Unitiva: porta alla retta coscienza che tutto è dono di Dio” (cit., pp. 19-20).
d. Curzio Nitoglia
1Il libro si intitola Solitudine e aridità spirituale (127 pagine, 5 euro, Codice 85 93) e può essere richiesto all’Editore col numero verde 800 03 04 05 o via mailordina@editriceshalom.it
2Cfr. A. Royo Marìn, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, VI ed. 1965,La notte del senso, pp. 506520; La notte dello spirito, pp. 522-526; A. Tanquerey,Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma-Tournai-Parigi, Desclée, 1928, Notte dei sensi, pp. 1420-1434; Notte dello spirito, pp. 1464-1468.
Elogio della nostalgia
Il libro si intitola Nostalgia. Going home in a homeless world. È in inglese e l’ha scritto il professor Anthony Esolen, docente di letteratura al Thomas More College of Liberal Arts di Merrimack, nel New Hampshire.
Dico subito che non l’ho letto, ma che ho solo visto la recensione che padre John Zuhlsdorf gli ha dedicato nel suo blog (http://wdtprs.com/blog/2018/10/book-received-nostalgia-going-home-in-a-homeless-world-by-anthony-esolen/), tuttavia il titolo è bastato. Nostalgia: andare a casa in un mondo senza casa: non è proprio questa l’esigenza che tanti di noi avvertono, all’interno della Chiesa cattolica? Tornare a casa, in una casa di nuovo accogliente, una casa che sia veramente la tua, diversa da questa Chiesa che invece, se solo osi far notare che qualcosa non va, ti fa sentire non a casa, ma straniero in patria.
Ripeto, non ho letto il libro e mi limito a prendere spunto dal titolo, che mi ha colpito. Stando a quel che dice il padre Zuhlsdorf, l’opera non è apertamente cattolica, ma è profondamente cattolica la visione del mondo che esprime. Sta di fatto che quella parola, “nostalgia”, secondo me merita oggi una riflessione.
“Sei un nostalgico” è una delle numerose accuse che mi sento rivolgere ogni volta che parlo della Chiesa “di una volta”, dove mi sentivo a casa. Una Chiesa nella quale ti potevi fidare del parroco e del vescovo, senza temere che da un giorno all’altro potessero inventarsi qualche novità ben poco cattolica o potessero mettersi a parlare come esponenti delle Nazioni Unite o come sindacalisti o ambientalisti. Una Chiesa nella quale non si parlava mai di accoglienza e di inclusività, ma era veramente accogliente e inclusiva, nei fatti, perché era chiara nella sua proposta e dunque onesta. Una Chiesa che non faceva nulla, ma proprio nulla, per apparire amica e simpatica, e per questo era una vera Madre, che ti metteva di fronte alle tue responsabilità. Una Chiesa che parlava del peccato e non di non meglio precisate “fragilità”. Una Chiesa che parlava del giudizio divino e non di una generica misericordia. Una Chiesa che raccomandava il timor di Dio e non era tutta gioia e letizia e sorrisi e canti e balli, ma trasmetteva la vera gioia insegnando l’adesione all’eterna legge divina.
Nostalgia, sì. Tanta nostalgia. La provo sempre di più. E non ho nessun problema a definirmi nostalgico, anche se so bene che in Italia la parola ha una marcata connotazione politica che la rende ancora meno praticabile.
Nell’etimologia della parola nostalgia c’è il riferimento all’àlgos, al dolore, mentre nòstos significa il tornare al paese, a casa. La nostalgia è dunque quel dolore lancinante che ti prende quando sei lontano da casa e avverti il bisogno di tornarci. È nostalgia di ciò che conosci bene, delle cose e delle persone tra le quali sei cresciuto. È nostalgia di un mondo del quale ti fidavi e del quale ti sentivi parte.
Ma nella Chiesa di oggi quanto possiamo fidarci? E ci sentiamo veramente a casa?
Sento già l’accusa successiva: in quanto nostalgico, il sottoscritto sarebbe anche tradizionalista, nel senso di legato a un concetto malato di tradizione, come di cosa ferma, immobile, e dunque morta.
Bene, mi piace rispondere che, in quanto cattolico, non sono, né posso essere, storicista. Sicché non cedo alla tentazione, tanto diffusa oggi, anche nella Chiesa, di sostenere che per attuare l’esperienza di fede occorre assumere la storia, e dunque il cambiamento, rigettando la verità assoluta e definitiva. Certo, la rivelazione divina passa attraverso la storia, ma la storia, ovvero il mondo, non è l’unico orizzonte. Il cattolico ha un altro orizzonte, più alto. Un orizzonte soprannaturale.
Ho dunque nostalgia anche di una Chiesa che insegnava il soprannaturale e non se ne vergognava. Una Chiesa che parlava dei Novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso) e non si poneva problemi di linguaggio politicamente corretto. Una Chiesa che tuonava contro il peccato chiamandolo con il suo nome e ricordando che il peccato può essere mortale, il che significa che, in mancanza di pentimento, condanna l’anima alla dannazione eterna.
Nostalgia, sì, tanta. Nostalgia delle liturgie oneste, pulite, non sguaiate, non “strane”, non animate, non oltraggiate. Nostalgia di tabernacoli visibili, riconoscibili, e non nascosti, non camuffati. Nostalgia di preti vestiti da preti. Di suore vestite da suore. Di laici che non vanno all’ambone a leggere i testi sacri indossano calzoncini corti e canottiere. Nostalgia di certe forme che erano sostanza, perché rimandavano a precisi significati teologici. Nostalgia di buona educazione religiosa. Nostalgia di quella gravitas, di quella dignità e serietà che era patrimonio dei chierici ma anche dei laici, prima dell’impazzimento.
Certo, ci può essere anche una falsa nostalgia, o una nostalgia distorta, per una presunta età dell’oro che in realtà non è mai esistita e che ora viene costruita dalle nostre menti a scopo consolatorio. Ma non voglio cadere in questa trappola. Quella di cui ho nostalgia non è una mitica età dell’oro. No, è la mia casa. Una casa che ho conosciuto bene, ma che è quasi scomparsa.
Padre John Zuhlsdorf spiega che nel libro del professor Esolen si parla anche di Ulisse e della dea Calipso, che cercò di sedurlo, ma lui seppe resistere, perché pensava a Itaca.
E noi pensiamo mai alla nostra Itaca?
Aldo Maria Valli
Dico subito che non l’ho letto, ma che ho solo visto la recensione che padre John Zuhlsdorf gli ha dedicato nel suo blog (http://wdtprs.com/blog/2018/10/book-received-nostalgia-going-home-in-a-homeless-world-by-anthony-esolen/), tuttavia il titolo è bastato. Nostalgia: andare a casa in un mondo senza casa: non è proprio questa l’esigenza che tanti di noi avvertono, all’interno della Chiesa cattolica? Tornare a casa, in una casa di nuovo accogliente, una casa che sia veramente la tua, diversa da questa Chiesa che invece, se solo osi far notare che qualcosa non va, ti fa sentire non a casa, ma straniero in patria.
Ripeto, non ho letto il libro e mi limito a prendere spunto dal titolo, che mi ha colpito. Stando a quel che dice il padre Zuhlsdorf, l’opera non è apertamente cattolica, ma è profondamente cattolica la visione del mondo che esprime. Sta di fatto che quella parola, “nostalgia”, secondo me merita oggi una riflessione.
“Sei un nostalgico” è una delle numerose accuse che mi sento rivolgere ogni volta che parlo della Chiesa “di una volta”, dove mi sentivo a casa. Una Chiesa nella quale ti potevi fidare del parroco e del vescovo, senza temere che da un giorno all’altro potessero inventarsi qualche novità ben poco cattolica o potessero mettersi a parlare come esponenti delle Nazioni Unite o come sindacalisti o ambientalisti. Una Chiesa nella quale non si parlava mai di accoglienza e di inclusività, ma era veramente accogliente e inclusiva, nei fatti, perché era chiara nella sua proposta e dunque onesta. Una Chiesa che non faceva nulla, ma proprio nulla, per apparire amica e simpatica, e per questo era una vera Madre, che ti metteva di fronte alle tue responsabilità. Una Chiesa che parlava del peccato e non di non meglio precisate “fragilità”. Una Chiesa che parlava del giudizio divino e non di una generica misericordia. Una Chiesa che raccomandava il timor di Dio e non era tutta gioia e letizia e sorrisi e canti e balli, ma trasmetteva la vera gioia insegnando l’adesione all’eterna legge divina.
Nostalgia, sì. Tanta nostalgia. La provo sempre di più. E non ho nessun problema a definirmi nostalgico, anche se so bene che in Italia la parola ha una marcata connotazione politica che la rende ancora meno praticabile.
Nell’etimologia della parola nostalgia c’è il riferimento all’àlgos, al dolore, mentre nòstos significa il tornare al paese, a casa. La nostalgia è dunque quel dolore lancinante che ti prende quando sei lontano da casa e avverti il bisogno di tornarci. È nostalgia di ciò che conosci bene, delle cose e delle persone tra le quali sei cresciuto. È nostalgia di un mondo del quale ti fidavi e del quale ti sentivi parte.
Ma nella Chiesa di oggi quanto possiamo fidarci? E ci sentiamo veramente a casa?
Sento già l’accusa successiva: in quanto nostalgico, il sottoscritto sarebbe anche tradizionalista, nel senso di legato a un concetto malato di tradizione, come di cosa ferma, immobile, e dunque morta.
Bene, mi piace rispondere che, in quanto cattolico, non sono, né posso essere, storicista. Sicché non cedo alla tentazione, tanto diffusa oggi, anche nella Chiesa, di sostenere che per attuare l’esperienza di fede occorre assumere la storia, e dunque il cambiamento, rigettando la verità assoluta e definitiva. Certo, la rivelazione divina passa attraverso la storia, ma la storia, ovvero il mondo, non è l’unico orizzonte. Il cattolico ha un altro orizzonte, più alto. Un orizzonte soprannaturale.
Ho dunque nostalgia anche di una Chiesa che insegnava il soprannaturale e non se ne vergognava. Una Chiesa che parlava dei Novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso) e non si poneva problemi di linguaggio politicamente corretto. Una Chiesa che tuonava contro il peccato chiamandolo con il suo nome e ricordando che il peccato può essere mortale, il che significa che, in mancanza di pentimento, condanna l’anima alla dannazione eterna.
Nostalgia, sì, tanta. Nostalgia delle liturgie oneste, pulite, non sguaiate, non “strane”, non animate, non oltraggiate. Nostalgia di tabernacoli visibili, riconoscibili, e non nascosti, non camuffati. Nostalgia di preti vestiti da preti. Di suore vestite da suore. Di laici che non vanno all’ambone a leggere i testi sacri indossano calzoncini corti e canottiere. Nostalgia di certe forme che erano sostanza, perché rimandavano a precisi significati teologici. Nostalgia di buona educazione religiosa. Nostalgia di quella gravitas, di quella dignità e serietà che era patrimonio dei chierici ma anche dei laici, prima dell’impazzimento.
Certo, ci può essere anche una falsa nostalgia, o una nostalgia distorta, per una presunta età dell’oro che in realtà non è mai esistita e che ora viene costruita dalle nostre menti a scopo consolatorio. Ma non voglio cadere in questa trappola. Quella di cui ho nostalgia non è una mitica età dell’oro. No, è la mia casa. Una casa che ho conosciuto bene, ma che è quasi scomparsa.
Padre John Zuhlsdorf spiega che nel libro del professor Esolen si parla anche di Ulisse e della dea Calipso, che cercò di sedurlo, ma lui seppe resistere, perché pensava a Itaca.
E noi pensiamo mai alla nostra Itaca?
Aldo Maria Valli
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