ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 22 novembre 2018

"Liberaci dalla mela"! (e dal verme dentro)

La traduzione del Gloria: problematiche sottese a Lc 2,14 



Notizia recentissima e suscitante un malcelato scalpore è il già preannunziato cambiamento della traduzione italiana in uso nella liturgia riformata del Pater e del Gloria, resi, a detta della Conferenza Episcopale Italiana, "più fedeli al testo evangelico".

Sull'inopportunità della nuova traduzione del Pater si è già detto e scritto molto nei siti e nei giornali cattolici, citando i commenti dei Padri e dei Dottori della Chiesa in sostegno della traduzione più lineare del ne nos inducas in tentationem. Senza scomodare sì ampi commentari, leggere i quali è comunque opera meritoria per la nostra formazione, sarebbe bastato riportare alla mente alcuni passi scritturali molto conosciuti: per esempio, il brano evangelico in cui Nostro Signore fu portato dallo Spirito nel deserto "per essere tentato", oppure il fatto che Iddio ci metta alla prova "come oro nel crogiuolo", richiamato in Sapienza 3,6, Giobbe 23,10 e altri passi ancora. San Paolo stesso afferma che Dio "darà la tentazione e il modo di uscirne". Ma, ancora più semplicemente, sarebbe bastata una minima conoscenza della lingua latina (e prima ancora di quella greca): i Vangeli riportano il termine εἰσενέγκῃς, congiuntivo aoristo del verbo εἰσφέρω, letteralmente "portare dentro"; l'equivalente latino (condivide infatti la radice indoeuropea *bher, idea di "portare", e il prefisso ingressivo) sarebbe infero, rispetto al quale induco (lett. "condurre dentro") presenta una sfumatura già più moderata. E, volendo, basterebbe conoscere anche soltanto la lingua italiana, esulando un po' dall'impiego stereotipato, semplicistico e sovente erroneo che se ne fa oggi, per rendersi conto che indurre, al di là della sfumatura quasi di atto subdolo cui lo colleghiamo ai nostri giorni, ha una gamma di significati ben più ampia.

Invocare la fedeltà al testo originario e la conoscenza delle lingue classiche appare tuttavia inutile di fronte alla CEI, le cui traduzioni sono sempre state caratterizzate da un'abbondante quantità di errori. Tra i più noti, un pro multis che diventa "ecumenicamente" per tutti e un ut intres sub tectum meum che diventa di partecipare alla tua mensa (traduzioni che farebbero sorridere e piangere al contempo qualsiasi insegnante di ginnasio le trovasse scritte dall'alunno in versione).
La stessa traduzione del Pater ne contiene almeno uno palese e grossolano, ancorché diffuso già in passato, ossia quello di leggere malo come ablativo di malum (per fare una battuta, almeno non hanno tradotto "liberaci dalla mela"!), quando assai più probabilmente (quasi certamente, se confrontiamo con il greco, in cui πονηρὸς,-ὰ,-ὸν [nel testo al gen. πονηροῦ] indica preferibilmente un essere, piuttosto che una cosa) è ablativo del maschile malus, cioè il Maligno. E questo solo per soffermarci all'errore evidente, senza entrare nell'annosa questione della doppia valenza di ἐπιούσιος (quotidiano e sovrasostanziale), sulla quale sono stati scritti libri interi.

Proprio però una pretesa fedeltà al testo originale di fronte invece all'errore e alla mistificazione evidenti del testo stesso impone di fare una riflessione, per quanto breve, anche sull'altro testo liturgico modificato in detto frangente, ovverosia il Gloria in excelsis. La cosiddetta "dossologia maggiore", che non è altro che una collazione di versetti più o meno in sequenza, si è storicamente presentata sotto molte forme: il testo latino presenta alcune aggiunte rispetto a quello greco, ma si ferma a in gloria Dei Patris, mentre il secondo prosegue con altri numerosi versetti; il rito aquilejese, giusto per citarne uno, prevedeva ben due forme di dossologia maggiore, di cui una contenente un rafforzamento del concetto trinitario con l'aggiunta di un et Sancte Spiritus, e l'altro con il tropo Mariae filius, riservato alle feste della Madonna. Tuttavia, un versetto è sicuramente inalienabile e certo, ovverosia il primo, tolto direttamente dal Vangelo (S. Luca 2,14). Eppure, i novatori-traduttori hanno voluto andare a toccare proprio quello!

Il discorso attorno a questo versetto, e particolarmente al sostantivo εὐδοκία(ς) (rarissimo nella prosa cristiana antica, hapax nella Sacra Scrittura) è quantomai complesso; partiamo intanto dal testo latino: tanto quello geronimiano (IV sec.), quanto quello della Vetus Itala (II-III sec.) e persino la pessima "ritraduzione" (se così si può chiamare) fatta negli anni '50 sono concordi nell'affermare: et in terra pax hominibus bonae voluntatis, con un normalissimo genitivo di qualità, ch'è stato comunemente tradotto nelle lingue nazionali di buona volontà.
Lessi uno studio paralinguistico che giustificava la traduzione (già circolante da decenni) amati dal Signore, in cui dunque gli uomini diventano oggetto della benevolenza di Dio, appellandosi alla diatesi del verbo greco δοκέω (onde il deverbativo εὐδοκία); tale lettura mi è parsa alquanto imprecisa, anzitutto perché nessun elemento mi fa supporre la passività del termine, in secondo luogo perché (cosa che lo stesso studio era costretto ad ammettere) se anche fosse passivo, nessun elemento se non un'improbabile interpretazione ad sensum determinerebbe il soggetto, e soprattutto perché sarebbe difficilmente giustificabile (anche tirando in ballo i semitismi) trasformare un genitivo qualitativo in una sorta di proposizione relativa passiva.
Se volessi indicare in greco negli uomini in cui si compiace, forte dei modelli a me noti, impiegherei di preferenza un participio chiaramente passivo (magari esplicitando pure l'agente) e soprattutto l'articolo! Se anche supponessimo per semitismo che un genitivo possa indicare un'idea più complessa, e ammesso (e non concesso) che si debba intendere il termine passivamente, in assenza di articolo non è usualmente possibile in greco rendere una determinazione selettiva, dunque in ogni caso amati dal Signore non dovrebbe restringere il campo a una sola parte dell'umanità (qui in realtà può esserci anche altra lettura, vide infra).

Questi sono solo alcuni dei problemi evidenti della nuova traduzione; se volessimo però fare realmente quello che non hanno fatto i traduttori della CEI, cioè andare a vedere i testi originali, ci accorgeremmo che la lezione Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκίας, abbondantemente oggi spacciata per originale, non compare che in un'edizione di critica filologica quale il Novum Testamentum Graece di Eberhard Nestle (Münster, Institut für neutestamentliche Textforschung, 1898), rivista nel '27 dal figlio Erwin e poi nel '52 da Kurt Aland (onde la sigla Nestle-Aland con cui s'indica comunemente questa edizione critica). Essa raccoglieva le osservazioni critiche di numerosi filologi; relativamente a Luca 2 si rifaceva all'interpretazione (originale e unica) di Konstantin von Tischendorf (+1874), teologo e filologo di Lipsia, che dallo studio di alcuni manoscritti sinaitici e delle citazioni patristiche suppose di dover leggere l'ultima parola di Luca 2,14 come il genitivo εὐδοκίας (sua argomentazione tra le più solide fu che gli antichi traduttori latini della Scrittura dovessero avere di fronte un genitivo per aver tradotto tutti concordemente bonae voluntatis).

Tutti le edizioni precedenti si rifanno però alla lezione che potremmo a buon diritto considerare corretta quantomeno per l'importanza ricoperta nella Storia della Chiesa e per il consenso unanime avuto per secoli (principio di Tradizione), tuttora ufficiale nella Bibbia e nella liturgia della Chiesa Greca, che recita: Δόξα ἐν ὑψίστοις Θεῷ καὶ ἐπὶ γῆς εἰρήνη ἐν ἀνθρώποις εὐδοκία. Il discusso genitivo risulta essere quindi un nominativo! Il versetto suonerebbe dunque così: Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace sulla terra e benevolenza tra gli uomini.
Questa è indubbiamente una lectio facilior, che in filologia verrebbe a priori scartata o comunque guardata con sospetto e sottovalutata rispetto alla lectio difficilior (per un principio che, pur da cultore di filologia, mi ha sempre fatto sorridere e, a leggere Luciano di Samosata, pare facesse sorridere già nel II secolo d.C.). Tuttavia lo studio della Sacra Scrittura non può assimilarsi a quello degli altri testi antichi, perché s'inserisce nell'alveo di una Tradizione di origine apostolica e divina, tràdita sino a noi attraverso i Padri, che è di valore estremamente superiore a qualsiasi ragionamento filologico (anche perché, viste le bizzarre posizioni di molti [presunti] filologi biblisti dell'ultimo secolo, ci sarebbe di che riscrivere l'intera Bibbia e buttare a mare buona parte del sostrato scritturale della nostra Fede...).

La quasi totalità delle traduzioni antiche della Sacra Scrittura (prescindendo da quella slava, che rispecchia i testi costantinopolitani del IX secolo) segue la lezione appena presentata. Tra tutte, segnalo la Bibbia di Re Giacomo (1611), che riporta: Glory to God in the highest, and on earth peace, good will toward men; e la Bibbia di Giovanni Diodati (1649): Gloria a Dio ne’ luoghi altissimi, Pace in terra, Benivoglienza inverso gli uomini. Anche se queste versioni afferiscono all'ambito riformato, sono imprescindibili testi di studio per chiunque affronti l'annosa questione della traduzione di testi biblici, soprattutto per la ratio e il modus operandi encomiabilmente preciso che vi fu dietro (il calvinista ginevrino Diodati non era certo gran teologo, nemmeno a detta degli eretici, ma era un eccellente e dotto linguista, peraltro uno dei pochi al tempo ad avere conoscenza profonda dell'ebraico, e la sua traduzione, ancora una volta a prescindere dall'eretica e pietistica interpretazione teologica che ne dà nelle note, è sempre stata riconosciuta dagli accademici come un lavoro filologico di magistrale portata e straordinaria accuratezza).

A questo punto, sciolte le questioni filologiche, è d'uopo ripercorrere brevemente le vicende storiche. Come molte delle "libere interpretazioni" delle versioni CEI della Scrittura (quelle presentate all'inizio sono le più note perché fanno parte della liturgia, ma la Bibbia CEI è zeppa di traduzioni a dir poco fantasiose), queste novità non sono frutto di un'invenzione originale, ma sono ricalcate da traduzioni protestanti recenti (le quali, a differenza di quelle antiche, sono prive di metodo linguistico affidabile, e sono volte principalmente a veicolare concetti teologici distorti): in Italia per esempio la Bibbia tradotta dal valdese Luzzatti nel 1927 presenta: pace in terra fra gli uomini ch’Egli gradisce!; e nella più o meno coeva Riveduta inglese si legge: on earth peace among men in whom he is well pleased.

Onde potrebbero esserci anche delle obiezioni teologiche da muovere alla nuova e discussa traduzione. Infatti, a seconda che gli amati dal Signore siano intesi in senso ampliativo o restrittivo, siamo di fronte a due posizioni dottrinali diverse e ambedue problematiche:
a) Se amati dal Signore è ampliativo, s'inserisce in quella corrente di "buonismo teologico" che in realtà prelude all'universalismo per cui viene meno il dogma extra Ecclesiam nulla salus, dacché tutti gli uomini sarebbero amati dal Signore.
b) Se invece è restrittivo (questa pare non essere la lettura che viene data oggi dai nuovi traduttori, ma probabilmente era quella di Luzzatti), si conforma alla dottrina calvinista dell'elezione incondizionata, per cui Dio ha già scelto alcuni da salvare (quelli che ama e che sono destinati a essere salvati; cfr. dottrina della perseveranza dei santi) e altri da dannare (quelli che non ama, e dunque ai quali non si applica il frutto della Redenzione, cfr. dottrina della redenzione limitata). Una dichiarazione di protestantesimo estremo abbastanza palese.
In ambo i casi, viene meno un concetto della dottrina ortodossa che invece (sia o meno la traduzione esatta, come abbiamo detto) l'espressione agli uomini di buona volontà rendeva appieno, cioè la sinergia necessaria tra la grazia divina e l'azione degli uomini (che ovviamente parte dalla volontà) perché questi ultimi raggiungano la salvezza ottenuta loro dal Cristo.

Infine, possiamo fare una riflessione sulla base che spinge i novatori a modificare il testo del Gloria, così come quello del Padre Nostro, che è una base tristemente umana e razionale che va contro l'essenza del Cristianesimo e la Rivelazione. San Paisios l'Athonita diceva che tutti gli errori del mondo cristiano in Occidente si possono ricondurre a uno solo: il razionalismo. In altre parole, il ragionare umanamente sulla Rivelazione anziché viverla, sino a modificarla per rendere "umana essa stessa". Come scrive qui un amico riferendosi alle modifiche al Pater: "Queste riforme indicano un profondo VUOTO di spiritualità, ossia di vita in Cristo, vuoto colmato da soli ragionamenti che appiattiscono e svuotano la rivelazione. Siamo peggio che nell'eresia, almeno nelle eresie storiche c'era rispetto almeno per qualcosa..."


http://traditiomarciana.blogspot.com/2018/11/la-traduzione-del-gloria-problematiche.html

Padre Nostro: quella traduzione che divide già la Chiesa
“Non ci indurre in tentazione”, il Catechismo…. «Questa domanda va alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non “indurci” in essa…..»
Bisogna e dobbiamo capire bene che – il Padre Nostro – è stata una delle prime Preghiere CHE HA UNITO TUTTI I CRISTIANI in ogni luogo e che nessuno aveva mai messo in discussione nella sua forma stabilita da tutta la Chiesa. Il primo a metterne in discussione la traduzione (ma non solo della preghiera di Gesù) fu Martin Lutero…. Oggi invece si GIUSTIFICA con il concetto dell’interpretazione, un cambiamento di questa Preghiera che in verità conduce alla divisione…. perché modifica il senso della sua comprensione che è dottrinale.
  • Benedetto XVI spiegava bene – vedi qui – quanto fosse meglio LASCIARE il Padre Nostro come stava
    – E non c’indurre in tentazione
    “Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci induce certo in tentazione! (…)
    Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani.
    Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor.10,13).”
IL CATECHISMO: VI. Non ci indurre in tentazione
[2846] Questa domanda va alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non “indurci” in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in” (Cf Mt 26,41) “non lasciarci soccombere alla tentazione”. «Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta “tra la carne e lo Spirito”. Questa richiesta implora lo Spirito di discernimento e di fortezza.
[2847] Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell’uomo interiore (Cf Lc 8,13-15; At 14,22; 2Tm 3,12) in vista di una «virtù provata» (Rm 5,3-5) e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte (Cf Gc 1,14-15). Dobbiamo anche distinguere tra “essere tentati” e “consentire” alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gen 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte.
«Dio non vuole costringere al bene: vuole esseri liberi… La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all’infuori di Dio, ignorano ciò che l’anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere» (Origene, De oratione 29).
[2848] “Non entrare nella tentazione” implica una decisione del cuore: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore… Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6,21; Mt 6,24). «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25). In questo “consenso” allo Spirito Santo il Padre ci dà la forza. «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13).
[2849] Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall’inizio (Cf Mt 4,1-11) e nell’ultimo combattimento della sua agonia (Cf Mt 26,36-44). Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente (Cf Mc 13,9; Mc 13,23; Mc 13,33-37; 2849 Mc 14,38; Lc 12,35-40). La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome (Cf Gv 17,11). Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza (Cf 1Cor 16,13; Col 4,2; 1Ts 5,6; 1Pt 5,8). Questa richiesta acquista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione finale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale. «Ecco, Io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante» (Ap 16,15).

Le voci si rincorrono e più fortemente dobbiamo pregare con le parole della vera Tradizione della Chiesa, quelle parole che miriadi di Santi hanno pronunciato, senza pretendere di cambiarle…. quanto piuttosto di comprenderle, come intenderle. Parliamo dell’ennesimo tentativo – approdato ad un accordo ideologico – atto a modificare il significato del termine NON INDURCI… in tentazione, nella Preghiera del Padre nostro. Noi vi abbiamo proposto qui, l’insegnamento di san Tommaso d’Aquino per comprendere perché è importante RESISTERE contro questa modifica della frase….  riportando anche integralmente  la breve e bellissima meditazione di san Francesco d’Assisi….
A seguire invece l’ultimo ed interessante articolo sull’argomento, trattato dal domenicano Padre Riccardo Barile, che vi proponiamo anche qui, in video:

Barile-3provinciale2Padre nostro, come se il Catechismo non esistesse

Tante discussioni sul “Padre nostro” sarebbero state evitate se qualcuno si fosse preso la briga di leggere il Catechismo e la sua spiegazione di “non indurci in tentazione”. Ma c’è un problema più ampio: inutile spendere anni sulla traduzione di una parola quando preti e vescovi regolarmente modificano a loro piacimento le parole della Liturgia.
È vero che nella santa Chiesa di Dio ci sono problemi e difficoltà ben più rilevanti e gravi della revisione della traduzione del Messale italiano, però è altrettanto vero che le notizie degli ultimi giorni sono state comunicate con molte imprecisioni e si sono taciuti certi problemi di fondo. È anche vero che non si possono pretendere certe precisioni dalla stampa laica, la quale semplificando al massimo ha annunciato: “Adesso nella Messa cambia il Padre nostro, come ha voluto Papa Francesco”. In realtà non è così e i problemi non sono tutti qui, per cui credo opportuno offrire qualche considerazione in più e in ordine sparso.
.Anzitutto è necessario prendere coscienza che, abbandonato l’uso del testo latino e adottate le lingue vive, una revisione delle traduzioni è necessaria almeno una volta ogni 100 anni o, ancor meglio, ogni 50. L’ovvia ragione è che la lingua cambia: cambia a volte il significato di qualche termine e cambia insensibilmente il modo di esprimersi e per convincersene basta leggere un giornale di cent’anni fa.
Basta anche consultare il Messale nella orazione per un coniuge defunto, dove la traduzione in corso (1983) usa prima il termine “sposo/sposa” e poi subito dopo “compagno/compagna”, che oggi non significa più sposo/sposa, ma la persona convivente in una unione di fatto. Tra parentesi, tutto si sarebbe evitato se si fosse tradotto alla lettera l’unico termine che il latino usa: “famulus / servo”: “accogli la tua serva e custodisci il tuo servo, perché, uniti in vita dal vincolo dell’amore coniugale, nell’eternità siano riuniti nella pienezza del tuo amore”; invece si è voluto tradurre prima sposo/sposa e poi compagno/compagna – per il NT siamo figli e servi, ma per certi preti siamo solo figli e non siamo più servi di Dio – e  bisogna per forza cambiare.
Insieme a queste ragioni linguistiche ce n’erano anche altre e cioè i cambiamenti teologici sul modo di tradurre richiesti da Liturgiam authenticam (28 marzo 2001), documento contestato dall’inizio ad oggi, per cui 16 anni di gestazione del lavoro di traduzione rischiano di produrre un risultato con criteri diversi e non unitario. Speriamo in bene.In ogni caso il lavoro di revisione era necessario non solo per cambiare l’inizio del Gloria e la fine del Padre nostro, ma anche per tradurre ex novo i formulari per i nuovi santi o altri formulari di messe aggiunte, come il formulario di una messa per richiedere la continenza (e viste le notizie attuali, sarà un formulario da usare di frequente!). Insomma, la realtà è molto più complessa delle semplificazioni di una certa comunicazione.
Venendo al Padre nostro e alla riformulazione della sesta domanda “non ci indurre in tentazione”, credo che bisogna mettere il cuore in pace: dopo che dai vescovi sarà approvata anche dalla Santa Sede, andrà accettata come esercizio di disciplina ecclesiale.
Ciò precisato, non è la soluzione migliore, dal momento che la complessità del testo rende insufficiente ogni traduzione, per cui sarebbe stato preferibile rimanere con la traduzione acquisita, tra l’altro supportata da tanta catechesi e da autorevoli commenti.
Credo utile porre in evidenza due considerazioni che non entrano in merito alla traduzione, ma al contesto ecclesiale.
Prima considerazione: la scelta della modifica era già nell’aria e allo studio da tempo e non è avvenuta, come comunicato da alcuni giornali, semplicemente a seguito di frasi immediate di Papa Francesco in un’intervista. Fuori dubbio che il Romano Pontefice ha l’autorità non solo di suggerire ma di imporre un cambiamento del genere, ma si tratta di richiedere un atto serio e impegnativo di obbedienza, che deve essere richiesto in modo altrettanto impegnativo, cioè con un documento ufficiale e redatto nella debita forma. Salva la libertà del Papa di concedere interviste e reagire a caldo, va evitato il messaggio sbrigativo e sbagliato che nella Chiesa si cambia qualcosa perché il Papa ha pronunciato una battuta in un’intervista.
Seconda considerazione: il cambiamento di traduzione mette in crisi il CCC 2846-2849 sulla spiegazione della sesta domanda del Padre nostro, dal momento che il CCC ragiona a partire dal testo latino reso fedelmente in italiano con “e non ci indurre in tentazione”. Personalmente ritengo che, invece di modificare la traduzione, sarebbe stato meglio stare alla traduzione precedente e approfondirne il senso con la profonda spiegazione che ne fa il CCC. Ma ormai il CCC da certuni è consultato e citato solo per affermare l’esigenza di cambiarlo. Comunque a uso dei lettori riportiamo qui il testo in oggetto, che consiglio caldamente non solo di leggere, ma di rileggere, tenere a mente e meditare: la recita del Padre nostro e la vita cristiana spiccheranno un salto di qualità più prezioso di tutto il vociare che ha accompagnato la nuova traduzione.
A livello minore poi la Bibbia CEI 2008 ha cambiato anche uno degli ultimi versetti del Magnificat: “come aveva promesso ai nostri padri” (Lc 1,55) è diventato «come aveva detto ai nostri padri»”, testo più fedele agli originali greco e latino e non limitato alle promesse, ma aperto ad ogni parola di Dio ai padri. Se ne terrà conto nella recita abituale del Magnificat? Ecco dunque un altro esempio della complessità della nuova edizione.
Si potrebbero affrontare tanti altri argomenti sulla nuova edizione italiana del Messale, ad esempio il canto dei testi liturgici, in particolare i dialoghi tra il sacerdote e il popolo. Tornando però ai testi e alle traduzioni, c’è una considerazione finale molto amara ma purtroppo realistica, ed è questa: coloro i quali hanno trascorso molto tempo a studiare le parole ad una ad una e coloro (i vescovi e la Santa Sede) che autorevolmente confermeranno le soluzioni adottate, si rendono conto che molti preti con libertà cambieranno le parole del Messale mandando all’aria con un soffio ore di dibattiti, di ricerche sui dizionari, di consultazioni di esperti? Non posso neppure immaginare che non se ne rendano conto. E allora perché non intervengono ribadendo con chiarezza che “non s’ha da fare”?
Ciò in realtà capita perché non è più interiormente vissuto ed esteriormente confermato (sino ad arrivare a interventi correttivi) il principio enunciato dal concilio – non di Trento ma Vaticano II – che «Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo … nelle competenti assemblee episcopali territoriali. Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica» (SC 22).
“Aggiungere / togliere / cambiare” sono le tre forme degli “abusi”, ricordate dal n. 24 della Istitutio Generalis del Messale Romano (2000) e nella Redemptionis sacramentum n. 31: i sacerdoti «non svuotino il significato profondo del loro ministero, deformando la celebrazione liturgica con cambiamenti, riduzioni o aggiunte arbitrarie». Ora questo procedimento si applica non solo ai gesti e ai movimenti, ma alle parole: quante parole dei testi liturgici taciute, aggiunte o modificate!
Il problema non è il prete clown o il prete che proclama “il Credo non lo diciamo perché non ci credo”: questi sono casi limite, dove sostanzialmente si reagisce bene prendendo le debite distanze. Il problema sono i preti buoni e normali, soprattutto quelli che “sanno parlare alla gente” o peggio che “non parlano da preti ma come la gente”, i quali ormai non hanno più coscienza che osservare le rubriche e non modificare i testi dove non è previsto è un atto di osservanza della disciplina della Chiesa e di trasmissione della tradizione. Come mai? Beh… a causa di una carente formazione in seminario e del non intervento dei vescovi (fatto salvo il segreto del cuore di ognuno che Dio solo conosce).
Lo so che si obietta: “In antico non era così, i testi erano autorevoli ma non costrittivi”. Vero, ma appunto “in antico”. Ciò significa che a certe fasi di vita della Chiesa ne subentrano altre dove maturano altri valori e non è detto che l’antichità di una prassi sia sempre un criterio assoluto di perfezione. In ogni caso l’obbedienza alla normativa liturgica e a pronunciare i testi senza i tre abusi ricordati anche laddove i testi potrebbero in un futuro essere modificati in meglio, è adattarsi all’attuale ritmo di marcia della Chiesa; è attendere – pur presentando una proposta di modifica a chi di dovere – che la modifica sia vagliata e acquisita nel più ampio contesto ecclesiale e non da uno solo o da un piccolo gruppo; è avere l’umiltà di fare la coda allo sportello; è servire meglio Gesù Cristo servendo il popolo di Dio.
Sarebbe auspicabile che consegnando la nuova edizione del Messale si ricordasse tutto questo con una lode per chi lo sta già praticando, evitando di confonderlo con i ritualisti, gli esteti, i neopelagiani ecc. e risparmiandolo dalla scudisciata verso costoro.
Altrimenti a che sarà servito tanto studio nello scegliere le parole se poi più di un prete (vescovo?) le cambia e lo fa senza timore, tanto è sicuro che nessuno interverrà? Si continuerà – e qui concludo ridendo – con un abuso che ho sentito: nella preghiera che segue il Padre nostro uno al posto di “vivremo sempre liberi dal peccato” ha detto “vivremo sempre liberi” e basta. A me è subito venuto in mente il “Sempre libera degg’io” a chiusa del primo atto della Traviata. Che sarà la conclusione di chi cambia con disinvoltura le parole del Messale: un “traviamento”, un andare fuori strada. Che il Signore misericordioso ce ne liberi!

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