“Ecco perché sono diventato un informatore della stampa”
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Lui si chiama Siobhan M. O’Connor e la sua testimonianza si apre così nell’articolo «Confessioni di un informatore cattolico», pubblicato da First Things (https://www.firstthings.com/web-exclusives/2018/11/confessions-of-a-catholic-whistleblower).
È il racconto di una dolorosa presa di coscienza e della decisione, per il bene della Chiesa, di far trapelare verità nascoste.
Ma perché un bravo e onesto dipendente di un ufficio diocesano, a stretto contatto con il vescovo, decide a un certo punto di diventare un whistleblower, come si dice negli Usa, ovvero una persona che denuncia pubblicamente attività illecite o fraudolente all’interno di un’organizzazione pubblica o privata?
La risposta di O’Connor è contenuta nel riassunto della sua vicenda, che incomincia quando Siobhan capisce in che modo il vescovo, nonostante le pubbliche dichiarazioni a favore del rigore e della trasparenza, gestiva alcuni caso di preti accusati di abusi sessuali.
«Nessun particolare evento – dice O’Connor – mi ha portato a far trapelare documenti dagli archivi segreti della diocesi. Piuttosto, mi misi all’opera dopo aver gradualmente compreso che la verità veniva nascosta all’interno della Cancelleria a scapito degli abusati sopravvissuti, dei cattolici e dell’intero popolo della diocesi. Quando, a marzo, il vescovo Malone ha pubblicato un elenco di quarantadue sacerdoti accusati di abusi sessuali su minori all’interno della nostra diocesi, ho immediatamente saputo che la lista era terribilmente incompleta. Avevo visto le bozze dell’elenco, che comprendeva oltre cento sacerdoti. In un caso particolarmente eclatante la diocesi ha dato questa spiegazione per aver lasciato un prete fuori dalla lista: “Non lo abbiamo rimosso dal ministero nonostante la piena conoscenza del caso, e quindi includerlo nell’elenco potrebbe richiedere una giustificazione”. I sopravvissuti agli abusi che hanno iniziato a chiamare la Cancelleria dopo che la lista è stata pubblicata erano alla ricerca di spiegazioni. Questi uomini e queste donne sofferenti erano comprensibilmente angosciati dal non trovare il nome del loro presunto abusatore violento nella lista diocesana».
Nonostante queste omissioni, racconta O’Connor, il vescovo Malone incominciò a definirsi «un messaggero di trasparenza per la nostra diocesi», e quando la lista dei quarantadue fu resa pubblica dichiarò che vedere i nomi dei violentatori pubblicati dalla stampa avrebbe «liberato e rafforzato» i sopravvissuti.
«Sfortunatamente, in realtà, solo a pochi sopravvissuti è stata offerta questa opportunità di essere davvero liberati e rafforzati. Così, per me è diventato sempre più doloroso testimoniare la dicotomia tra i commenti pubblici del vescovo e le sue azioni interne e le sue mancanze».
Racconta ancora O’Connor: «Mentre lottavo con queste preoccupazioni, incominciarono a emergere in particolare i casi riguardanti due preti, entrambi accusati di aver adescato minorenni e di aver aggredito sessualmente giovani uomini. Contro ognuno di loro c’erano accuse mosse da più vittime, eppure Malone, nonostante avesse una conoscenza dettagliata delle accuse a loro carico, consentì a entrambi di rimanere nel ministero attivo. Il vescovo infatti scrisse diverse lettere di raccomandazione che consentirono a uno dei due sacerdoti di esercitare il ministero sulle navi da crociera ed elogiò pubblicamente l’altro prete. Malone cercò di rassicurare il pubblico dicendo: “Abbiamo affrontato l’intera faccenda in un modo completamente diverso rispetto a quello che è stato fatto nei decenni passati”. Ma io sapevo che dietro le quinte Malone permetteva il perpetuarsi della solita segretezza tossica e che l’inspiegabile inerzia del passato continuava».
«Dato che lavoravo a stretto contatto con il vescovo Malone – spiega O’Connor – ero in grado di portare le mie preoccupazioni direttamente alla sua attenzione. Ma quando gli parlai, il vescovo mi disse di non preoccuparmi perché lui stava già affrontando questi problemi. Non era così. Malone permise a un prete di continuare a essere un pastore attivo nonostante il Consiglio di revisione diocesano avesse raccomandato di rimuoverlo in vista di una valutazione approfondita. Mesi dopo, anche lo staff dirigenziale dell’ufficio del vescovo esaminò le accuse contro questo sacerdote e raccomandò che fosse rimosso completamente dal ministero. Eppure, nonostante queste decise raccomandazioni da parte di due dei suoi più stretti organi di consulenza, Malone non fece assolutamente nulla. E fu proprio questo tipo di inazione che alla fine mi costrinse ad agire».
«Ciò a cui stavo assistendo – racconta l’ex dipendente diocesano – mi fece impazzire, mi spezzò il cuore e appesantì la mia anima. Di settimana in settimana, la mia coscienza si sentiva come se fosse in una morsa sempre più stretta. La mia preghiera principale divenne un appello di tre parole: “Dio, aiutami!”. In quanto cattolico, e lo sono da sempre, mi sembrò strano cercare l’aiuto del Signore nel confrontarmi con comportamenti mendaci al più alto livello della mia Chiesa locale. Eppure incominciai a rendermi conto che Dio mi aveva messo nel posto giusto al momento giusto e che mi avrebbe concesso la forza di fare la cosa giusta. Mentre mi rendevo conto che le forze dell’ordine avrebbero dovuto indagare sulla nostra diocesi, sapevo anche che sarebbe stato un processo lungo. Perché avvenissero cambiamenti rapidi, sarebbe stato necessario portare la verità fuori dalla Cancelleria».
Fu così che Siobhan M. O’Connor fece il grande passo. «Durante i mesi precedenti, avevo osservato che le tenaci indagini di un particolare giornalista avevano avuto un impatto diretto sul vescovo Malone. Una e-mail o una richiesta di Charlie Specht, della WKBW-TV [una televisione locale di Buffalo, N.d.T.], avrebbero costretto il vescovo a fare la cosa giusta. Usando i documenti che ho trafugato e consegnato a lui, Charlie ha realizzato tre reportage esplosivi che hanno portato a cambiamenti immediati e vitali. Ad esempio, uno dei predetti sacerdoti non è stato più autorizzato a esercitare il ministero, perché alla fine è stato ritenuto responsabile degli abusi ed estromesso. In seguito i leader locali si sono uniti ai membri della nostra diocesi per chiedere risposte da parte del vescovo. I sopravvissuti si sono fatti avanti e hanno ricevuto il sostegno della nostra comunità. E questo slancio è aumentato da quando la nostra storia è stata portata a livello nazionale dalla trasmissione “60 Minutes” della CBS».
«Dopo essere diventato un informatore – conclude O’Connor – ora cerco di essere interprete della riforma e del rinnovamento della Chiesa che amo. Ai miei amici cattolici dico spesso che in questo momento siamo impegnati in una battaglia per l’anima stessa della nostra Chiesa. La mia preghiera è che là fuori ci siano più impiegati diocesani in grado di liberare la verità. Quanto a me, le azioni che ho intrapreso mi hanno certamente lasciato con il cuore pesante, ma con la pace nell’anima».
Aldo Maria Valli
https://www.aldomariavalli.it/2018/11/23/ecco-perche-sono-diventato-un-informatore-della-stampa/
ALLA FRONTIERA DELLA LIBERTA’ DI COSCIENZA
Quanti guardano con sgomento i tentativi del diritto positivo non solo di trascurare, ma di sovrapporsi al diritto naturale con l’ausilio di dottrine giuridiche per le quali vi è perfetta coincidenza fra i due concetti, perché l’unico diritto naturale è quello positivo, hanno molti fronti sui quali combattere. E, se non possono battersi, molte carte sulle quali spostare le bandierine delle parti in conflitto. Attualmente uno dei fronti più interessati dagli attacchi dei nemici del diritto naturale è quello dell’obiezione di coscienza. Battaglie che in un momento caratterizzato da un certo declino dei cosiddetti partiti “progressisti” si svolgono soprattutto nelle aule giudiziarie.
Su questo fronte l‘associazione Family Watch International ritiene di potere spostare in avanti la bandierina del diritto naturale grazie a una recente sentenza (10 ottobre 2018) della Corte Suprema del Regno Unito nella causa Gareth Lee v. Ashers Baking Company. Family Watch, prendendo spunto dalle convinzioni cristiane dei proprietari della Ashers Baking Company, preferisce parlare di libertà religiosa (“Good news on the religious liberty front”). Indubbiamente anche di questo si tratta, ma l’ampio raggio delle possibili applicazioni indicato in motivazione evidenzia che si tratta di libertà di coscienza nel senso più ampio del termine.
All’origine del conflitto e della decisione l’iniziativa di Mr. Gareth Lee, aderente, con qualche ruolo organizzativo e di rappresentanza, ad una organizzazione LGBT di Belfast. Costui si era rivolto ad una grande impresa di panetteria (appunto la Ashers Baking Company) di proprietà di cristiani praticanti per la preparazione e l’acquisto di una torta, forse nuziale (evidente comunque lo scopo provocatorio, l’intenzione di creare un caso), sulla quale si doveva apporre, a guisa della classica ciliegina, la scritta “Sostegno al matrimonio gay” accompagnata dall’effigie di due brutti pupazzetti di sesso maschile. Ottenuto un cortese rifiuto Mr. Lee si era rivolto, conseguendone l’appoggio, alla Equality Commission of Northern Ireland. Accusati di discriminazione, i pasticceri avevano visto respingere il loro ricorso in via giudiziaria tanto in primo quanto in secondo grado.
Diversi l’opinione e il giudizio finale della Suprema Corte, che ha ritenuto l’insussistenza di alcuna ipotesi di discriminazione. Difatti – ha motivato la presidente della Corte – vi sarebbe discriminazione se il fornaio avesse rifiutato di fornire la torta o uno qualunque dei suoi prodotti a Mr. Lee, perché gay o perché sostenitore del matrimonio omosessuale, ma la situazione in esame è profondamente diversa. Difatti il cliente chiedeva la fornitura di una torta recante un messaggio col quale i fornai erano in profondo disaccordo. Anche fornitori e commercianti hanno il diritto di rifiutare i messaggi da loro non condivisi che il cliente intende trasmettere (in questo caso attraverso la ciliegina sulla torta) quale che ne sia il contenuto: sostegno a una vita di peccato, sostegno a un particolare partito politico o a una particolare confessione religiosa (si tratta, appunto, di libertà di coscienza non esclusivamente di libertà religiosa).
Nel motivare la Corte inglese ha anche ricordato, per la stretta analogia con la fattispecie, una recente decisione della U.S. Supreme Court nella causaMasterpiece Cakeshop v. Colorado Civil Rights Commission. Anche in questa controversia era coinvolto un pasticcere, che si era rifiutato di fornire la torta richiestagli per un matrimonio omosessuale. In quel caso però il giudice statunitense non si era posto il problema se il pasticcere potesse essere costretto a trasmettere messaggi da lui non condivisi. Aveva invece ritenuto, in certo senso a monte, che il procedimento della Commissione sui diritti civili del Colorado, intervenuta a censurare come discriminatorio il rifiuto, fosse viziato dalla prevenzione di questa nei confronti delle credenze religiose del panettiere (in questo senso la decisione statunitense è più attinente all’aspetto della libertà di coscienza costituito dalla libertà religiosa di quella inglese). Comunque – prosegue la motivazione – anche il caso americano evidenzia l’esistenza di una netta distinzione fra chi si rifiuta di produrre una torta destinata a trasmettere un particolare messaggio e il rifiuto motivato dalle caratteristiche personali del cliente.Ovviamente – la conclusione finale della decisione britannica – “si può discutere caso per caso in quale ipotesi si versi, ma nessun dubbio nel nostro”.
Di segno opposto, con deciso arretramento delle bandierine del diritto naturale, la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) sulla richiesta, dichiarata irricevibile, proposta nel 2015 da un certo numero (non pochi, circa 20.000) di sindaci e funzionari municipali, che chiedevano, per ragioni di coscienza, di potersi esonerare dall’obbligo di celebrare i matrimoni fra soggetti dello stesso sesso introdotti in Francia dalla legge Taubira detta anche del “mariage pour tous”1.
Trattandosi di una dichiarazione di “irrecevibilità”, la richiesta si è arenata già al primo passaggio perché ritenuta palesemente infondata. Una pretesa infondatezza che consente, a risparmio di tempo e fatica, che tali provvedimenti vengano predisposti da legali interni alla Corte e sottoscritti, senza dibattito e camera di consiglio, da un unico giudice.
In realtà nel caso non mancano due righe di motivazione. Due righe che però dovrebbero spaventare perfino chi concorda con la CEDU nel ritenere che in questo caso non vi fosse spazio per l’obiezione di coscienza. Due righe che rendono il provvedimento assolutamente non condivisibile (o addirittura, viene voglia di dire, pur se trattasi di aggettivazione non consona a uno scritto giuridico, ignobile) per i ricordi che richiama e gli scenari futuri che prospetta. Ad avviso di questo magistrato della Corte di Strasburgo (un singolo che tuttavia parla e decide a nome della Corte), la palese mancanza di spazio per l’obiezione di coscienza discenderebbe dal fatto che, nel celebrare le nozze, il sindaco o il funzionario municipale agiscono non come “individui”, ma a nome dello Stato in quanto ufficiali di stato civile.
Viene imboccata così una strada che ha già condotto e conduce ad esiti terrificanti. Se la qualifica rivestita cancella giuridicamente la coscienza individuale anche i medici chiamati a praticare gli aborti non possono rifiutarsi, perché (in Italia) operano non in proprio, come individui, ma quali dipendenti e rappresentanti del Servizio Sanitario Nazionale. Allo stesso modo non troppi anni fa i militari dellaWehrmacht o delle Schutsstaffel (SS), dai generali all’ultimo soldato, agivano, obbedendo alle leggi e agli ordini di servizio, come semplici ingranaggi, necessariamente privi di coscienza individuale, dell’apparato statale del Terzo Reich.
Questo lo sbocco inevitabile di una motivazione che legittima la speranza che il prossimo 25 novembre i cittadini svizzeri diano risposta positiva al referendum popolare che vuole stabilire il primato della loro Costituzione sui provvedimenti della Corte di Strasburgo. E che molti altri paesi seguano al più presto il loro esempio. O provvedano in via parlamentare, come ha fatto la Duma. I parlamentari russi, il 4 dicembre 2015, recependo una decisione di quella Corte Costituzionale del precedente 14 luglio, ha approvato quasi all’unanimità (436 favorevoli e 3 contrari) una legge per la quale le sentenze CEDU potranno trovare esecuzione solo se la Corte costituzionale ne constati la perfetta conformità con la Costituzione della Federazione Russa.
1Cfr. su questa decisione “La CEDH contre la liberté de conscience des maires” di Grégor Puppink in FigaroVox/Tribune del 18/10/2018.
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