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Che civiltà è la civiltà moderna?l'Uomo moderno e l'angoscia esistenziale cioè il senso di colpa di esistere: perchè in base ai presupposti filosofici della cultura moderna per lui la vita è un male e sarebbe meglio non nascere
di Francesco Lamendola
La civiltà greco-romana, più o meno, sappiamo cos’è stata. Anche la civiltà medioevale crediamo di sapere cosa è stata; o almeno riteniamo ragionevolmente di saperlo, il che è già qualcosa. Ma la civiltà moderna, che cos’è? Ce tipo di civiltà è? In che cosa consiste il suo elemento di civiltà, come si caratterizza? Qual è l’idea essenziale che la ispira, che la anima, che la sorregge? In che cosa crede, quale è la sua visione del mondo? E ha una sua visione del mondo? Oppure non si occupa di siffatte questioni “metafisiche” e si concentra solo sulla praxis?
Ha scritto il celebre filologo classico e grecista irlandese Eric Robertson Dodds (1893-1979) nel suo importante saggio I Greci e l’irrazionale (titolo originale: The Greeks and the Irrational, 1951; traduzione dall’inglese di V. Vacca De Bosis, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 28 ss.):
Quella descritta da Omero è sicuramente una civiltà di vergogna. Il bene supremo dell’uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della τιμή, la pubblica stima: “Perché dovrei combattere se nello stesso pregio (τιμή) sono il codardo e il prode? (Il., IX, 315). L’uomo omerico non ha “timor di Dio”, ma rispetto dell’opinione pubblica: αἰδώς) (Iliade, XXII, 105, cfr. VI, 442, XV, 516 ss, XVII, 91 ss, Odissea, XVI, 75, XXI, 323). Egli sente come insopportabile ciò che lo espone al disprezzo e al ridicolo dei suoi simili.
Nell’età arcaica invece la civiltà greca sviluppa sempre più caratteristiche di “civiltà di colpa”: non che di tale modo di pensare non ci siano presupposti in Omero: il principio che l’uomo è impotente di fronte alla divinità che vede di malocchio i suoi successi ha un presupposto in Iliade, XXIV, 525-33, in cui si parla della dolorosa condizione degli uomini. Al contrario, il senso della responsabilità degli uomini nelle loro azioni è già abbastanza chiaro in “Odissea”, I, 34 (“per i loro folli delitti contro il dovuto han dolori”) e in questa prospettiva è interpretata la vicenda di Egisto e degli Atridi. Ma certo nel complesso la situazione cambia: dall’idea che l’eccessivo successo sia sgradita agli Dei gelosi nasce un nesso morale: si afferma ciò che il successo produce Kóρoς (alle lettera, “indigestione”) e questo a sua volta genera ὕβϱις, arroganza manifestata con la parola, con i fatti, con il pensiero. Così Zeus diventa il dio della giustizia, concetto di cui non c’è tracia nell’Iliade, mentre nell’Odissea Zeus appare già come protettore dei supplici e Odisseo trionfa perché è attento alle ammonizioni divine. Allo steso modo, nell’Iliade on si riscontra alcun termine che significhi “timorato di Dio”, mentre l’Odissea conosce θεουδής e δεισιδαίμων; d’altra parte manca ogni idea di amor di Dio. In Omero poi non c’è traccia della credenza secondo la quale la contaminazione contagiosa ed ereditaria, come troviamo invece chiaramente negli scrittori successivi.
La civiltà greco-romana, più o meno, sappiamo cos’è stata. Anche la civiltà medioevale crediamo di sapere cosa è stata; o almeno riteniamo ragionevolmente di saperlo, il che è già qualcosa. Ma la civiltà moderna, che cos’è?
In altre parole, per Dodds – che, con questo testo, si pone anche come uno dei massimi esponenti della recente antropologia culturale - vi sono civiltà, come quella omerica, che fanno leva sul senso della vergogna per spingere i loro membri ad agire in modo consono ai loro valori, e ve ne sono altre, come quella greca dei secoli successivi, ma anche quella cristiana, che fanno leva sul senso della colpa. Nel primo caso, l’individuo agisce in vista dell’approvazione altrui, perché teme più di ogni altra cosa la vergogna di essere riprovato e disprezzato dagli altri membri del gruppo. Achille, Ulisse, Diomede e tutti gli altri combattono per conquistare la gloria attraverso l’ammirazione degli altri; e non fuggono davanti al nemico, se non in casi eccezionali, perché temono di essere giudicati vigliacchi. Il giudizio altrui è talmente importante che il guerriero che ritiene di aver perso la stima dei compagni può anche scegliere il suicidio per non sopravvivere al disonore, come nel caso di Aiace. Nel secondo caso, il giudizio sul proprio valore e sui propri meriti viene interiorizzato: è la divinità che stabilisce cosa è giusto e cosa è sbagliato, e chi viola il codice da essi stabilito, e accettato da tutta la comunità, incorre nella disapprovazione altrui, ma anche e soprattutto nella propria. Notiamo, di sfuggita, che mentre nel primo schema chi si copre di vergogna viene interamente giudicato e condannato, per cui non potrà mai più riabilitarsi, nel secondo la riprovazione è limitata a un singolo comportamento e non investe la totalità della persona (ma avevano il concetto di persona, i greci?) e quindi chi si è reso colpevole, può tuttavia redimersi. Nel caso della civiltà cristiana, questo è particolarmente evidente e sin dagli esordi. San Paolo, come è noto, era un accanito persecutore dei cristiani; ma, dopo essersi convertito ed essersi messo interamente al servizio del Vangelo, nessuno gli ha più rimproverato la sua colpa passata, ed è probabile che non lo abbia fatto neanche lui stesso – quanto meno, ciò non traspare dai suoi numerosi scritti, che pur sono ricchi di spunti autobiografici. Quando parla della sua vita precedente alla conversione, lo fa con molta oggettività, senza compiacimento né auto-disprezzo: è come se si fosse distaccato da quel vecchio uomo che ancora non conosceva Cristo. Lo stesso concetto emerge dalla vicenda del beato Carino Pietro da Balsamo, l’assassino di San Pietro Martire, detto San Pietro da Verona, nel XIII secolo; il quale, dopo essersi macchiato del delitto, ebbe una sincera e profonda conversione, divenne converso domenicano, e trascorse quarant’anni della sua vita, fino alla morte, in umiltà, penitenza e preghiera. Non solo non gli venne più rimproverata la sua gravissima colpa, ma la Chiesa lo venera come beato; se poi egli continuasse a rimproverarsela nel segreto della coscienza, è probabile, anzi è cosa certa, visto che non uscì mai dalla sua vita di penitenza e preghiera, evidentemente non ritenendosi mai “assolto”. Ma è certo che, per l’etica cristiana, vale sempre la formula espressa da Gesù subito dopo il suo ingresso a Gerusalemme (Gv, 12, 47): Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. Parole che riecheggiano quelle di Dio al profeta Ezechiele (33, 19): Com'è vero ch'io vivo - oracolo del Signore Dio - io non godo della morte dell'empio, ma che l'empio desista dalla sua condotta e viva. Convertitevi dalla vostra condotta perversa! Perché volete perire, o Israeliti?
Il senso di colpa, proprio dei moderni, è un indefinito senso di angoscia esistenziale, che non ha una causa precisa e non si limita a un singolo aspetto, a una singola azione: l’uomo moderno si sente colpevole, ma non sa di che, o almeno non lo sa a livello pienamente cosciente. Eppure questa angoscia indeterminata, ma fortissima, è come un filo rosso che unisce quasi tutte le opere della modernità, dalle arti figurative al teatro, dalla letteratura al cinema, dalla filosofia alla musica.
Ebbene: che tipo di civiltà è, la civiltà moderna? Ammesso che sia una civiltà. Civiltà è una parola grossa. Per gli antropologi, qualsiasi sistema di vita materiale e spirituale, di qualsiasi genere e contenuto, che duri nel tempo e differenzi fortemente un certo ambito storico-sociale da tutti gli altri è una civiltà; ma nel senso specifico della parola, è un insieme di valori positivi, un sistema di vita sviluppato in base a dei principi superiori, che vadano oltre la legge della giungla: il contrario della barbarie. A noi sembra che in questo significato più preciso, non si possa nemmeno parlare di una civiltà moderna: se in essa si riscontrano dei valori positivi, è per la parziale sopravvivenza di elementi dell’eredità passata, cioè della civiltà pre-moderna: nello specifico, quella cristiana. Per il resto, la modernità si caratterizza molto più come negazione e come rifiuto di valori preesistenti, compreso il concetto stesso di verità, e molto meno, o nulla, per la capacità di produrre nuovi valori di segno positivo: i valori moderni, se così li vogliamo chiamare, sono quasi unicamente di segno negativo; sono negazioni, non affermazioni. Per esempio, la negazione del criterio di verità, in nome del relativismo; della bellezza, in nome dell’arte brutta; della normalità, in nome della rivendicazione di una difformità dalla norma come valore in se stessa, anche se si tratta di una difformità aberrante; del libero arbitrio, a causa di un determinismo d’impronta naturalistica. Ma relativismo, bruttezza, anormalità, determinismo, non sono valori positivi: sulla base di essi non si può costruire nulla di durevole, si può solo distruggere ciò che esiste e generare un senso di vuoto sempre più grande, aumentando la già babelica confusione che regna ovunque. In senso lato, certo esiste una civiltà moderna, come è esistita, ad esempio, una civiltà barbaresca (nel Mediterraneo occidentale, fino al XIX secolo; qualcosa di simile sopravvive in alcune zone dell’Oceano Indiano e del Sud-est asiatico) o, scendendo ancora più in basso sulla scala dell’evoluzione sociale, come sono esistite, fino a pochissimi anni fa, una civiltà dei tagliatori di teste o una di guerrieri antropofagi: vale a dire civiltà fondate unicamente sul parassitismo nei confronti di ciò che altri producono, sulla pirateria, sulla rapina sistematica, sullo schiavismo e sulla brutalità eretta ad unico sistema di vita. Materia di studio per gli antropologi, non sistema di valori capace di durare e di assicurare il bene degli uomini.
L'uomo moderno e l'angoscia esistenziale, cioè il senso di colpa di esistere: perchè in base ai presupposti filosofici della cultura moderna per lui la vita è un male e sarebbe meglio non nascere?
Comunque, domandiamoci come si caratterizza, la cosiddetta civiltà moderna. Ci sembra che essa non abbia realizzato alcun progresso né rispetto alla civiltà della vergogna, né rispetto alla civiltà della colpa, anzi, che abbia preso gli aspetti peggiori di entrambe, sviluppandoli alla rovescia, cioè verso condizioni regressive di vita e di pensiero. La vergogna? Certo che esiste un senso della vergogna, e svolge un ruolo importantissimo, per non dire decisivo, nella vita dei singoli: ma di che cosa si vergognano, gli uomini moderni? Gli eroi omerici si vergognavano al pensiero di essere considerati vili o inetti; gli uomini moderni si vergognano all’idea di essere giudicati poveri o sorpassati. È sempre una schiavitù nei confronti del giudizio altrui, è sempre un far dipendere la propria vita e le proprie azioni da ciò che gli altri pensano di ciascuno; ma almeno gli eroi greci esaltavano dei valori socialmente utili, come il coraggio e il cameratismo. Quali sono i valori che esalta la modernità, e senza i quali la vita è giudicata indegna di essere vissuta? La ricchezza, prima di tutto; poi la capacità di farsi strada in qualunque modo, manipolando gli altri; poi la ricerca del proprio egoistico piacere, che porta con sé il mito – illusorio - della perenne giovinezza. Chi non riesce a raggiungere, o ad avvicinarsi, a tali obiettivi, è considerato un perdente; e non c’è nulla che gli uomini moderni temano più di un simile giudizio. Lo temono, se possibile, perfino più della morte, che pure temono in maniera paranoica: al punto che molti preferiscono morire se perdono la ricchezza, o il successo, o la giovinezza, e se si rendono conto di non essere più invidiati e ammirati dagli altri, ma disprezzati o, peggio ancora, ignorati. L’uomo moderno ha una smania compulsiva di affermarsi, di farsi notare, di essere riconosciuto: reazione fin troppo prevedibile ai meccanismi omologanti e spersonalizzanti della società di massa. Il problema è che, in questa massa, tutti vorrebbero emergere, cosa evidentemente impossibile: il risultato è quello strano ibrido che è l’individualista di massa. Costui pretende di avere dalla vita tutti i vantaggi che derivano dal vivere in una società di massa (la sicurezza personale, la sanità, l’istruzione, i trasporti, ecc.) ma al tempo stesso pretende di emergere, di spiccare, di essere notato come un individuo eccezionale: pretesa che si scontra e si elide con quella di tutti gli altri.
Se l’uomo moderno si sente colpevole di esistere, la sua angoscia non avrà mai fine, e la sua vita somiglierà a un inferno. E chi può salvarlo dall’inferno, se non Dio? Ma a Dio, ha voltato le spalle...
D’altra parte, la civiltà moderna è caratterizzata da una forte presenza del senso di colpa, anche se la cultura ufficiale si scaglia continuamente contro di esso, negandone ogni legittimità ed esortando ciascun individuo a romperla una volta per sempre coi sensi di colpa, considerati un ingrato retaggio della civiltà cattolica. E tuttavia, dobbiamo domandarci: il senso di colpa e il senso della colpasono proprio la stessa cosa? La civiltà greca post-omerica, ma anche la civiltà cristiana, pongono il senso della colpa: cioè si aspettano che quanti trasgrediscono alle norme stabilite provino rimorso e si ravvedano. Invece il senso di colpa, proprio dei moderni, è un indefinito senso di angoscia esistenziale, che non ha una causa precisa e non si limita a un singolo aspetto, a una singola azione: l’uomo moderno si sente colpevole, ma non sa di che, o almeno non lo sa a livello pienamente cosciente. Eppure questa angoscia indeterminata, ma fortissima, è come un filo rosso che unisce quasi tutte le opere della modernità, dalle arti figurative al teatro, dalla letteratura al cinema, dalla filosofia alla musica. In verità, esso è molto più terribile del vecchio senso della colpa: perché, come abbiamo detto, da questo ci si può emancipare, passando attraverso una chiarificazione, un pentimento e un proponimento di non trasgredire più al nomos; mentre dal senso di colpa totale, indifferenziato, inafferrabile, non ci si potrà mai liberare. Tutti gli uomini moderni sono condannati a vivere sotto quest’ombra minacciosa, che, nei casi più gravi, porta alla depressione e al suicidio: così, senza una ragione precisa. Oppure la ragione c’è? Forse è tutto l’insieme della civiltà moderna che crea il senso di colpa: proprio perché si basa su un tradimento radicale di ciò che l’uomo dovrebbe essere e di come dovrebbe vivere la sua vita. Ma nessuno osa dirlo apertamente, perché tutti temono la vergogna di essere derisi, di essere sbeffeggiati. E così l’angoscia aumenta, si diffonde come un cancro, contamina tutto, inquina perfino le gioie più pure. Di che cosa si sente in colpa, l’uomo moderno? Probabilmente, di esistere. In base ai presupposti filosofici della cultura moderna, la vita è un male, e sarebbe meglio non nascere: infatti, il crollo della natalità testimonia la convinzione di moltissime persone, che dare la vita sia un atto di crudeltà imperdonabile. Ma se l’uomo moderno si sente colpevole di esistere, la sua angoscia non avrà mai fine, e la sua vita somiglierà a un inferno. E chi può salvarlo dall’inferno, se non Dio? Ma a Dio, ha voltato le spalle...
Che civiltà è la civiltà moderna?
di Francesco Lamendola
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