4 Novembre: in Italia da 100 anni si celebra la vittoria nella “Grande Guerra”. La retorica nazionalista ha sempre visto in questa data uno dei suoi capisaldi ideologici e propagandistici. Le “terre irredente” di Trento e Trieste erano finalmente riunite alla grande Patria. Alcuni videro nella Prima Guerra Mondiale l’ultimo conflitto del Risorgimento. In effetti, questa guerra ebbe gli stessi intenti di quelle risorgimentali: realizzare una rivoluzione di valori, costumi, tradizioni. Era una guerra contro la Chiesa, contro il Cattolicesimo. Una guerra contro l’Impero Asburgico, ultimo retaggio di quello che era stato il Sacro Romano Impero.
Lo scoppio della guerra in Europa nel 1914 fu vista da determinati ambienti politici e culturali come la grande occasione per battezzare nel sangue il popolo italiano, per forgiarlo come ferro sull’incudine, per “metterlo in forma”, scrollandogli di dosso l’indole pacifica del contadino devoto e baciapile e trasformarlo in un guerriero spietato, degno erede dei legionari di Cesare.
La guerra vede Italia e Santa Sede immediatamente in conflitto di interessi e di obiettivi: la Santa Sede infatti ambiva ad uscire dall’isolamento diplomatico in cui giaceva, per costituirsi come una ascoltata coscienza morale del mondo; a quel punto la questione romana sarebbe stata presentata nei termini voluti dal papa: un problema che riguardava tutti i cattolici e tutti i loro rappresentanti nei singoli stati e non una faccenda interna all’Italia. Inoltre il ruolo internazionale guadagnato dalla Santa Sede con una sua partecipazione al futuro congresso della pace avrebbe testimoniato in favore della giustezza dell’impostazione vaticana dei termini della questione. Al contrario la politica del ministro degli Esteri Sonnino era volta a tenere il Vaticano quanto più possibile fuori dai giochi delle grandi potenze, per il timore che queste potessero trovare nella questione romana una motivazione sufficiente a ricattare il regno sabaudo. Il timore dell’isolamento in cui l’Italia si sarebbe con ogni probabilità ritrovata qualora avesse scelto la via della neutralità, per di più con una situazione all’interno sempre più difficilmente governabile per la vecchia classe politica liberale, a causa del rafforzamento dei grandi movimenti di massa di cattolici e socialisti, fu uno dei motivi che spinse alla scelta dell’intervento”.
La Grande Guerra in cui vennero immolate oltre 600.000 giovani vite di italiani fu dunque, anzitutto, una guerra voluta contro la Chiesa. Salandra e Sonnino colsero una duplice occasione: quella di partecipare al grande sforzo, voluto dalle massonerie di Francia ed Inghilterra al fine della liquidazione dell’Impero Asburgico, nonché di assestare alla propria mortale nemica, la Santa Sede, un colpo durissimo.
Il Presidente del Consiglio Salandra e il potente ministro Sidney Sonnino (che era di padre ebreo e madre protestante inglese, e professava formalmente la religione protestante) portarono l’Italia in guerra con questi obiettivi: completare l’unità d’Italia avviata con il processo risorgimentale ponendo altresì le condizioni per una dilatazione dei confini a zone di interesse strategico ma di dubbia o nulla italianità (Tirolo, Istria, Dalmazia) così da creare la “Grande Italia”; uscire dall’isolamento internazionale tanto paventato, aggregandosi agli interessi francesi e britannici; rinsaldare l’integrità dello Stato e rintuzzare l’emergere di una classe dirigente cattolica, seppellendola sotto un’orgia di retorica nazionalista. Infine, si doveva impedire che la Santa Sede ottenesse dei vantaggi morali e materiali dalle trattative per la pace. Il governo italiano era al corrente che la diplomazia vaticana aveva avviato dei tentativi di mediazione presso l’imperatore Francesco Giuseppe: il progetto vaticano mirava ad un accordo che avrebbe tenuto l’Italia fuori dal conflitto. L’Austria in cambio avrebbe ceduto il Trentino al Pontefice, il quale poi l’avrebbe concesso all’Italia. Una soluzione onorevole per l’Impero Asburgico e vantaggiosa per l’Italia, che non avrebbe dovuto versare una sola goccia di sangue né spendere una lira per soddisfare il sogno degli irredentisti. Ma, come si è visto, non erano gli ideali buoni per le piazze e le canzoni a muovere i politici italiani. Così avvenne che l’Italia stipulò l’accordo segreto con Francia e Gran Bretagna, noto come Patto di Londra, firmato il 26 aprile 1915. che garantiva all’Italia le “terre irredente” e la collocava come potenza del mediterraneo orientale. Sonnino aveva chiesto che negli accordi fosse inserito un articolo, il 15, che strappava agli alleati l’assicurazione che il Vaticano sarebbe stato escluso dalla futura assise di pace. Parimenti Salandra intraprese una politica ecclesiastica conciliante, tendente ad accattivarsi le simpatie del nuovo pontefice Benedetto XV, succeduto proprio nel 1914 a Pio X, facendosi garante della libertà del papa, amplificando le notizie di brutalità commesse dagli eserciti degli Imperi Centrali già diffuse dalla propaganda alleata. Nonostante l’opposizione delle masse cattoliche e dello stesso parlamento recalcitrante, il quale con 320 deputati su 500 si era opposto alla ratificazione del Trattato, i giochi erano fatti: l’interventismo si fece vincente grazie alla mobilitazione propagandistica che ebbe il suo insuperabile artefice nel magniloquente D’Annunzio. Il libertino pescarese era decisamente il personaggio sul quale la Massoneria italiana puntava per rendere finalmente popolari le idee della “rivoluzione italiana”.D’Annunzio divenne nell’immaginario popolare il “poeta-soldato” che accendeva i cuori di ardente amore patrio. Quattro anni più tardi il pornografo abruzzese attraverso l’impresa “legionaria” di Fiume (realizzata anch’essa sotto l’egida massonica) spingeva un’Italia stremata dalla Guerra verso nuove e ancor più tragiche avventure imperialiste. Scrive J.Monnerot nel suo Sociologia del comunismo che “le guerre producono le circostanze favorevoli alla nascita dei miti”. La “Grande Guerra” aveva lo scopo di rilanciare il mito unitario risorgimentale, e di produrre ulteriori miti nazionalistici. Nel 1950 lo stesso Gran Maestro aggiunto di Palazzo Giustiniani, Guido Francocci, scriveva nel libro La massoneria nei suoi valori storici e ideali :”La Massoneria italiana trovò l’energia necessaria per imporre al governo e al parlamento, dopo averne convinto con intensa propaganda il popolo, la guerra con gli imperi centrali al fine di completare l’unità della patria”. Secondo lo storico Francois Fejtò, inoltre, non va sottovalutata, tra le ragioni della vittoria degli interventisti italiani, “l’efficacia dell’azione di Camille Barrère, un ardente anticlericale e antiaustriaco, che mobilitò tutto l’arsenale del repubblicanesimo e della massoneria francese contro i neutralisti, e soprattutto contro il Vaticano e Benedetto XV, la cui sollecitudine verso i cattolici dell’Austria, della Germania e della Polonia non era un mistero per nessuno”.
Le pressioni dell’ambasciatore Barrère, la propaganda dannunziana, l’azione persuasiva della Massoneria su ambienti economici e finanziari, sortirono i loro effetti. All’ottenimento dell’intervento si aggiunse anche un progressivo venir meno delle resistenze vaticane. Il Cardinale Segretario di Stato, Pietro Gasparri ( colui che negli anni a seguire concluse i Patti Lateranensi col regime fascista e altri accordi deleteri per i cattolici, quando non addirittura catastrofici come nel caso dei famigerati Arreglos col governo messicano che era il responsabile del massacro di migliaia di cattolici) dalle colonne dell’Osservatore Romano il 27 giugno 1915 si mostrava benevolente verso l’Italia in guerra, augurandosi il “trionfo della giustizia in conformità degli interessi del popolo italiano”. Era il risultato della furba politica di Salandra, che faceva trapelare le proprie preoccupazioni per i rischi della crescita nel paese delle frange più accese dell’interventismo, in particolare mazziniane, che invocavano la soppressione della Legge delle guarentigie. Salandra si accreditò quindi come “moderato” agli occhi della Segreteria di Stato. Di conseguenza al momento dell’intervento il motto dei cattolici ufficiali fu:”Tacere e obbedire” . Ovvero nessuna compromissione con la decisione del governo di entrare in guerra, ma lealtà di cittadini che sanno compiere il proprio dovere. Le istituzioni ecclesiastiche si mantennero quindi equidistanti dalle posizioni del laicato cattolico, sia quello, erede dell’intransigentismo anti-risorgimentale, che si opponeva a quella che lo stesso Pontefice aveva definito “inutile strage”, sia a quei militanti cattolici entusiasti bellicisti che intendevano dimostrare coi fatti alla classe dirigente liberale che i cattolici non erano contrari agli interessi nazionali. Tuttavia, se l’atteggiamento pontificio fu durante tutto il conflitto di assoluta imparzialità, non mancò nel clero chi si sentì dispensato dall’uniformarsi tout court allo spirito evangelico del papa che non voleva discriminazioni tra i propri figli in sanguinosa lite, e si riconobbe un proprio diritto al patriottismo nell’ottica di una lealtà e di una obbedienza all’autorità civile. Tra questo clero patriottico spiccò Padre Agostino Gemelli; lo scienziato convertito e fattosi francescano visse il conflitto (dalla Santa Sede sempre definito “Guerra italo-austriaca”) con uno zelo intensissimo che tuttavia trascese le intenzioni di apostolato tra i soldati per farsi spregiudicato nazionalismo. Sul giornale catto-interventista Patria! Gemelli espresse posizioni addirittura antitetiche a quelle del papa, mischiando evangelizzazione e propaganda bellica. Padre Gemelli era stato incorporato nell’esercito come tenente medico, ed era ben presto divenuto molto vicino al Comando supremo. Fu il vero leader dei cattolici interventisti, promuovendo iniziative di massa come la consacrazione al Sacro Cuore dei soldati, convintissimo assertore dell’esigenza di dimostrare nel conflitto la maturità civile dei cattolici italiani di fronte allo Stato. Fu intimo amico del Generale Cadorna. Per Gemelli si doveva aprire una nuova e fruttuosa stagione di collaborazione. Certamente lo Stato non fu ingrato verso Gemelli, al quale consentì di costituire la prima Università Cattolica italiana, fondata alla fine del 1921 e ufficialmente riconosciuta nel 1924 dal regime fascista. Si voleva insomma dimostrare che il cattolico era un cittadino come tutti gli altri, al quale la fede non era d’impaccio in materia civile, ma anzi di aiuto nell’ordine morale al fine di essere di aiuto alla patria. Nelle trincee del Carso e sulle cime delle Alpi viene dunque affossato l’intransigentismo, la cinquantennale opposizione all’Italia uscita dal Risorgimento. Muore mentre si va uccidendo un grande Impero cattolico, mentre tra le quinte si congiura per escludere il Vaticano dalle trattative per la pace, muore nonostante l’opposizione del papa, nonostante il disperato appello di numerosi vescovi che vedevano i seminari svuotati per mandare i giovani studenti ad indossare il grigioverde, muoiono mentre inutilmente alcuni prelati cercano di denunciare il volgare anticlericalismo che viene diffuso nelle truppe. Non più solo l’ateismo teorico di pochi intellettuali, ma quello pratico, per le masse. Dalla guerra uscirà un paese peggiore, involgarito, incanaglito dalla trivialità da caserma. L’opera di apostolato dei sacerdoti tra le truppe, a dispetto del collaborazionismo di Gemelli, è ostacolata in ogni modo dagli ufficiali e dai Comandi, timorosi che il “pacifismo nazareno” possa infiacchire gli animi dei guerrieri. Dopo Caporetto si levarono voci di accusa al papa, reo con i suoi messaggi, per gli alti ufficiali di “aver istillato un inopportuno desiderio di pace nei combattenti che ne avrebbe depresso lo spirito di resistenza”. Molti cappellani si guardarono bene dal sostenere le ragioni del papa, temendo di compromettere il credito patriottico acquisito. I cappellani vedevano nella partecipazione di tutto il popolo italiano all’evento bellico l’ingresso del “paese reale” nella storia del regno d’Italia. I soldati disciplinatamente schierati, obbedienti ai superiori, radunati in massa in occasione delle messe al campo, diedero l’illusione fallace di una riconciliazione compiuta nei fatti. Ci si illudeva di essere alle soglie di una nuova Italia, quella che avrebbe portato alla vittoria e che avrebbe guidato il paese nel dopoguerra, restaurando la civiltà cristiana. Le voci di dissenso erano poche, e drammatiche, come quella di Monsignor Luigi Pellizzo, Arcivescovo di Padova, che già aveva segnalato l’enorme diffusione della stampa pornografica tra i soldati, e ancor più gravemente dava al papa, in una lettera del 18 agosto 1917, un quadro terribilmente realistico di quella che era la guerra da cui sarebbe dovuta uscire la nuova Italia cattolica: “Ci sono reggimenti che si rifiutano di andare avanti e che vengono decimati: sono altri spinti a viva forza dai carabinieri con le armi impugnate, i quali ad un certo punto rivolgono le armi contro i soldati, mietendoli al suolo a decine, a centinaia talora; altri reggimenti cercano darsi prigionieri in massa, e talora vi riescono delle compagnie intere, o dei battaglioni; e talora la mossa viene scoperta, e si intima il fuoco dietro i fuggitivi, con quali massacri lascio immaginare a Vostra Santità”.
La nuova Italia che emergeva dalle stragi di guerra era un paese tutt’altro che cattolico: il conflitto aveva rivelato tutto l’opportunismo e il cinismo della sua classe dirigente, che aveva preferito mandare al massacro migliaia di suoi cittadini piuttosto che addivenire ad una soluzione negoziata; aveva inoltre unito nel cameratismo della trincea gli abitanti delle regioni e delle nazioni della penisola , ma era stata un’unione forzata, fondata sugli istinti primitivi di sopravvivenza. La civiltà cristiana e rurale, semplice e solidale, rozza e gentile, si avviava ad essere soppiantata dall’ateismo urbano e operaio, da una classe media ambiziosa e senza scrupoli. Questa Italia in divenire era stata in grado persino di realizzare dei campi di concentramento dove morirono centinaia di prigionieri austro-ungarici. Tra Busto Arsizio e Gallarate, nei pressi del Ticino, venne realizzato nel 1918 un immenso lager dove vennero stipati, in condizioni pietose, 150.000 prigionieri. Il campo fu visitato dall’Arcivescovo di Milano, il Cardinale Andrea Carlo Ferrari. Il Cardinale rimase profondamente colpito dalle disumane condizioni di maltrattamento dei prigionieri, che erano di nazionalità boema, austriaca e romena. Uomini che il Cardinale descrive come “buoni soldati che si fanno il segno di croce; buoni, dico, rispettosi, disciplinati, (…) vanno in Chiesa, e stanno molto devoti(…) v’è un buon cappellano, ed è raro il caso che muoiano senza Sacramenti, giacchè sono quasi tutti cattolici”. Questi erano i nemici, le truppe sanguinarie del “Cecco Beppe” della propaganda, il mostro da abbattere. Erano i figli della Mitteleuropea gentile e cristiana che doveva morire. L’Arcivescovo trasmise la sua protesta per le bestiali condizioni del lager alla Santa Sede, e questa ottenne dalle autorità un miglioramento del trattamento dei prigionieri. L’Arcivescovo di Milano aveva dovuto fare i conti, durante il conflitto, con quel cattolicesimo ambrosiano che più di altri aveva spinto per l’adesione ai principi della guerra nazionale. Ferrari, parmense attento alle esigenze delle realtà rurali, non aveva mai rinunciato a parlare di pace, anche quando ciò aveva significato l’accusa di disfattismo, non giustificò mai la guerra e si sforzò di dare la massima diffusione al Magistero del papa. Mentre andava profilandosi nel cattolicesimo italiano, o per meglio dire nei suoi intellettuali e in parte del clero e dell’episcopato, quella svolta culturale che avrebbe portato al collateralismo e al collaborazionismo con lo Stato, fascista prima e democristiano poi, Ferrari intravedeva le sorti di quel patrimonio di civiltà cristiana, di perseveranza nella fede e di sobrietà dei costumi, che andava perdendosi agli albori della nuova Italia: “Diciamolo pure schiettamente: che mai varrebbe il più splendido successo delle armi nostre, quando la nostra Italia avesse a soffrire la perdita della fede? (…) Pensavo al dilagare della empietà e della immoralità; tanto da temere assai più gravi prove dalla giustizia divina. Infatti, con rinnovato furore i nemici del Signore(..)tentano supremi sforzi per strappare dal cuore dei cristiani, fin dalle radici, la santa Fede.”
La Fede veniva dunque allontanata dal cuore degli uomini e dalle nostre contrade, mentre i treni sbarcavano i reduci smobilitati e le piazze si preparavano ad ospitare nuove ed empie liturgie di massa.
di Paolo Gulisano
COME TRADIRE IL IV NOVEMBRE
di Marcello Veneziani
Dopo un anno di commemorazioni masochiste per auto-mortificarci, arrivò finalmente il giorno in cui siamo costretti a ricordarci della Vittoria e del suo centenario. Eccolo, il 4 novembre, anzi il IV novembre, la giornata della Patria. Ma avrete già sentito come viene trasformato quell’anniversario nel Racconto Ufficiale fatto da presidenti, ministri, media e professori: la Vittoria sparisce, la Nazione pure, alla Patria solo un timido sbuffo di cipria e dei caduti se ne parla come povere vittime del nazionalismo e dei loro capi. Il resto sarà tutta una celebrazione della pace, dell’Europa, dell’umanità col sottinteso che eroi e vittime di guerra sono caduti invano, per una sanguinosa illusione.
La memoria della Grande Guerra viene esattamente rovesciata: diventa la celebrazione dell’Europa e la mortificazione delle nazioni identificate nei nazionalismi. Ma la verità storica dice esattamente il contrario: la Prima guerra mondiale fu il funerale dell’Europa e il trionfo dell’Italia, pur mutilato.
Da quel conflitto l’Europa uscì infatti sfasciata e indebolita, non fu più il centro del mondo, perse gli Imperi Centrali che ne erano la spina dorsale, il mondo cominciò a dividersi tra l’Ovest americano e l’Est comunista, schiacciando l’Europa nel mezzo o relegandola a periferia. Nacque da quel conflitto il comunismo e poi la reazione ad esso, nacque la frustrazione tedesca che portò al nazismo, nacque il fascismo. Con la Seconda guerra mondiale, il tramonto dell’Europa avviato dalla prima raggiunse il suo epilogo. Gli occhi dell’ideologia pacifista non vogliono vedere la realtà tragica e gloriosa di quell’evento.
Invece, sul piano nazionale, la Prima Guerra mondiale consacrò l’Italia, per la prima volta uscita vincitrice da un conflitto, al rango di nazione e patria comune. Il Risorgimento era stato un’impresa di pochi, voluta da pochi, rispetto a una popolazione contadina, cattolica, soprattutto meridionale, in buona parte non partecipe se non refrattaria al processo unitario. Fu la Prima Guerra Mondiale a sancire nel sangue e nel dolore la comune appartenenza all’Italia. Quando dicono che la Prima Guerra Mondiale fu per noi la conquista di Trento e di Trieste, si rimpicciolisce – con tutto il rispetto per le terre irredente – la portata e il significato del Conflitto. No, in quella occasione per la prima volta, un popolo intero si sentì nazione, si scoprì patria. La leva obbligatoria, l’educazione nazionale seppure a tappe forzate, il sentimento di appartenenza tramite i propri ragazzi al fronte, portarono per la prima volta a sentirsi veramente italiani le genti del nord insieme alle genti del sud; i borghesi e i proletari, gli intellettuali e i contadini. Sarebbe ipocrita negare che molti di loro furono riluttanti e la Prima guerra mondiale fu voluta anch’essa – come il Risorgimento – da una minoranza. Forse la Grande Guerra ebbe meno consenso popolare della Seconda guerra mondiale, che almeno inizialmente godette di fervore e adesione degli italiani. Ma l’effetto che produsse la Vittoria fu il rafforzarsi del legame nazionale. La sua consacrazione avvenne con la proclamazione della Vittoria, il ritorno dei combattenti e reduci, il ricordo dei caduti, la salma del Milite Ignoto. E la consacrazione dell’Altare della Patria a lui, al Soldato italiano senza nome. Fu in quel passaggio, da Monumento funebre al Re Vittorio Emanuele II ad Altare per il Milite Ignoto, il vero passaggio da un Regno a una Nazione, un Popolo.
Perciò quando si parla di IV novembre si deve ricordare insieme al sacrificio di tanti soldati, al dolore delle loro famiglie, anche l’orgoglio di dirsi italiani, pagato col sangue; la fierezza di un sentimento di appartenenza nazionale.
Dove finisce invece nella retorica ufficiale l’amor patrio? Sparisce, per far posto alla parola umanità che almeno in questo caso è fuori luogo, è storicamente falsa e bugiarda, comunque fuori posto.
Ma non solo. Si prosegue nell’autoflagellazione. Abbiamo visto nei giorni scorsi nei tg di Stato, che il ministro/la ministra della difesa ha ricordato in una speciale cerimonia apposita non i 650 mila caduti italiani ma qualche centinaio di caduti ebrei italiani nella Prima guerra mondiale. Per poi dire: loro erano caduti per l’Italia e l’Italia poi li ripagò con le leggi razziali. Insomma tutti i discorsi servono per portare sempre là, alla nostra Autoflagellazione quotidiana. Senza considerare che gli ebrei si consideravano ed erano considerati italiani a pieno titolo, che gli ebrei – per esempio – a Trieste, furono ferventi patrioti e anche nazionalisti; e molti di loro diventarono pure fascisti. E comunque non si possono ricordare in modo speciale solo alcune centinaia di caduti di fronte a centinaia di migliaia di caduti… Ma questo è funzionale per far slittare l’amor patrio nell’antifascismo. Pura propaganda ideologica, pura distorsione. E se si parla dei soldati della Prima guerra mondiale la preferenza va verso i disertori non verso gli eroi, verso chi fu ucciso perché non voleva combattere (proposito umano che merita pietà, non ammirazione) e non verso chi ha dato volontariamente la sua vita alla patria. Siamo rimasti eredi di Caporetto più che di Vittorio Veneto, siamo fermi a Cadorna, non siamo arrivati a Diaz.
Per questo è necessario ricordare che il IV novembre fu il battesimo di una nazione antica in epoca moderna, fu la conversione di un’identità plurale in una patria comune, di un sentimento unitario e di una lingua gloriosa e plurisecolare in nazione. L’Italia disegnata dalla geografia finalmente combaciò con l’Italia disegnata dalla storia. Un grande evento di fondazione. Per questo dobbiamo onorare senza se e senza ma i caduti, la Vittoria e la nascita di un popolo che si scoprì nazione.
Come tradire il IV novembre
di Marcello VenezianiIl Tempo
Fonte: http://www.marcelloveneziani.com/articoli/come-tradire-il-iv-novembre/ del 03 Novembre 2018
4 novembre: il silenzio delle iene
Ringrazio Dio che non ero in vita e giovane tra il 1915 e il 1918. Avrei dovuto impugnare le armi al servizio di un regno massonico e anticattolico per combattere l’impero cattolico, ultima luce prima della notte oscura.
Oppure, avrei dovuto fuggire e andare a combattere con il bene contro il regno massonico. Ma questo voleva dire sparare agli italiani. Non a Salandra, Sidney Sonnino, Diaz e tutti gli altri, compreso Vittorio Emanuele III: questo lo avrei fatto molto volentieri. Voleva dire invece sparare ai miei fratelli di patria, a milioni di contadini, studenti, giovani professionisti, che non capivano assolutamente perché erano stati sradicati dalle loro case, dalle loro terre, dalle loro famiglie, e per quali ragioni. E questo mi sarebbe stato inammissibile.
Ringrazio Dio che non c’ero, che non ho dovuto scegliere tra il bene e il sangue. In ogni caso, tra cattolici e cattolici, europei ed europei, io, figlio della terra della Chiesa e dell’impero.
Detto questo, devo però aggiungere una cosa.
Domani, 4 novembre, sono esattamente 100 anni dalla vittoria italiana della Prima Guerra Mondiale. A parte la solita sceneggiata del solito presidente di turno che porterà i soliti fiori al solito milite ignoto facendo finta di meditare (non certo di pregare), a parte qualche timido manifesto qua e là… nessuno festeggia la più importante vittoria militare dell’Italia unita. Nessuno, soprattutto, commemora 600.000 uomini morti e 1.500.000 feriti e mutilati. Nessuno si sente fiero di questo immenso sacrificio di popolo.
Gli italiani hanno combattuto, senza saperlo, dalla parte sbagliata: ma il loro eroismo e la loro abnegazione sono stati meravigliosi, i loro sforzi ineguagliabili. Le Dolomiti e le Alpi del Triveneto ancora raccontano tanta gloria e tanto dolore.
A nessuno gliene frega nulla. Nemmeno una festa nazionale di un giorno (come fecero l’11 marzo 2011 per i 150 anni dell’unificazione). Niente.
Tutto dimenticato.
Ovvio: essendo l’Italia una colonia sotto padrone straniero, essendo uno stato in via di dissoluzione, meglio non rinvangare l’immenso sacrificio di milioni di giovani morti per questo Stato.
A questo punto, possiamo ben dire: oltre il danno, la beffa. Quale danno? La caduta dell’Impero Austro-ungarico è stata la più grande sciagura dopo la Rivoluzione Francese. E’ la caduta dell’ideale imperiale cattolico, di ciò che restava di quella monarchia imperiale fondata undici secoli prima da Carlo Magno, incoronato da un papa in San Pietro. Un impero ucciso dai “figli” di Garibaldi e Mazzini, dai terroristi e dai massoni con le mani ricolme di sangue.
Oggi, a cento anni, posso solo chinare il capo in segno di sommo rispetto per tutti i morti, italiani e imperiali, pregare per le loro anime e, al contempo, ribadire la mia fedeltà ideale alla monarchia cattolica e imperiale. Soprattutto, tenendo conto di chi fu l’ultimo monarca della stirpe imperiale: uno splendido esempio di santità personale, correttezza politica e generosità cavalleresca: Carlo I d’Asburgo.
Il silenzio vergognoso di questa repubblica-colonia offende, ancor prima che la memoria dei giusti, quella degli stessi soldati italiani, vittime a milioni del cosiddetto “risorgimento” liberale e massonico, tradimento ineluttabile della stessa italianità e della fede e civiltà degli italiani.
Il posto dei gattopardi, è stato preso dalle iene.
Chi ha letto, offra una preghiera per milioni e milioni di giovani italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi, polacchi, slavi, rumeni, che si sono scannati per quattro anni sui monti e sui mari per i piani di dissoluzione delle forze oscure della Rivoluzione massonica. A cento anni, è doveroso.
A cento anni, io non c’ero… ma non dimentico il giorno funesto della morte dell’Europa cattolica.
Oppure, avrei dovuto fuggire e andare a combattere con il bene contro il regno massonico. Ma questo voleva dire sparare agli italiani. Non a Salandra, Sidney Sonnino, Diaz e tutti gli altri, compreso Vittorio Emanuele III: questo lo avrei fatto molto volentieri. Voleva dire invece sparare ai miei fratelli di patria, a milioni di contadini, studenti, giovani professionisti, che non capivano assolutamente perché erano stati sradicati dalle loro case, dalle loro terre, dalle loro famiglie, e per quali ragioni. E questo mi sarebbe stato inammissibile.
Ringrazio Dio che non c’ero, che non ho dovuto scegliere tra il bene e il sangue. In ogni caso, tra cattolici e cattolici, europei ed europei, io, figlio della terra della Chiesa e dell’impero.
Detto questo, devo però aggiungere una cosa.
Domani, 4 novembre, sono esattamente 100 anni dalla vittoria italiana della Prima Guerra Mondiale. A parte la solita sceneggiata del solito presidente di turno che porterà i soliti fiori al solito milite ignoto facendo finta di meditare (non certo di pregare), a parte qualche timido manifesto qua e là… nessuno festeggia la più importante vittoria militare dell’Italia unita. Nessuno, soprattutto, commemora 600.000 uomini morti e 1.500.000 feriti e mutilati. Nessuno si sente fiero di questo immenso sacrificio di popolo.
Gli italiani hanno combattuto, senza saperlo, dalla parte sbagliata: ma il loro eroismo e la loro abnegazione sono stati meravigliosi, i loro sforzi ineguagliabili. Le Dolomiti e le Alpi del Triveneto ancora raccontano tanta gloria e tanto dolore.
A nessuno gliene frega nulla. Nemmeno una festa nazionale di un giorno (come fecero l’11 marzo 2011 per i 150 anni dell’unificazione). Niente.
Tutto dimenticato.
Ovvio: essendo l’Italia una colonia sotto padrone straniero, essendo uno stato in via di dissoluzione, meglio non rinvangare l’immenso sacrificio di milioni di giovani morti per questo Stato.
A questo punto, possiamo ben dire: oltre il danno, la beffa. Quale danno? La caduta dell’Impero Austro-ungarico è stata la più grande sciagura dopo la Rivoluzione Francese. E’ la caduta dell’ideale imperiale cattolico, di ciò che restava di quella monarchia imperiale fondata undici secoli prima da Carlo Magno, incoronato da un papa in San Pietro. Un impero ucciso dai “figli” di Garibaldi e Mazzini, dai terroristi e dai massoni con le mani ricolme di sangue.
Oggi, a cento anni, posso solo chinare il capo in segno di sommo rispetto per tutti i morti, italiani e imperiali, pregare per le loro anime e, al contempo, ribadire la mia fedeltà ideale alla monarchia cattolica e imperiale. Soprattutto, tenendo conto di chi fu l’ultimo monarca della stirpe imperiale: uno splendido esempio di santità personale, correttezza politica e generosità cavalleresca: Carlo I d’Asburgo.
Il silenzio vergognoso di questa repubblica-colonia offende, ancor prima che la memoria dei giusti, quella degli stessi soldati italiani, vittime a milioni del cosiddetto “risorgimento” liberale e massonico, tradimento ineluttabile della stessa italianità e della fede e civiltà degli italiani.
Il posto dei gattopardi, è stato preso dalle iene.
Chi ha letto, offra una preghiera per milioni e milioni di giovani italiani, austriaci, tedeschi, ungheresi, polacchi, slavi, rumeni, che si sono scannati per quattro anni sui monti e sui mari per i piani di dissoluzione delle forze oscure della Rivoluzione massonica. A cento anni, è doveroso.
A cento anni, io non c’ero… ma non dimentico il giorno funesto della morte dell’Europa cattolica.
Pubblicato il 3 novembre 2018 by Massimo Viglione
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