Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo. Consumismo folle narcisismo escludere Dio? tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità e le sue mode conducono allo stesso vicolo cieco il dubbio radicale e il nulla
di Francesco Lamendola
La nostra impotenza nasce dall’oblio della visone unitaria e spirituale del mondo. Gli uomini sono capaci di grandezza quando ce l’hanno; diventano piccoli come nani quando la smarriscono. E se la smarriscono gli uomini, la smarriscono le civiltà; se la smarriscono le civiltà, la smarriscono anche i singoli uomini. Finché la visione del reale è di tipo materialista e riduzionista; finché le cose sono percepite una alla volta, in sequenza, isolatamente, separatamente le une dalle altre; finché non si sa vedere il legame che le unisce tutte, dalla prima all’ultima, e non si comprende che tale legame è di tipo spirituale e non materiale, si resta nelle secche dei pesci d’acqua dolce, ben lontano dalle profondità abissali dove si avventurano le creature oceaniche. Un delfino non può vivere in una vasca da bagno e un albatro non può sopravvivere in una voliera di pochi metri. L’uomo è fatto per le grandi altezze e le grandi profondità – questa è la sua vocazione e questo il suo destino, la sua grandezza e la sua croce, la sua luce e la sua nostalgia. Se smarrisce questa consapevolezza, si rattrappisce, s’immiserisce, diviene l’ombra di se stesso, una creature deforme e mutilata, dalla coscienza infelice, che languisce in attesa di morire. Ma l’uomo non è fatto per la morte, come non è fatto per gli spazi minuscoli; no: è fatto per la vita, come è fatto per le immensità che sanno di vento e di salsedine.
Giovanni Papini e Ardengo Soffici
Vale la pena di rileggersi quel che scriveva un grande italiano quasi dimenticato, Ardengo Soffici - scrittore e poeta di valore, cui ha nuociuto l’adesione al fascismo e, peggio, alla Repubblica Sociale, nella cultura italiana del secondo dopoguerra, egemonizzata in maniera quasi totalitaria dalle forze di sinistra - in un saggio intitolato Considerazioni inattuali, alla vigilia della Seconda guerra mondiale (su Il Frontespizio, agosto 1939; ripubblicato in: A. Soffici, Estetica e politica. Scritti critici 1920-1940, a cura di Simonetta Bartolini, Milano, Solfanelli Editore, 1994, pp. 344-347):
Una visione del mondo, un complesso di quel che si dice “idee generali”; un latente tormento dell’anima sitibonda d’assoluto; un problema dell’essere fortemente sentito: mi pare che questo siano sempre stati e siano ancora gli elementi costitutivi della reale grandezza e spirituale superiorità dell’uomo; particolarmente dell’uomo artista e poeta. (…)
Gli artisti e gli scrittori antichi, che vivevano in una società ordinata secondo i principi di una religione indiscussa o poco e segretamente discussa, che respiravano, per così dire, la verità ambiente ed ammessa dall’universale, la loro visione del mondo si potrebbe definire ortodossa. Essa era quella che i dominatori spirituali ed intellettuali dell’epoca avevano presentato all’umanità civile; e ciò che differenziava le loro opere era piuttosto l’accento caratteristico del particolare temperamento di ognuno, il timbro della sensibilità visiva, plastica, musicale e affettiva di ogni singolo autore. Con lo sconquasso portato nel’ordine antico religioso dalle eresie, dalla scienza, dal sofisma filosofico e critico, da tutto quello che con termine generico si dice modernità, il concetto la visione comune del mondo furono sovvertiti come tutto il resto: la necessità di possederli non fu però abolita. È anzi questa la ragione maggiore per cui, dopo tanto cataclisma, ogni artista e poeta moderno deve avere il suo e la sua; poiché solo dal riflesso di quelli nella costui opera si potrà riconoscere il suo non esser nullo o volgare.
Sembra che i giovani artisti e scrittori miei visitatori, di cui dicevo in principio, non siano di questo parere. Più francamente parlando, dirò che la maggior parte di essi ha l’aria di non avere neanche la minima idea che il problema di cui si tratta possa esistere per qualcuno dei loro colleghi; mentre l’altra parte non ignora il problema, ma sì lo rigetta, lo considera come un inutile gravame, una pastoia spirituale, e si fa vanto di questo suo radicale rinnegamento e disprezzo.
Gli uni, candidi ignoranti, opachi intelletti tutti impegolati nel quotidiano e nella provvisorietà del fenomeno, credono che il fatto dell’arte partecipi della pratica e del mestiere, che vedere ciò che gli altri fanno e parlarne come si farebbe di un esercizio ginnastico o di una gara atletica significhi apprendere ed esercitare la critica; che il successo o l’insuccesso – magari finanziario – sia il fine ultimo dell’artista, e che una volta risolta la questione tecnica ed economica non si tratti altro che di produrre, secondo certi personali procedimenti, un certo genere di pittura, di scultura, di prosa o di poesia per prender posto tra i colleghi più fortunati, e passare in massa alla storia. È evidente che, quali che siano i loro doni naturali, vivendo costoro nella bassa sfera del contingente, senza possibilità di ampi sguardi sul mistero e il divino delle cose, senza alcuno di quei profondi sentimenti di felicità, o di dolore, o di malinconia, o di angoscia cosmica che nell’opera si traducono in soavità, forza, grandiosità o terribilità di stile, il loro inevitabile destino è la mediocrità. Una mediocrità, se si vuole, onesta e dignitosa, anche onorevole; ma non per questo meno reale.
Gli altri, più presuntuosi, il loro caso è men semplice, se pur non meno deplorabile. Essi non ignorano, abbiamo visto, che un problema dell’essere esiste, che i grandi di tutti i tempi ne sono stati travagliati nell’anima, ed hanno avuto ciascuno la loro visione del mondo, il loro concetto della vita rispetto alla morte, all’eterno, all’aldilà, e dell’uomo rispetto all’altro uomo ed alla società. Essi non ignorano tutto ciò né il resto che ne consegue: ma negano che tutto ciò sia necessario all’artista moderno; ed anzi sostengono che non solo non è necessario; ma è dannoso e d’impedimento alle facoltà creative tanto artistiche quanto letterarie. Una concezione del mondo – essi argomentano – mentre inchioda l’artista ad un certo ordinamento delle idee, ad una certa coerenza e ad un certo rigore di forme, gl’inibisce quella totale libertà immaginativa che può condurlo a prodigiose scoperte, a combinazioni nuove di pensieri e d’immagini emancipate dalla logica vitale, ad espressioni liriche senza precedenti e che possono avere del magico. Press’a poco come l’uomo che il sonno libera dalla nozione della realtà circostante realizza nel sogno un mondo al tutto nuovo, indipendente e pieno di meraviglie inaudite. Questa figura d’artista “moderno”, svincolato da tutto che non sia il “puro”, “disinteressato”, “magico” esercizio della propria arte non è nuova: sono vari decenni che la conosciamo. La conosciamo anche troppo.
Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo.
Ora, quel che Soffici dice degli artisti e dei poeti, vale anche per i filosofi e, in genere, per tutti gli uomini di pensiero e di cultura; no: per tutti gli uomini senz’altro. Perché anche i nostri nonni, persone semplici e laboriose, magari con la quinta o la sesta elementare, persone poco istruite secondo gli standard intellettuali, e tuttavia persone positive, solide, capaci d’imprimere alla loro vita la direzione giusta, pur in mezzo a difficoltà e sacrifici, una visione del mondo l’avevano. Ed era una visione unitaria e spirituale. Forse non avrebbero saputo esprimerla a parole; o non avrebbero saputo farlo con le parole giuste, con le parole forbite del gergo accademico. Ma tutta la loro vita, come padri e madri, come mariti e mogli, come lavoratori, come imprenditori, come artigiani, come insegnanti, come sacerdoti o religiose, stava lì a testimoniare che essi avevano una visione del mondo, e che quella visione illuminava i loro passi, guidava le loro scelte, consigliava i loro pensieri e le loro decisioni. Non si crogiolavano nello sterile dubbio, come l’Amleto di essere o non essere; non cincischiavano le loro fisime, le loro paranoie, come gli inetti di Svevo, né stavano a chiedersi se ciascuno di noi è uno, nessuno o centomila; e non perdevano tempo a rammaricarsi d’esser nati, come Leopardi o Montale, né a deprecare la misera e infelice condizione dell’uomo, serrando i pugni contro Dio. Sapevano, come Dante, come i costruttori delle cattedrali, come Caterina da Siena, che la vita ci è data per fare il bene; che veniamo da Dio e torniamo a Dio; e che la verità suprema, garante di tutte le altre, è nella Rivelazione che Lui ha fatto a noi, specialmente incarnandosi e vivendo la nostra stessa vita, per rinsegnarci la via del Cielo. Tutto il resto veniva di conseguenza. Il lavoro, la famiglia, la patria, l’onestà, la sobrietà, la lealtà, la fedeltà, l’assunzione di responsabilità, la capacità di affrontare sacrifici senza lamentarsi, senza far le vittime, senza pretendere più del ragionevole, ma anche senza arrendersi facilmente davanti agli ostacoli: tutto questo veniva da lì, da quella visione del mondo, unitaria e spirituale. Non pensavano che si viene al mondo per caso, né che si sprofonda nel nulla eterno con la morte; non credevano che la vita sia un gioco, o uno scherzo. La prendevano sul serio, così come essa merita.
Consumismo, folle narcisismo, escludere Dio? tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità e le sue mode conducono allo stesso vicolo cieco il dubbio radicale e il nulla.
Ma la cosa più importante, nella loro filosofia di vita, era la mancanza di attaccamento, nel senso egoico del termine. Non erano attaccati alle cose più di quanto non convenga; sapevano che le cose, tutte le cose, anche le più belle, sono transitorie, sono mezzi per giungere al fine, non hanno realmente valore in se stesse. Nessuna cosa di questo mondo ha valore in se stessa, fino al punto da divenire un assoluto: tutte hanno valore se sono una scala verso il Cielo, ma sono un inganno o una droga se fanno dimenticare quella meta. La meta degli uomini è il Cielo; è la vita e non la morte. L’essere per la morte di Heidegger è il lugubre ritratto di una umanità che ha smarrito la visione unitaria e spirituale del mondo; e così lo straniero di Camus, che non sa perché vive, perché uccide e perché muore; e l’uomo di Sartre, votato al Nulla, solo e disperato, che odia gli altri e maledice la propria libertà, perché la vive come la propria dannazione in terra, come un dono insopportabile che non desiderava, come una croce e una beffa insensata. Tutte le visioni del mondo prodotte dalla modernità, quale per una strada, quale per un’altra, conducono allo stesso vicolo cieco: il dubbio radicale e il nulla; perché tutte condividono lo stesso atteggiamento di fondo: l’attaccamento nei confronti delle cose, la brama di possederle, di manipolarle, di sottometterle. La tecnologia e il culto del progresso non fanno eccezione, anzi, sono l’espressione eclatante di tale atteggiamento sbagliato, che produce una serie di distorsioni mentali e una serie di comportamenti inadeguati nei confronti della vita. Gli uomini moderni non sanno vivere la vita perché hanno dimenticato che viverla è un’arte; e hanno dimenticato, o forse non hanno mai saputo, che ogni arte richiede un apprendistato, e che il vero apprendistato alla vita è fatto di umiltà, di ascolto e di buoni esempi. Ma gli uomini moderni, gonfi di superbia per le loro cosiddette conquiste, non sanno proprio dove stiano di casa l’umiltà e l’ascolto, e di conseguenza non si pongono mai nelle condizioni di poter imparare: di imparare la cosa essenziale, beninteso, perché di sciocchezze e di frivolezze ne imparano fin troppe, tutti i giorni e fin da bambini. Quanto ai buoni esempi, non che ne abbiano ricevuti molti, perché la generazione degli adulti è stata la prima a cedere, a tradire, a buttare la tradizione nel cestino della carta straccia e a correr dietro a tutte le mode della modernità, anche le più stupide, le più pericolose, le più distruttive, a cominciare dalla più diabolica di tutte: quella del consumismo, che porta via l’anima di quanti se ne fanno schiavi.
I nostri nonni, una visione del mondo l’avevano: non si crogiolavano nello sterile dubbio, come l’Amleto di essere o non essere; non cincischiavano le loro fisime, le loro paranoie, come gli inetti di Svevo, né stavano a chiedersi se ciascuno di noi è uno, nessuno o centomila; e non perdevano tempo a rammaricarsi d’esser nati, come Leopardi o Montale, né a deprecare la misera e infelice condizione dell’uomo, serrando i pugni contro Dio.
Escludere Dio dalla propria vita, cioè ignorare la sua legge morale, e sottomettere la natura, cioè piegarla ai propri desideri più sfrenati: ecco il programma dell’uomo moderno; che culmina nell’auto-glorificazione di sé, e che provoca naturalmente il suo inevitabile contraccolpo: l’angoscia mortale, la disperazione e il desiderio di auto-annientamento. L’uomo moderno si detesta, in fondo, perché si ama troppo: ma sa di amarsi nella maniera sbagliata, sa di aver perso la ragione perché accecato dal proprio folle narcisismo; ed è troppo superbo, troppo orgoglioso per ammettere di aver sbagliato strada e per cercare quella giusta, dalla quale si è discostato. Sarebbe come riconoscere il proprio fallimento: perciò, come un adolescente immaturo, è disposto a pagare qualsiasi prezzo, anche la rovina totale del mondo che lui stesso ha costruito, piuttosto di ammettere con umiltà e semplicità d’essersi completamente sbagliato. C’è, in questa cieca ostinazione nell’errore, in questa tenace perseveranza nel male, qualcosa di realmente spaventoso: è il segno di un indurimento del cuore e di un offuscamento della mente. L’uomo moderno è, alla lettera, un ossessionato, forse un posseduto: smania per esercitare la propria signoria su tutte le cose, ma ha perso il controllo della cosa più importante, se stesso. Non è più il padrone della sua stessa volontà: si è fatto schiavo di qualcos’altro, o piuttosto di qualcun altro, di un signore potente e terribile, dai cui artigli nessuno è mai uscito vivo, a meno che si sia gettato in ginocchio e abbia implorato l’aiuto di Dio. Ma dove trovare una simile umiltà, una simile franchezza, dopo aver coltivato con tanta pervicacia la mala pianta dell’orgoglio? La riflessione di Soffici mostra una strada per allontanarsi dal pericolo della perdita di senso e ritrovare una visione del mondo; ma non basta. La sua visione è ancora troppo materiale, immanente. Parla, sì, del divino, ma ne parla in maniera veramente troppo umana: èun divino umanizzato, sa di auto-divinizzazione dell’uomo: il che significherebbe ricadere nel baratro dal quale si vorrebbe emergere. No: per uscire dal vicolo cieco della modernità, c’è una sola strada percorribile: quella del Vangelo. È lì che si trova ciò di cui l’uomo ha bisogno, da sempre e per sempre: una visione unitaria e spirituale del mondo. Quella di Gesù: Dio che si fa uomo per amore…
Ritrovare la visione unitaria e spirituale del mondo
di Francesco Lamendola
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