Si sente dire sovente che le tre religioni – la cattolica, l’ebraica e la musulmana – sono le tre «religioni del libro». La definizione è profondamente errata per almeno due motivi. Il primo è che anche altre forme di vita religiosa come il buddismo (che conta milioni e milioni di aderenti), l’induismo e tante altre, hanno i loro libri sacri, testi di preghiera, eccetera. Quindi le religioni del libro non sono solo tre, ma molte di più. Il secondo motivo, più sostanzioso, contesta e abbatte chi mette sullo stesso piano la Bibbia, il Corano e il Talmud (che è il libro sacro degli ebrei), come se avessero un’unica fonte di ispirazione. Ciò è semplicemente falso.
Il Corano non è un libro sacro, nel senso che non viene da Dio. Hallà non è Dio: è un’invenzione di Maometto. Hallà non è il “Padre” della Santissima Trinità, semplicemente perché «chi nega il Figlio non possiede nemmeno il Padre» (1 Gv 2,23). Il Corano è stato scritto da uomini, anche se Maometto afferma di averlo ricevuto direttamente dall’Arcangelo Michele. In realtà quasi nessun cattolico che parla dell’Islam ha mai letto il Corano; se lo facesse si troverebbe davanti a numerose sorprese. Esso infatti non è che una continua esaltazione e giustificazione del profeta Maometto, che fa sempre tutto bene, che capisce tutto bene, che poi vuole istaurare un sistema politico avente ben poco di sacro o di religioso. Chi vuole farsene un’idea, senza doversi sorbire la fatica immane di leggere tale testo, può dare un’occhiata all’istruttivo Il Corano senza veli di Magdi Cristiano Allam (Edizione MCA Comunicazioni). Durante e dopo la lettura di questo libretto si avrà la sensazione di trovarsi a miriadi di chilometri lontani dalla sacralità della rivelazione trinitaria di Dio, dall’amore per i nemici, dalla bontà e mitezza di Dio, dalla sua divina signoria, dal rispetto per gli uomini e da tutte le cose che trasudano dal Vangelo e dalla vita dei santi. Siamo davvero su piani e mondi diversi.
Anche sull’ebraismo vi è in giro parecchia ignoranza. Molti pensano che tra noi e gli ebrei vi sia in comune l’Antico Testamento, cosa che ci fa in qualche modo figli di un solo Padre. Sbagliato. Gli ebrei attuali non riconoscono affatto il nostro Antico Testamento; essi hanno come testo di riferimento il Talmud, libro scritto dopo la morte e Resurrezione del Signore Gesù, che sarebbe la loro interpretazione dell’Antico Testamento. Anch’essi hanno un Padre senza Figlio, ossia non hanno nemmeno il Padre. La lettura del Talmud in questo senso riserverebbe pure molte sorprese ad un cattolico. Basti questo esempio: «Solo voi israeliti – è scritto nel Talmud – siete chiamati uomini. Le altre nazioni del mondo non meritano il nome di uomini, ma di bestie».[1] Secondo il Talmud, gli ebrei devono conquistare il mondo, non in senso spirituale, ma materiale, pratico: tutte le altre nazioni dovranno essere sottoposte materialmente ad Israele. La religione degli osservanti ebrei quindi è molto lontana da quella di Abramo e Mosè, e abissalmente lontana dal cattolicesimo di Dio Padre-Figlio-Spirito Santo. Se gli ebrei attuali leggessero l’Antico Testamento con fede, arriverebbero alla rivelazione cristiana, come scrive san Paolo: la Legge è un pedagogo che conduce a Cristo (Gal 3,24). Essi però non vogliono affatto riconoscere Gesù come Dio, quindi rigettano anche tutto quello che conduce a Lui.
Come poter dire dunque che abbiamo Dio in comune? Essi ripudiano radicalmente Gesù come figlio di Dio, lo negano in modo chiaro. Vale quindi anche per loro quanto detto sopra: «chi nega il Figlio non possiede nemmeno il Padre».
La logica ci porta quindi a concludere che di queste tre religioni del libro, due non ascoltano e non accolgono Dio per quello che Egli è. E non lo diciamo noi perché siamo più bravi: lo dice Dio stesso: vi è un solo Dio, il cui nome è Padre-Figlio-Spirito Santo, e chi l’ha rivelato è uno solo, Gesù: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui l’ha rivelato» (Gv 1,18). Al di fuori di Dio Trinità non vi è alcun Dio, occorre dirlo. Se no non crediamo nemmeno noi. Dio non si può “smembrare”: solo il Padre senza Figlio e senza Spirito Santo.
Per essere poi più precisi, è improprio anche definire il cattolicesimo una religione, se con questa si intende un insieme di riti, di atteggiamenti, di comportamenti. Il cattolicesimo è una rivelazione. È Dio che ha parlato, si è dato, si è fatto Carne, ha offerto sé stesso. Chi lo accoglie diventa figlio di Dio (Gv 1,12) e vive secondo i dettami della nuova legge, che è la legge dello Spirito Santo. La quale legge non ha niente a che vedere con la conquista del mondo come vogliono gli ebrei, non c’entra niente con l’imposizione forzata alle genti di un sistema monolitico come è la legge coranica. Vivere secondo lo Spirito di Dio significa vivere la vita di Dio: ogni uomo, singolarmente, si trasforma pian piano in amore, in compassione, in servizio, è purificato dal male; significa passare da questa terra anelando e desiderando il Cielo, che è la nostra vera Patria. La vera vita non è quaggiù, non è la conquista del potere per comandare sugli altri Stati, ma la vita stessa del Cristo, mite e umile, e al tempo stesso tremendamente potente. La vita dello Spirito Santo è la vittoria definitiva su Satana. Poi è chiaro che nel cattolicesimo vi è un culto, un sistema, ci sono le chiese, i catechismi, i modi di vivere cristiani. Ma la radice è sempre il dono dello Spirito Santo, che nel Battesimo e nell’Eucaristia (e nei sacramenti tutti) rende possibile all’uomo la partecipazione alla vita divina. Quest’ultima realtà è, ribadiamo, totalmente rinnegata sia dall’ebraismo che dall’Islam.
Le religioni che vi sono nel mondo che cosa devono fare? Rimanere quello che sono? Non la pensava così san Paolo, non ha mai pensato così la Chiesa. Tutte le genti sono chiamate a convertirsi all’unico Dio, uscendo dai loro sistemi e aderendo nella fede a Gesù, unico Salvatore. Quando predicò la prima volta ad Atene, l’apostolo delle genti affermò chiaramente: «Dopo essere passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi» (At 17,30). Non si tratta di un’opinione, ma di un ordine. Per il nostro bene, per il bene di tutti, per la salvezza eterna e perché la vita della terra trovi per ogni uomo il suo senso e significato. E che cosa ordina Dio? Di ravvedersi, ossia di cambiare rotta, cercare e trovare la verità che – continua san Paolo nel discorso agli ateniesi – è semplicemente il Cristo risorto. Egli è il vero Dio e la vita eterna (1 Gv 5,20).
Semplice, elementare. Questo è il nostro compito e la nostra missione.
[1] Cit. in: Maurice Pinay, Complotto contro la Chiesa, Ediz. Effedieffe, Proceno (VT) 2015.
P. Amerigo Berti
Il nodo che da duemila anni scandalizza gli ebrei: Gesù era un bestemmiatore oppure il Figlio di Dio?
«Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada» (Mt 10, 34).
La Parola di Dio è una parola foriera di pace, di amore e di perdono: su questo nessuno, cristiano o no, deve avere dei dubbi. Alla nascita di Gesù gli angeli hanno cantato: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama»[1] (Lc 2, 14). Lo stesso Gesù, prima di congedarsi dai discepoli, disse loro: «Vi Lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14, 27); in punto di morte invocò il perdono del Padre per i Suoi aguzzini e per il popolo che, dopo averlo tante volte ascoltato, ora (nel terribile momento della morte) lo scherniva e lo irrideva (Lc 23, 34 ss) e successivamente, apparendo da Risorto ai discepoli, ripeté per ben due volte: «Pace a voi!» (Gv 20, 19; 21, 26).
Con la Sua vita e con la Sua morte, Gesù ha testimoniato lo shalom, quella Pace alla quale il popolo ebraico aveva sempre anelato, tanto da inserire questa parola anche nel saluto quotidiano. Ma Gesù ha insegnato che essa può essere raggiunta solo seguendo Lui, che è Via, Verità e Vita e percorrendo una strada che non è certo una piacevole passeggiata, nella quale anzi è spesso molto difficile camminare perché impone scelte ben precise, dalle quali non si può tornare indietro. Non per nulla il neonato Gesù, al momento della Sua presentazione al Tempio, fu subito riconosciuto dal vecchio Simeone, ispirato dallo Spirito Santo, come quel «segno di contraddizione» che avrebbe rivelato i pensieri segreti di molti cuori, arrecando un infinito dolore anche a Sua Madre, quella spada che Le avrebbe trafitto l’anima (Lc 2, 35).
Si può pensare allora che Gesù volesse fomentare le discordie, come forse avevano sperato quei rivoluzionari ebraici che volevano scuotere il dominio romano in Palestina? No davvero, ma nel Discorso della Montagna Egli usa un’espressione iperbolica che effettivamente scandalizzò molti di coloro che lo ascoltavano e scandalizza tuttora il popolo ebraico: «Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10, 35 – 36). Le Sue parole erano talmente dirompenti da provocare disorientamento anche nei suoi parenti più stretti (Mc 3, 31). Si può quindi comprendere perché il Talmud babilonese abbia accusato Gesù di essere «un seduttore e un corruttore di Israele».
Che significato hanno allora queste parole così enigmatiche? Matteo dice espressamente che il popolo «si spaventò» per il modo di insegnare di Gesù perché Lui insegnava “come uno che ha autorità e non come i loro scribi” (Mt 7, 28)[2]. In altri termini l’uomo Gesù, quel Maestro, osava parlare con l’autorità di Dio come nessun altro Rabbi, prima di Lui, aveva mai osato fare e allora delle due l’una: o bestemmiava Dio rendendosi simile a Lui, oppure era davvero Dio.
Questo è il nodo in cui incappa da duemila anni il popolo ebraico senza riuscire a scioglierlo, ma rimanendone sempre scandalizzato. Mi viene in mente un esempio perfettamente rappresentativo di questo dramma che riguarda una grande Santa del ’900, proclamata Dottore della Chiesa da S. Giovanni Paolo II: Santa Teresa Benedetta della Croce, nata Edith Stein, di famiglia ebraica osservante, morta ad Auschwitz. Quando, dopo aver studiato le opere di Santa Teresa d’Avila, ella decise di diventare cattolica e di entrare nel Carmelo, trovò una grande opposizione in famiglia, tanto che la sua stessa madre, ebrea osservante, le chiese addolorata: “Sicuramente Gesù è stato un grande Maestro e un uomo molto buono, ma perché ha voluto proclamarsi Dio?” Questa è l’incomprensione – che io, da cristiana, vivo come un vero dramma – ed è stata ampiamente sviluppata da uno studioso ebreo, il Rabbino americano Jacob Neusner in un suo libro, Un Rabbino parla con Gesù, che mi ha profondamente coinvolto emotivamente, ma anche profondamente addolorato, per i motivi che spero emergano con chiarezza man mano che procedo nella mia riflessione[3].
Rav Neusner, uomo profondamente religioso, amico sincero e rispettoso di tutti i cristiani, cerca con il cuore in mano il dialogo con Gesù; immagina di mescolarsi al popolo che Lo ascolta parlare nel Discorso della Montagna, Gli pone delle domande; ne ascolta attentamente le risposte e ci riflette sopra; confronta le Sue parole con la Torah e con le tradizioni rabbiniche; si commuove nel constatare la purezza e la grandezza di quelle parole. Tuttavia, egli non può fare a meno di trovare inaccettabile la sostanza del Discorso della Montagna tanto che, alla fine e pur accettando l’alterità del messaggio di Gesù, decide di non seguirLo e preferisce rimanere fedele a quello che lui chiama l’«Eterno Israele».
Il libro di Rav Neusner è stato molto apprezzato e ampiamente commentato da Benedetto XVI nel suo libro Gesù di Nazaret[4], che mi ha molto aiutato nella comprensione della spiritualità ebraica e ad esso io mi rifaccio in questa mia riflessione. Perché gli ebrei, compreso Neusner, «si spaventano» ascoltando il messaggio di Gesù? Perché Gesù mette se stesso al centro di quel messaggio e, pur senza abrogarla, mette in secondo piano la Torah. Infatti, al giovane ricco che Gli chiede cosa deve fare per entrare nella vita eterna, Gesù raccomanda di seguire la Legge, ma precisa che se vuole essere santo deve vendere tutti i suoi beni, dare il ricavato ai poveri e seguire Lui, Gesù (Mt 19, 16 ss). La Torah, anche se utile, non è più sufficiente per raggiungere la santità: bisogna seguire Gesù.
Ma il messaggio di Gesù scuote anche altri due comandamenti basilari sacri per Israele e induce Neusner a temere che Egli voglia indurlo a trasgredirli: la santificazione del sabato e l’amore per i genitori. Si dice comunemente che Gesù, dicendo: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), intende relativizzare il giorno in cui Dio «si riposò» suggerendone un’interpretazione più ragionevole che potesse tener conto di ogni situazione. Fino a qui Neusner può anche trovarsi d’accordo, perché riconosce che spesso gli Ebrei esageravano allora ed esagerano oggi nella loro interpretazione strettamente legalistica del sabato. Il problema sorge quando Gesù risponde a chi gli rimprovera che i suoi affamati discepoli raccolgono di sabato le spighe di grano per mangiarle. Forse che Davide e i suoi compagni non avevano mangiato, nella casa di Dio, i pani dell’offerta che soltanto ai sacerdoti era lecito mangiare? Anche la Legge dice che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio infrangono il sabato e tuttavia sono senza colpa (Mt 12, 1 ss). «Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2, 28).
Quest’ultima frase è quella che «spaventa» Rav Neusner, il quale commenta: «Egli e i suoi compagni hanno compiuto di sabato quell’azione perché essi hanno preso il posto dei sacerdoti nel tempio: il luogo sacro è cambiato e si identifica con il gruppo formato da Gesù e dai suoi discepoli» (pag. 103).
Perché allora l’osservanza del sabato era ed è ancora oggi così importante per il popolo ebraico? Rav Neusner lo spiega chiaramente: poiché il Dio Creatore dell’universo si era «riposato» il settimo giorno della Creazione, la Torah proclama «santo» quel giorno e, imponendo al popolo di imitare Dio, fa di esso un popolo «santo» e «salvo».
A questo punto nella mente di una semplice cattolica “bambina” si fa strada un’obiezione motivata dal ricordo di un altro episodio evangelico; quello di Giovanni Battista, il precursore del Cristo, l’ultimo dei Profeti venuti prima del Messia il quale, senza peli sulla lingua, smorza l’eccessiva sicurezza dei suoi connazionali nel ritenersi «santi» e «salvi» di diritto, perché figli di Abramo, chiamandoli «razza di vipere» e proclamando che Dio può far nascere i figli di Abramo anche dalle pietre (Lc 3, 7 – 8). Allora?
Rav Neusner riflette anche sulle parole che precedono l’episodio del sabato: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Mt 11, 28 – 30). Queste pericopi sono state spesso interpretate in senso moralistico, come se Gesù avesse voluto soltanto addolcire la rigidità della Legge. Ma Gesù non ha mai detto che la Sua sequela sarebbe stata comoda e facile; il significato è molto diverso e Neusner lo percepisce chiaramente e lo rifiuta. Quelle parole hanno un profondo significato teologico, anzi addirittura cristologico. Gesù si dichiara Padrone del Sabato perché «È DIO» e questo Neusner non può accettarlo, come non lo accettò la mamma di Santa Teresa Benedetta della Croce.
E’ facile comprendere cosa sia che disturbi il Rabbino Neusner nel messaggio di Gesù riguardo al sabato: il sabato è sacro perché è uno degli elementi essenziali che tengono unito Israele in quanto Israele. Se Gesù ne diventa il Padrone, allora esso perde la sua funzione sociale con conseguenze imprevedibili per la vita concreta del Popolo di Dio e non può non preoccupare chi ha a cuore il destino dell’ «Eterno Israele». Ma nell’ottica cristiana la Chiesa ha preso il posto dell’«Eterno Israele» e la Resurrezione di Gesù, avvenuta «il primo giorno della settimana», ha fatto sì che questo divenisse «il giorno del Signore» accogliendo gli elementi essenziali del sabato dell’Antico Testamento.
L’altra affermazione di Gesù che «spaventa» Neusner, perché sembra mettere in dubbio la sacralità familiare, è quella che riconosce come «fratello, sorella e madre» solo colui che fa la volontà del Padre che è nei cieli (Mt 12, 46 – 50). E allora lui si domanda: «Gesù non mi insegna a violare uno dei due comandamenti che riguardano l’ordine sociale?». Certo, apparentemente sembra proprio così, perché la Torah regola dettagliatamente il comportamento che il popolo deve tenere in guerra e in pace, negli affari, in politica e nella vita quotidiana, familiare e sociale e la comune osservanza di quelle norme fa del Popolo di Israele una sola famiglia: in Gesù non si trova nulla di tutto ciò. Ciò che turba profondamente Neusner «è che, seguendo Gesù, abbandonerò la mia casa e la mia famiglia, mentre la Torah mi ha imposto sacre responsabilità proprio verso la casa, verso la famiglia e anche verso la comunità». Egli riconosce onestamente che anche i discepoli della Torah erano chiamati dai maestri a lasciare casa e famiglia per dedicarsi completamente allo studio della Legge; tuttavia c’è una differenza fondamentale. Secondo Gesù, non è l’osservanza della Torah che unisce tutti, ma l’adesione a Gesù stesso, alla Sua persona. Santa Teresa d’Avila, maestra e ispiratrice di Edith Stein, scrisse: «I parenti sono il mondo che più ci si appiccica addosso e che è più difficile staccare. Per questo fanno bene coloro che vanno lontano dal loro paese, se ciò può aiutarli. Non credo però che la questione consista in una lontananza fisica, bensì nel fatto che l’anima si unisca risolutamente al buon Gesù nostro Signore, nel quale, trovando tutto dimentica tutto, anche se l’allontanarci molto ci sarà di aiuto, finché non avremo compreso questa verità»[5].
Ancora una volta Rav Neusner deve riconoscere quanto sia personale il nocciolo della predicazione di Gesù: esso ruota intorno a Lui e non intorno al suo messaggio. Dire: «Seguimi» è il contrario di dire: «Segui la Torah». Questa, applicando il Decalogo, impone l’onore per il padre e la madre, l’obbedienza e la costante familiarità con i genitori, cardini dell’ordine sociale ebraico; Gesù è arrivato a dire a dire: «Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me», quindi Lui è l’unico modello. Perciò Neusner conclude: «Comprendo, infatti, che solo Dio può esigere da me quello che sta chiedendo Gesù» (pag. 86).
Solo Dio, secondo Neusner, quindi non Gesù. Infatti egli sottolinea con acribia che se leggiamo la Torah insieme a tutto il canone dell’Antico Testamento, Profeti, Salmi e Libri sapienziali, comprendiamo che Israele non esiste solo per se stesso, ma per diventare luce per i popoli; anche l’Egitto e Babilonia adoreranno il Dio di Israele che sarà riconosciuto e adorato da tutti i popoli come l’unico vero Dio. Allora, si sostiene da parte ebraica, Gesù non può essere stato il vero Messia perché non ha portato la pace universale e non ha vinto la miseria nel mondo, ciò che ci si aspettava dal Messia. Benedetto XVI risponde che «Egli ha portato il Dio di Israele ai popoli, cosicché ora tutti i popoli Lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la Parola del Dio Vivente»[6]. Gesù ha creato una nuova universalità, una nuova “famiglia”, la Chiesa, basata sulla comunione di tutti gli uomini con Gesù nella volontà di Dio, quindi Egli non ha affatto svalutato il IV Comandamento, ma lo ha potenziato elevandolo a un livello più alto che non esclude nulla di quella obbedienza cui mirava la Torah.
Infatti, nella nuova famiglia fondata da Gesù le singole disposizioni sociali e giuridiche della Torah non possono più essere universalmente valide, perché la Torah era diretta soltanto ad Israele, un popolo che, da un lato, è ben definito attraverso la genealogia e il susseguirsi delle generazioni, dall’altro, è portatore di una promessa universale. S. Paolo, nella Lettera ai Galati, ha visto in tutta la sua chiarezza che applicare letteralmente a tutti i popoli l’ordinamento sociale di Israele avrebbe significato negare nei fatti l’universalità della comunità di Dio in crescita: «Siete stati chiamati alla libertà» (5, 13) ma non ad una libertà «secondo la carne», cioè cieca e arbitraria, ma ad una libertà saldamente ancorata alla persona di Cristo e quindi a Dio, secondo un’ottica che porta la Torah a un livello superiore e quindi «la porta a compimento», come disse Gesù.
Può essere accettato tutto ciò da un Rabbino, sia pure onesto, aperto e generoso come Rav Neusner, senza l’intervento dello Spirito Santo? Penso proprio di no. Mi rendo conto, a questo punto, che sto aprendo un enorme problema che supera la capacità di comprensione di un’umilissima cattolica “bambina” e che si dibatte da duemila anni: perché Israele non ha accettato Cristo?
Rav Neusner, amico sincero e rispettoso dei cristiani, si limita nel suo libro a dialogare col Gesù del Discorso della Montagna e non affronta l’evento più sconvolgente di cui l’uomo abbia mai sentito parlare: la Resurrezione di Cristo in un corpo fatto di carne e sangue, ma glorioso, che ha posto il sigillo della Verità su tutto quello che ha detto e fatto quel Maestro, che metteva se stesso al centro della sequela di Dio e non la Torah. Ma avrebbe creduto egli se si fosse trovato in compagnia dei discepoli di Emmaus o se si fosse mescolato agli undici discepoli che, secondo Matteo (28, 16), andarono in Galilea sul monte che il Risorto aveva loro fissato? Questi “quando lo videro gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano”. Erano stati gli intimi di Gesù, avevano diviso la vita con Lui per tutta la durata della sua Missione, eppure ancora non riuscivano a credere. Ci avrebbe pensato più tardi lo Spirito Santo ad addolcire la loro «duritia cordis».
Perciò non possiamo pretendere che Rav Neusner sia diverso dai suoi fratelli. Illuminare la sua anima non è compito di nostra competenza, ma di Dio. Questo problema era causa di grande dolore anche per San Paolo: «Vorrei infatti essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra di ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen» (Rm 9, 1 ss).
Secondo Erik Peterson (1890 – 1960) teologo cattolico profondamente stimato da Benedetto XVI, gli Ebrei non possono accettare Cristo perché per loro il Messia deve essere un uomo e un ebreo, non Dio, e non deve venire per i Gentili[7]. Il Card. Avery Dulles (1918 – 2008) ribadisce la spiegazione teologica che ne dà S. Paolo (Rm 9, 11): Dio non ha smesso di amare il Suo popolo, né ha dimenticato le Sue promesse ad Israele, ma il temporaneo non riconoscimento di Cristo da parte dei Giudei nel loro insieme è stato necessario per il compimento di quanto ancora manca al piano di Dio per la salvezza che comprende anche i Gentili. Paolo predice che quando l’evangelizzazione dei Gentili sarà completata, i Giudei reclameranno la loro eredità arricchendo così sia se stessi che la Chiesa con la loro accettazione di Cristo[8]. Però, mi permetto di aggiungere io, chi ama veramente il Cristo non può non condividere il dolore di Paolo e può solo sperare che Dio abbia previsto, per i nostri «fratelli maggiori», una speciale Via di salvezza.
Voglio concludere questa mia riflessione con un giudizio da cattolica “bambina”, forse un po’ terra – terra, ma basato sull’esperienza quotidiana. La fede in Cristo è un dono di Dio di valore incommensurabile, ma anche una grande fortuna che ci permette di sganciarci dalle pastoie e dalle miserie della vita quotidiana per innalzarci verso una dimensione che ci fa maggiori di noi stessi. Ma Dio ci ha donato gratuitamente anche la libertà di accettare o di respingere i limiti del nostro IO che vorrebbe sempre padroneggiare sia lo spirito che la materia. Se qualcuno degli undici che videro il Risorto non poté fare a meno di “dubitare”, oggi la secolarizzazione dilaga ad ogni livello. La responsabilità è nostra: la scelta dipende solo da noi.
[1] Ovvero «agli uomini di buona volontà» secondo la Vulgata, espressione forse meno precisa, ma alla quale io sono più affezionata perché è quella che ho imparato nella mia infanzia quando a Natale aiutavo mia madre a preparare il presepio.
[2]In realtà la traduzione della CEI addolcisce l’espressione originaria e dice che “le folle restarono stupite”.
[3] Cfr. Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù, San Paolo 2007.
[4] Rizzoli 2007.
[5] Cfr. Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, San Paolo 2007, pag. 67.
[6] Cfr. Gesù di Nazaret, pag.144.
[7] Cfr. E. Peterson, Il mistero degli Ebrei e dei Gentili nella Chiesa, Ed. Mimesis, Il caffè dei filosofi, 2013, pag. 18.
[8] Cfr. A. Dulles, Storia dell’Apologetica, Ed. Fede & Cultura, 2010, pag. 29.
Carla D'Agostino Ungaretti
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