ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

venerdì 2 novembre 2018

La nostra impotenza

RITROVARE LA VISIONE SPIRITUALE


Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo. Consumismo folle narcisismo escludere Dio? tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità e le sue mode conducono allo stesso vicolo cieco il dubbio radicale e il nulla 
di Francesco Lamendola   

0 EFFETO CROX

La nostra impotenza nasce dall’oblio della visone unitaria e spirituale del mondo. Gli uomini sono capaci di grandezza quando ce l’hanno; diventano piccoli come nani quando la smarriscono. E se la smarriscono gli uomini, la smarriscono le civiltà; se la smarriscono le civiltà, la smarriscono anche i singoli uomini. Finché la visione del reale è di tipo materialista e riduzionista; finché le cose sono percepite una alla volta, in sequenza, isolatamente, separatamente le une dalle altre; finché non si sa vedere il legame che le unisce tutte, dalla prima all’ultima, e non si comprende che tale legame è di tipo spirituale e non materiale, si resta nelle secche dei pesci d’acqua dolce, ben lontano dalle profondità abissali dove si avventurano le creature oceaniche. Un delfino non può vivere in una vasca da bagno e un albatro non può sopravvivere in una voliera di pochi metri. L’uomo è fatto per le grandi altezze e le grandi profondità – questa è la sua vocazione e questo il suo destino, la sua grandezza e la sua croce, la sua luce e la sua nostalgia. Se smarrisce questa consapevolezza, si rattrappisce, s’immiserisce, diviene l’ombra di se stesso, una creature deforme e mutilata, dalla coscienza infelice, che languisce in attesa di morire. Ma l’uomo non è fatto per la morte, come non è fatto per gli spazi minuscoli; no: è fatto per la vita, come è fatto per le immensità che sanno di vento e di salsedine.



0 GALLERY papini e soffici
Giovanni Papini e Ardengo Soffici

Vale la pena di rileggersi quel che scriveva un grande italiano quasi dimenticato, Ardengo Soffici - scrittore e poeta di valore, cui ha nuociuto l’adesione al fascismo e, peggio, alla Repubblica Sociale, nella cultura italiana del secondo dopoguerra, egemonizzata in maniera quasi totalitaria dalle forze di sinistra - in un saggio intitolato Considerazioni inattuali, alla vigilia della Seconda guerra mondiale (su Il Frontespizio, agosto 1939; ripubblicato in: A. Soffici, Estetica e politica. Scritti critici 1920-1940, a cura di Simonetta Bartolini, Milano, Solfanelli Editore, 1994, pp. 344-347):
Una visione del mondo, un complesso di quel che si dice “idee generali”; un latente tormento dell’anima sitibonda d’assoluto; un problema dell’essere fortemente sentito: mi pare che questo siano sempre stati e siano ancora gli elementi costitutivi della reale grandezza e spirituale superiorità dell’uomo; particolarmente dell’uomo artista e poeta. (…)
Gli artisti e gli scrittori antichi, che vivevano in una società ordinata secondo i principi di una religione indiscussa o poco e segretamente discussa, che respiravano, per così dire, la verità ambiente ed ammessa dall’universale, la loro visione del mondo si potrebbe definire ortodossa. Essa era quella che i dominatori spirituali ed intellettuali dell’epoca avevano presentato all’umanità civile; e ciò che differenziava le loro opere era piuttosto l’accento caratteristico del particolare temperamento di ognuno, il timbro della sensibilità visiva, plastica, musicale e affettiva di ogni singolo autore. Con lo sconquasso portato nel’ordine antico religioso dalle eresie, dalla scienza, dal sofisma filosofico e critico, da tutto quello che con termine generico si dice modernità, il concetto la visione comune del mondo furono sovvertiti come tutto il resto: la necessità di possederli non fu però abolita. È anzi questa la ragione maggiore per cui, dopo tanto cataclisma, ogni artista e poeta moderno deve avere il suo e la sua; poiché solo dal riflesso di quelli nella costui opera si potrà riconoscere il suo non esser nullo o volgare.
Sembra che i giovani artisti e scrittori miei visitatori, di cui dicevo in principio, non siano di questo parere. Più francamente parlando, dirò che la maggior parte di essi ha l’aria di non avere neanche la minima idea che il problema di cui si tratta possa esistere per qualcuno dei loro colleghi; mentre l’altra parte non ignora il problema, ma sì lo rigetta, lo considera come un inutile gravame, una pastoia spirituale, e si fa vanto di questo suo radicale rinnegamento e disprezzo.
Gli uni, candidi ignoranti, opachi intelletti tutti impegolati nel quotidiano e nella provvisorietà del fenomeno, credono che il fatto dell’arte partecipi della pratica e del mestiere, che vedere ciò che gli altri fanno e parlarne come si farebbe di un esercizio ginnastico o di una gara atletica significhi apprendere ed esercitare la critica; che il successo o l’insuccesso – magari finanziario – sia il fine ultimo dell’artista, e che una volta risolta la questione tecnica ed economica non si tratti altro che di produrre, secondo certi personali procedimenti, un certo genere di pittura, di scultura, di prosa o di poesia per prender posto tra i colleghi più fortunati, e passare in massa alla storia. È evidente che, quali che siano i loro doni naturali, vivendo costoro nella bassa sfera del contingente, senza possibilità di ampi sguardi sul mistero e il divino delle cose, senza alcuno di quei profondi sentimenti di felicità, o di dolore, o di malinconia, o di angoscia cosmica che nell’opera si traducono in soavità, forza, grandiosità o terribilità di stile, il loro inevitabile destino è la mediocrità. Una mediocrità, se si vuole, onesta e dignitosa, anche onorevole; ma non per questo meno reale.
Gli altri, più presuntuosi, il loro caso è men semplice, se pur non meno deplorabile. Essi non ignorano, abbiamo visto, che un problema dell’essere esiste, che i grandi di tutti i tempi ne sono stati travagliati nell’anima, ed hanno avuto ciascuno la loro visione del mondo, il loro concetto della vita rispetto alla morte, all’eterno, all’aldilà, e dell’uomo rispetto all’altro uomo ed alla società. Essi non ignorano tutto ciò né il resto che ne consegue: ma negano che tutto ciò sia necessario all’artista moderno; ed anzi sostengono che non solo non è necessario; ma è dannoso e d’impedimento alle facoltà creative tanto artistiche quanto letterarie. Una concezione del mondo – essi argomentano – mentre inchioda l’artista ad un certo ordinamento delle idee, ad una certa coerenza e ad un certo rigore di forme, gl’inibisce quella totale libertà immaginativa che può condurlo a prodigiose scoperte, a combinazioni nuove di pensieri e d’immagini emancipate dalla logica vitale, ad espressioni liriche senza precedenti e che possono avere del magico. Press’a poco come l’uomo che il sonno libera dalla nozione della realtà circostante realizza nel sogno un mondo al tutto nuovo, indipendente e pieno di meraviglie inaudite. Questa figura d’artista “moderno”, svincolato da tutto che non sia il “puro”, “disinteressato”, “magico” esercizio della propria arte non è nuova: sono vari decenni che la conosciamo. La conosciamo anche troppo.

0 GALLERY HIMALAYA
Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo.

Ora, quel che Soffici dice degli artisti e dei poeti, vale anche per i filosofi e, in genere, per tutti gli uomini di pensiero e di cultura; no: per tutti gli uomini senz’altro. Perché anche i nostri nonni, persone semplici e laboriose, magari con la quinta o la sesta elementare, persone poco istruite secondo gli standard intellettuali, e tuttavia persone positive, solide, capaci d’imprimere alla loro vita la direzione giusta, pur in mezzo a difficoltà e sacrifici, una visione del mondo l’avevano. Ed era una visione unitaria e spirituale. Forse non avrebbero saputo esprimerla a parole; o non avrebbero saputo farlo con le parole giuste, con le parole forbite del gergo accademico. Ma tutta la loro vita, come padri e madri, come mariti e mogli, come lavoratori, come imprenditori, come artigiani, come insegnanti, come sacerdoti o religiose, stava lì a testimoniare che essi avevano una visione del mondo, e che quella visione illuminava i loro passi, guidava le loro scelte, consigliava i loro pensieri e le loro decisioni. Non si crogiolavano nello sterile dubbio, come l’Amleto di essere o non essere; non cincischiavano le loro fisime, le loro paranoie, come gli inetti di Svevo, né stavano a chiedersi se ciascuno di noi è uno, nessuno o centomila; e non perdevano tempo a rammaricarsi d’esser nati, come Leopardi o Montale, né a deprecare la misera e infelice condizione dell’uomo, serrando i pugni contro Dio. Sapevano, come Dante, come i costruttori delle cattedrali, come Caterina da Siena, che la vita ci è data per fare il bene; che veniamo da Dio e torniamo a Dio; e che la verità suprema, garante di tutte le altre, è nella Rivelazione che Lui ha fatto a noi, specialmente incarnandosi e vivendo la nostra stessa vita, per rinsegnarci la via del Cielo. Tutto il resto veniva di conseguenza. Il lavoro, la famiglia, la patria, l’onestà, la sobrietà, la lealtà, la fedeltà, l’assunzione di responsabilità, la capacità di affrontare sacrifici senza lamentarsi, senza far le vittime, senza pretendere più del ragionevole, ma anche senza arrendersi facilmente davanti agli ostacoli: tutto questo veniva da lì, da quella visione del mondo, unitaria e spirituale. Non pensavano che si viene al mondo per caso, né che si sprofonda nel nulla eterno con la morte; non credevano che la vita sia un gioco, o uno scherzo. La prendevano sul serio, così come essa merita.

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Consumismo, folle narcisismo, escludere Dio? tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità e le sue mode conducono allo stesso vicolo cieco il dubbio radicale e il nulla.

Ma la cosa più importante, nella loro filosofia di vita, era la mancanza di attaccamento,  nel senso egoico del termine. Non erano attaccati alle cose più di quanto non convenga; sapevano che le cose, tutte le cose, anche le più belle, sono transitorie, sono mezzi per giungere al fine, non hanno realmente valore in se stesse. Nessuna cosa di questo mondo ha valore in se stessa, fino al punto da divenire un assoluto: tutte hanno valore se sono una scala verso il Cielo, ma sono un inganno o una droga se fanno dimenticare quella meta. La meta degli uomini è  il Cielo; è la vita e non la morte. L’essere per la morte di Heidegger è il lugubre ritratto di una umanità che ha smarrito la visione unitaria e spirituale del mondo; e così lo straniero di Camus, che non sa perché vive, perché uccide e perché muore; e l’uomo di Sartre, votato al Nulla, solo e disperato, che odia gli altri e maledice la propria libertà, perché la vive come la propria dannazione in terra, come un dono insopportabile che non desiderava, come una croce e una beffa insensata. Tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità, quale per una strada, quale per un’altra, conducono allo stesso vicolo cieco: il dubbio radicale e il nulla; perché tutte condividono lo stesso atteggiamento di fondo: l’attaccamento nei confronti delle cose, la brama di possederle, di manipolarle, di sottometterle. La tecnologia e il culto del progresso non fanno eccezione, anzi, sono l’espressione eclatante di tale atteggiamento sbagliato, che produce una serie di distorsioni mentali e  una serie di comportamenti inadeguati nei confronti della vita. Gli uomini moderni non sanno vivere la vita perché hanno dimenticato che viverla è un’arte; e hanno dimenticato, o forse non hanno mai saputo, che ogni arte richiede un apprendistato, e che il vero apprendistato alla vita è fatto di umiltà, di ascolto e di buoni esempi. Ma gli uomini moderni, gonfi di superbia per le loro cosiddette conquiste, non sanno proprio dove stiano di casa l’umiltà e l’ascolto, e di conseguenza non si pongono mai nelle condizioni di poter imparare: di imparare la cosa essenziale, beninteso, perché di sciocchezze e di frivolezze ne imparano fin troppe, tutti i giorni e fin da bambini. Quanto ai buoni esempi, non che ne abbiano ricevuti molti, perché la generazione degli adulti è stata la prima a cedere, a tradire, a buttare la tradizione nel cestino della carta straccia e a correr dietro a tutte le mode della modernità, anche le più stupide, le più pericolose, le più distruttive, a cominciare dalla più diabolica di tutte: quella del consumismo, che porta via l’anima di quanti se ne fanno schiavi.

0 AMLETO MODERNO
I nostri nonni, una visione del mondo l’avevano: non si crogiolavano nello sterile dubbio, come l’Amleto di essere o non essere; non cincischiavano le loro fisime, le loro paranoie, come gli inetti di Svevo, né stavano a chiedersi se ciascuno di noi è uno, nessuno o centomila; e non perdevano tempo a rammaricarsi d’esser nati, come Leopardi o Montale, né a deprecare la misera e infelice condizione dell’uomo, serrando i pugni contro Dio.

Escludere Dio dalla propria vita, cioè ignorare la sua legge morale, e sottomettere la natura, cioè piegarla ai propri desideri più sfrenati: ecco il programma dell’uomo moderno; che culmina nell’auto-glorificazione di sé, e che provoca naturalmente il suo inevitabile contraccolpo: l’angoscia mortale, la disperazione e il desiderio di auto-annientamento. L’uomo moderno si detesta, in fondo, perché si ama troppo: ma sa di amarsi nella maniera sbagliata, sa di aver perso la ragione perché accecato dal proprio folle narcisismo; ed è troppo superbo, troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato strada e per cercare quella giusta, dalla quale si è discostato. Sarebbe come riconoscere il proprio fallimento: perciò, come un adolescente immaturo, è disposto a pagare qualsiasi prezzo, anche la rovina totale del mondo che lui stesso ha costruito, piuttosto di ammettere con umiltà e semplicità d’essersi completamente sbagliato. C’è, in questa cieca ostinazione nell’errore, in questa tenace perseveranza nel male, qualcosa di realmente spaventoso: è il segno di un indurimento del cuore e di un offuscamento della mente. L’uomo moderno è, alla lettera, un ossessionato, forse un posseduto: smania per esercitare la propria signoria su tutte le cose, ma ha perso il controllo della cosa più importante, se stesso. Non è più il padrone della sua stessa volontà: si è fatto schiavo di qualcos’altro, o piuttosto di qualcun altro, di un signore potente e terribile, dai cui artigli nessuno è mai uscito vivo, a meno che si sia gettato in ginocchio e abbia implorato l’aiuto di Dio. Ma dove trovare una simile umiltà, una simile franchezza, dopo aver coltivato con tanta pervicacia la mala pianta dell’orgoglio? La riflessione di Soffici mostra una strada per allontanarsi dal pericolo della perdita di senso e ritrovare una visione del mondo; ma non basta. La sua visione è ancora troppo materiale, immanente. Parla, sì, del divino, ma ne parla in maniera veramente troppo umana: èun divino umanizzato, sa di auto-divinizzazione dell’uomo: il che significherebbe ricadere nel baratro dal quale si vorrebbe emergere. No: per uscire dal vicolo cieco della modernità, c’è una sola strada percorribile: quella del Vangelo. È lì che si trova ciò di cui l’uomo ha bisogno, da sempre e per sempre: una visione unitaria e spirituale del mondo. Quella di Gesù: Dio che si fa uomo per amore…

Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo

di Francesco Lamendola


Molto acuto questo articolo del dott. Samuel Gregg su una delle malattie che oggi affligge il cattolicesimo, cioè la Chiesa: il sentimentalismo. Riprendo la quasi totalità dell’articolo nella mia traduzione.
Foto: card. J. Ratzinger
Foto: card. J. Ratzinger
 (…)
Il cattolicesimo ha sempre attribuito grande valore alla ragione. Per ragione, non intendo solo le scienze che ci danno accesso ai segreti della natura. Intendo anche la ragione che ci permette di sapere come usare correttamente queste informazioni; i principi della logica che ci dicono che 2 volte 2 non può mai totalizzare 5; la nostra capacità unica di conoscere la verità morale; e la razionalità che ci aiuta a comprendere e spiegare la Rivelazione.
Tale è la considerazione del cattolicesimo per la ragione che questa enfasi è talvolta sfociata in un iper-razionalismo, come quello che Thomas More e John Fisher pensavano caratterizzasse molta teologia scolastica nei vent’anni precedenti la Riforma Protestante. L’iperrazionalismo non è, tuttavia, il problema del cristianesimo nei Paesi occidentali di oggi. Ci troviamo di fronte alla sfida opposta. Lo chiamerò Affectus per solam.
“By Feelings Alone” (per soli sentimenti, ndr) cattura gran parte dell’atmosfera presente all’interno della Chiesa in tutto l’Occidente. Ha un impatto su come alcuni cattolici vedono non solo il mondo ma anche la fede stessa. Al centro di questo sentimentalismo diffuso c’è l’esaltazione di sentimenti fortemente sentiti, una svalutazione della ragione e la conseguente infantilizzazione della fede cristiana.
Quali sono dunque i sintomi di Affectus per solam? Uno è l’uso diffuso di un linguaggio nella  quotidiana predicazione e nell’insegnamento che è più caratteristico della terapia che delle parole usate da Cristo e dai suoi apostoli. Parole come “peccato” svaniscono così e sono sostituite da “dolori“, “rimpianti” o “errori tristi“.
Il sentimentalismo rialza la testa anche quando a coloro che offrono difese ragionate dell’etica sessuale o medica cattolica viene detto che le loro posizioni sono “offensive” o “giudicanti”. La verità, a quanto pare, non dovrebbe essere articolata, nemmeno delicatamente, se può ferire i sentimenti di qualcuno. Se fosse vero, Gesù avrebbe dovuto astenersi dal raccontare alla donna samaritana i fatti della sua storia matrimoniale.
Affectus per solam (cioè il sentimentalismo) ci rende ciechi anche verso la verità che c’è – come afferma Cristo stesso – un luogo chiamato Inferno per coloro che muoiono senza essersi pentiti. Il sentimentalismo semplicemente evita la questione. L’inferno non è un argomento da prendere alla leggera, ma ponetevi questa domanda: quando è stata l’ultima volta che durante la Messa avete sentito parlare della possibilità che qualcuno di noi possa finire eternamente separato da Dio?
Soprattutto, il sentimentalismo si rivela in alcune presentazioni di Gesù Cristo. Il Cristo il cui duro insegnamento sconvolse i suoi stessi seguaci e che rifiutò ogni concessione al peccato quando parlava di amore viene ridotto oggi in qualche modo ad un piacevole rabbino liberale. Questo Gesù inoffensivo non ci sfida mai a trasformare la nostra vita abbracciando la completezza della verità. Invece ricicla banalità come “ognuno ha la sua verità“, “fa’ quello che ti senti meglio di fare”“sii fedele a te stesso”“abbraccia la tua storia”, “chi sono io per giudicare”, ecc. E non temere mai: questo Gesù garantisce il cielo, o qualcosa del genere, per tutti.
Questo non è, però, il Cristo rivelato nelle Scritture. Come scrisse Joseph Ratzinger nel suo libro del 1991Guardare Cristo:
Un Gesù che è d’accordo con tutto e con tutti, un Gesù senza la sua santa ira, senza la durezza della verità e del vero amore non è il vero Gesù come mostra la Scrittura, ma una miserabile caricatura. Una concezione del “vangelo” in cui la gravità dell’ira di Dio è assente non ha nulla a che vedere con il Vangelo biblico.
La parola “serietà” è qui importante. Il sentimentalismo che contagia gran parte della Chiesa è tutto ciò che riguarda la diminuzione della gravità e della chiarezza della fede cristiana. Questo è particolarmente vero per quanto riguarda la salvezza delle anime. Il Dio pienamente rivelato in Cristo è misericordioso, ma è anche giusto e chiaro nelle sue aspettative verso di noi perché ci prende sul serio. Guai a noi se non restituiamo la considerazione ricevuta.
Allora, quanto della Chiesa ha finito per sprofondare in una palude di sentimentalismo? Ecco tre cause principali.
In primo luogo, il mondo occidentale sta annegando nel sentimentalismo. Come tutti gli altri, i cattolici sono sensibili alla cultura in cui viviamo. Se volete la prova dell’Affectus per solam occidentale, basta attivare il vostro browser web. Presto noterete il puro emotivismo che pervade la cultura popolare, i media, la politica e le università. In questo mondo, la moralità riguarda il vostro impegno per cause particolari. Ciò che conta è quanto “appassionato” (notate l’espressione) sei nel tuo impegno, e il grado di correttezza politica della causa, non se la causa stessa è ragionevole da sostenere.
In secondo luogo, consideriamo come la fede è intesa da molti cattolici oggi. Per molti, sembra essere un “sentire la fede“. Con questo intendo dire che il significato della fede cristiana viene giudicato principalmente in termini di sentire ciò che fa per me, il mio benessere e le mie preoccupazioni. Ma indovinate un po’? Io, me stesso e io non siamo al centro della fede cattolica.
Il cattolicesimo è, dopo tutto, una fede storica. Si tratta di decidere che ci fidiamo di coloro che hanno testimoniato la vita, la morte e la risurrezione di Gesù Cristo, che hanno trasmesso ciò che hanno visto attraverso testi scritti e tradizioni non scritte, e che, abbiamo concluso, hanno detto la verità su ciò che hanno visto. Ciò include i miracoli e la risurrezione che attestano la divinità di Cristo. Il cattolicesimo non li vede come “storie”. Essere cattolici significa affermare che sono realmente accaduti e che Cristo ha istituito una Chiesa la cui responsabilità è quella di predicare questo fino agli estremi confini della terra.
La fede cattolica non può quindi riguardare me e i miei sentimenti. Si tratta invece della capitale “V”: la Verità. La realizzazione e la salvezza dell’uomo comporta, di conseguenza, la scelta libera e costante di conformarsi a quella Verità. Non si tratta di subordinare la Verità alle mie emozioni. Infatti, se il cattolicesimo non riguarda la Verità, che senso ha?
In terzo luogo, la pervasività del sentimentalismo nella Chiesa deve qualcosa agli sforzi tesi a declassare e distorcere la legge naturale a partire dal Vaticano II. La riflessione sul diritto naturale è stata in forma mista in tutto il mondo cattolico nei decenni che hanno preceduto gli anni Sessanta. Ma in seguito ha subito un’eclissi in gran parte della Chiesa. Questo in parte perché la legge naturale era parte integrante dell’insegnamento della Humanae Vitae (l’enciclica di Paolo V pubblicata nel 1968, ndr). Molti teologi hanno poi deciso che tutto ciò che stava alla base dell’Humanae Vitae doveva essere svuotato di ogni contenuto sostanziale.
Mentre i ragionamenti sul diritto naturale si sono ripresi in alcune parti della Chiesa dagli anni Ottanta in poi, abbiamo dovuto pagare un prezzo per l’emarginazione del diritto naturale. E il prezzo è questo: una volta relegata la ragione alla periferia della fede religiosa, si comincia a immaginare che la fede sia in qualche modo indipendente dalla ragione; o che la fede sia in qualche modo intrinsecamente ostile alla ragione; o che le proprie convinzioni religiose non richiedano spiegazioni da dare agli altri. Il risultato finale è la diminuzione della preoccupazione per la ragionevolezza della fede. Questo è un modo sicuro per finire nella palude del sentimentalismo.
Altre ragioni della forza di spinta del sentimentalismo nella Chiesa di oggi potrebbero essere menzionate: la scomparsa della logica dai programmi educativi, l’eccessiva deferenza per la (cattiva) psicologia e per la (cattiva) sociologia da parte di alcuni chierici formatisi negli anni Settanta, l’inclinazione a considerare l’opera dello Spirito Santo come qualcosa che potrebbe contraddire gli insegnamenti di Cristo, liturgie sciroppose auto-referenziali simili ai cartoni della Disney, ecc. È una lunga lista.
La soluzione non è declassare l’importanza di emozioni come l’amore e la gioia o la rabbia e la paura per le persone. Noi non siamo robot. I sentimenti sono aspetti centrali della nostra natura. Invece, le emozioni umane devono essere integrate in un resoconto coerente della fede cristiana, della ragione umana, dell’azione umana e della fioritura umana – una cosa intrapresa con grande abilità da figure del passato come Tommaso d’Aquino e pensatori contemporanei come il compianto Servais Pinckaers. Allora abbiamo bisogno di vivere la nostra vita di conseguenza.
Sfuggire a Affectus per solam (cioè al sentimentalismo, ndr) non sarà facile. È semplicemente parte dell’aria che respiriamo in Occidente. Inoltre, alcuni dei più importanti responsabili oggi della formazione di persone alla fede cattolica sembrano molto sensibili a modi sentimentali. Ma a meno che non si faccia il nome e si contesti l’emotivismo sfrenato che attualmente compromette la testimonianza della Chiesa alla Verità, rischiamo di rassegnarci al mero ONGismo (ad una Chiesa simile ad una ONG, cioè una Organizzazione Non Governativa, ndr) per il prossimo futuro.
Vale a dire, alla vera irrilevanza.
Samuel Gregg è direttore di ricerca presso l’Acton Institute. Ha scritto e parlato a lungo su questioni di economia politica, storia economica, etica della finanza e teoria del diritto naturale. È autore di numerosi libri, tra cui Diventare l’Europa (2013) e Per Dio e il profitto: come le banche e la finanza possono servire il bene comune (2016).
 Sabino Paciolla

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