ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 21 novembre 2018

Pater Bergolej?

È sbagliato pregare Dio di “non indurci in tentazione” e dire “agli uomini di buona volontà”?

http://www.santalessandro.org/wp-content/uploads/2016/09/snoopy-preghiera.jpg(immagine aggiunta)

Quando viene mutato il linguaggio, anche se si pretende di ripristinare il significato autentico e
originario, spesso con la forma verbale rischia di mutare anche il suo significato. Ciò sembra
confermato dai mutamenti linguistici recentemente imposti dalla C.E.I., come quello di una frase
del Padre nostro. La nota richiesta rivolta a Dio di “non indurci in tentazione” è stata cambiata in
“non abbandonarci nella tentazione”: un cambiamento non solo di traduzione ma anche
d’interpretazione.

A chi afferma che questo cambiamento non è sostanziale, si può rispondere che, se così fosse, non
si spiegherebbe l’insistenza messa da anni a realizzarlo. A chi afferma che si tratta di un
cambiamento sostanziale ma opportuno, si può rispondere che, se così fosse, esso dovrebbe
rafforzarci nella Fede e non invece indebolirci, come invece risulterà chiaro da quanto segue.
Il cambiamento di traduzione della frase evangelica viene giustificato col pretesto di evitare il
rischio di presupporre un Dio che condanna alla dannazione solo perché siamo tentati a peccare; per
questo l’Apostolo san Giacomo ammonisce: «Che nessuno dica: E’ Dio che mi tenta» (Gc 1, 13).
Ma questo pretesto non regge. Infatti, è sempre stato noto che la frase incriminata significa
semplicemente “non permettere che siamo vinti da una tentazione superiore alle nostre forze”. Già
san Paolo Apostolo così confortò i primi fedeli: «Non vi sopraggiungerà nessuna tentazione
superiore alle vostre capacità; (…) assieme alla tentazione, Dio vi darà i mezzi che vi permetteranno
di resisterle» (1 Cor 10, 13). Dio non abbandona nessuno alla tentazione negandogli il suo aiuto;
Egli non ci mette alla prova per il gusto sadico di vederci cadere, tantomeno Egli predestina
qualcuno alla dannazione; altrimenti, professeremmo un predestinazionismo eretico di tipo
calvinista.
Eppure, le Sacre Scritture c’impongono di ammettere che Dio possa “indurre in tentazione” l’uomo,
o almeno permettere che questi sia “indotto in tentazione” dalla carne, dal mondo e da Satana.
Sappiamo infatti che Dio “tentò” Abramo nella sua fedeltà alla promessa ricevuta; tentò Giacobbe
nella sua ricerca di una moglie; tentò Giobbe nella sua fiducia nella Provvidenza (Gb 1, 12); tentò
perfino Gesù Cristo nella quarantena nel deserto («E il Signore mandò Satana contro di Lui»).
Nel progetto divino per santificare l’umanità, “indurre in tentazione” significa semplicemente
“mettere alla prova” a suo beneficio. Nella situazione posteriore al Peccato Originale, le tentazioni
danno all’uomo preziose occasioni: se è già saldo, sono occasioni di dimostrare la propria fedeltà;
se non lo è ancora, sono occasioni di rendersi conto della propria debolezza e di umiliarsi chiedendo
soccorso a Dio; in ogni caso, le tentazioni sono l’ordinaria occasione che servono all’uomo per
fortificarsi e santificarsi fino a meritare la salvezza. Nel Deuteronomio leggiamo: «Dio ti ha
condotto nel deserto, dove abitano il terribile serpente e lo scorpione e il rettile, affinché fossero
palesati i segreti del tuo cuore» (Dt 8, 3). Il Salmista così rammenta: «Tu ci hai messo alla prova, o
Dio, ci hai condotti nelle insidie; (…) ma alla fine ci hai salvato da esse per darci la felicità» (Ps 65,
10-12).
Dunque, se Dio “induce in tentazione” l’uomo, lo fa non per dannarlo ma per fargli meritare la
salvezza: «Dio vi tenta affinché gli dimostriate di amarlo» (Deut 13, 4). San Paolo ammonì: «Prima
di poter entrare nel Regno di Dio, bisogna passare attraverso un buon numero di tribolazioni» (At
14, 22), ossia di tentazioni, e l’Apostolo parlava per esperienza vissuta.
Da una parte, il nostro Redentore c’invita a chiedere umilmente a Dio di non metterci troppo alla
prova, perché noi non sappiamo fino a qual punto sapremo approfittarne, resisterle e uscirne
vittoriosi.
Dall’altra parte, però, chiedere a Dio di non essere mai essere messo alla prova è pericoloso. Infatti,
se un uomo, alla fine della vita, non ha mai subito nessuna tentazione, ciò non dimostra ch’egli sia
santo, ma anzi fa sospettare che Dio lo abbia abbandonato al suo destino, in quanto non lo ritiene
degno di essere nemmeno messo alla prova per meritarsi il Cielo. Si ricordi il famoso episodio di
quegli Apostoli che, ospitati da un padrone di casa che si vantava di non aver mai avuto nessun
problema in vita sua, vollero subito allontanarsi da quella casa, intuendo ch’essa era destinata alla
rovina, il che infatti poco dopo avvenne.
Ciò ci fa capire che Dio, quando “induce in tentazione”, sebbene sia sempre pronto a soccorrere
l’uomo tentato nel pericolo, tuttavia non sempre perdona e salva chi è caduto nella tentazione. Se
costui rifiuta l’aiuto divino, si ostina a peccare e addirittura si ritiene scusato, allora Dio può
decidere di “abbandonarlo a Satana”, ossia di non soccorrerlo più e anzi di “tendergli trappole” (Ps
65, 11) per affrettarne la rovina ed estinguerne lo scandalo, come ha fatto con certi individui e
popoli reprobi: «Dio li ha abbandonati ai loro perversi pensieri» (Rom 1, 28).
Conferma sant’Agostino: «Per un suo giudizio tanto profondo quanto misterioso, può capitare che
Dio abbandoni certe anime; allora, quando questo abbandono è compiuto, il Tentatore ne approfitta
per completare la sua opera: non trovando più ostacoli davanti a sé, s’impadronisce rapidamente di
coloro che sono stati abbandonati da Dio» (S. Agostino d’Ippona, Sermone LVI, 4 ss.). Fu questo il
caso di reprobi come Caino e Giuda Iscariota.
Stando così le cose, appare evidente la vera motivazione sottintesa al cambiamento di traduzione
imposta dalla C.E.I alla richiesta evangelica. Si vuole negare che Dio metta alla prova l’uomo per
fargli “combattere la buona battaglia” in modo da vincerla e così ricevere una salvezza che viene
donata solo a chi l’ha meritata. Invece, oggi il progressismo “buonista” ed ecumenista crede che
Gesù Cristo si sia “unito in certo qual modo ad ogni uomo” e operi mediante qualunque confessione
religiosa; pertanto, si pretende che Dio non abbandoni mai nessuno, che perdoni tutti sempre e
comunque, anzi che non metta alla prova nessuno, perché non c’è bisogno di meritare la salvezza
con le buone opere, essendo essa assicurata “gratuitamente” a tutti e senza discriminazioni. Ma
allora, il Cristianesimo non è più il sale bensì lo zucchero della Terra.

(Guido Vignelli)

Quanto detto è purtroppo ancor più confermato con la seconda equivoca e non necessaria modifica,
questa volta condotta direttamente sul testo della Messa: "e pace in terra agli uomini di buona
volontà", sostituito con "a coloro che Dio ama".
Nella prima formula, quella del Vangelo (Lc., 2.14), quella di sempre, si richiede la nostra buona
volontà (ovvero, uno sforzo verso il Bene e un rifiuto del male, del peccato: si richiede insomma la
scelta tra il Bene e il Male),e soprattutto si lascia intendere che vi sono uomini "non di buona
volontà", i quali quindi non meritano la pace di Dio. Quindi si presuppone un Dio che castiga. 
Questo è inaccettabile per il clero modernista, in quanto appunto suppone un "giudizio di Dio" e
una divisione tra i salvi e i non salvi. E siamo nuovamente al punto di partenza.
Il problema è che in questo modo diviene inutile la Redenzione di Cristo, e quindi la sua Passione e
Morte. In qualche modo, la sua stessa venuta al mondo.
In queste riforme, appare evidente che il vero sgradito bersaglio è Gesù Cristo Dio e la Sua
redenzione. Per questo diviene oggi necessario, per ogni sincero cattolico, difendere la tradizione,
anche scritturale, di sempre. Non è questione di polemica o di formalismo: è assolutamente
essenziale per la salvezza della vera Fede e per la salvezza delle anime, che è la legge suprema della
Chiesa.
Del resto, “neppure uno iota e un apice della Legge andrà perduto” (Mt., 5,18).
Chi oggi difende anche gli iota e gli apici, serve e asseconda la volontà divina.

(Massimo Viglione)

https://www.confederazionetriarii.it/e-sbagliato-pregare-dio-di-non-indurci-in-tentazione-e-dire-agli-uomini-di-buona-volonta/

DOPO LE POLEMICHE
Padre nostro, come se il Catechismo non esistesse

Tante discussioni sul "Padre nostro" sarebbero state evitate se qualcuno si fosse preso la briga di leggere il Catechismo e la sua spiegazione di "non indurci in tentazione". Ma c'è un problema più ampio: inutile spendere anni sulla traduzione di una parola quando preti e vescovi regolarmente modificano a loro piacimento le parole della Liturgia.
- "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE", ECCO COSA DICE IL CATECHISMO


È vero che nella santa Chiesa di Dio ci sono problemi e difficoltà ben più rilevanti e gravi della revisione della traduzione del Messale italiano, però è altrettanto vero che le notizie degli ultimi giorni sono state comunicate con molte imprecisioni e si sono taciuti certi problemi di fondo. È anche vero che non si possono pretendere certe precisioni dalla stampa laica, la quale semplificando al massimo ha annunciato: “Adesso nella Messa cambia il Padre nostro, come ha voluto Papa Francesco”. In realtà non è così e i problemi non sono tutti qui, per cui credo opportuno offrire qualche considerazione in più e in ordine sparso.

.Anzitutto è necessario prendere coscienza che, abbandonato l’uso del testo latino e adottate le lingue vive, una revisione delle traduzioni è necessaria almeno una volta ogni 100 anni o, ancor meglio, ogni 50. L’ovvia ragione è che la lingua cambia: cambia a volte il significato di qualche termine e cambia insensibilmente il modo di esprimersi e per convincersene basta leggere un giornale di cent’anni fa.

Basta anche consultare il Messale nella orazione per un coniuge defunto, dove la traduzione in corso (1983) usa prima il termine “sposo/sposa” e poi subito dopo “compagno/compagna”, che oggi non significa più sposo/sposa, ma la persona convivente in una unione di fatto. Tra parentesi, tutto si sarebbe evitato se si fosse tradotto alla lettera l’unico termine che il latino usa: “famulus / servo”: “accogli la tua serva e custodisci il tuo servo, perché, uniti in vita dal vincolo dell’amore coniugale, nell’eternità siano riuniti nella pienezza del tuo amore”; invece si è voluto tradurre prima sposo/sposa e poi compagno/compagna - per il NT siamo figli e servi, ma per certi preti siamo solo figli e non siamo più servi di Dio - e  bisogna per forza cambiare.

Insieme a queste ragioni linguistiche ce n’erano anche altre e cioè i cambiamenti teologici sul modo di tradurre richiesti da Liturgiam authenticam (28 marzo 2001), documento contestato dall’inizio ad oggi, per cui 16 anni di gestazione del lavoro di traduzione rischiano di produrre un risultato con criteri diversi e non unitario. Speriamo in bene.In ogni caso il lavoro di revisione era necessario non solo per cambiare l’inizio del Gloria e la fine del Padre nostro, ma anche per tradurre ex novo i formulari per i nuovi santi o altri formulari di messe aggiunte, come il formulario di una messa per richiedere la continenza (e viste le notizie attuali, sarà un formulario da usare di frequente!). Insomma, la realtà è molto più complessa delle semplificazioni di una certa comunicazione.

Venendo al Padre nostro e alla riformulazione della sesta domanda “non ci indurre in tentazione”, credo che bisogna mettere il cuore in pace: dopo che dai vescovi sarà approvata anche dalla Santa Sede, andrà accettata come esercizio di disciplina ecclesiale.

Ciò precisato, non è la soluzione migliore, dal momento che la complessità del testo rende insufficiente ogni traduzione, per cui sarebbe stato preferibile rimanere con la traduzione acquisita, tra l’altro supportata da tanta catechesi e da autorevoli commenti.
Credo utile porre in evidenza due considerazioni che non entrano in merito alla traduzione, ma al contesto ecclesiale.

Prima considerazione: la scelta della modifica era già nell’aria e allo studio da tempo e non è avvenuta, come comunicato da alcuni giornali, semplicemente a seguito di frasi immediate di Papa Francesco in un’intervista. Fuori dubbio che il Romano Pontefice ha l’autorità non solo di suggerire ma di imporre un cambiamento del genere, ma si tratta di richiedere un atto serio e impegnativo di obbedienza, che deve essere richiesto in modo altrettanto impegnativo, cioè con un documento ufficiale e redatto nella debita forma. Salva la libertà del Papa di concedere interviste e reagire a caldo, va evitato il messaggio sbrigativo e sbagliato che nella Chiesa si cambia qualcosa perché il Papa ha pronunciato una battuta in un’intervista.

Seconda considerazione: il cambiamento di traduzione mette in crisi il CCC 2846-2849 sulla spiegazione della sesta domanda del Padre nostro, dal momento che il CCC ragiona a partire dal testo latino reso fedelmente in italiano con “e non ci indurre in tentazione”. Personalmente ritengo che, invece di modificare la traduzione, sarebbe stato meglio stare alla traduzione precedente e approfondirne il senso con la profonda spiegazione che ne fa il CCC. Ma ormai il CCC da certuni è consultato e citato solo per affermare l’esigenza di cambiarlo. Comunque a uso dei lettori riportiamo qui il testo in oggetto, che consiglio caldamente non solo di leggere, ma di rileggere, tenere a mente e meditare: la recita del Padre nostro e la vita cristiana spiccheranno un salto di qualità più prezioso di tutto il vociare che ha accompagnato la nuova traduzione.

A livello minore poi la Bibbia CEI 2008 ha cambiato anche uno degli ultimi versetti del Magnificat: “come aveva promesso ai nostri padri” (Lc 1,55) è diventato «come aveva detto ai nostri padri»”, testo più fedele agli originali greco e latino e non limitato alle promesse, ma aperto ad ogni parola di Dio ai padri. Se ne terrà conto nella recita abituale del Magnificat? Ecco dunque un altro esempio della complessità della nuova edizione.

Si potrebbero affrontare tanti altri argomenti sulla nuova edizione italiana del Messale, ad esempio il canto dei testi liturgici, in particolare i dialoghi tra il sacerdote e il popolo. Tornando però ai testi e alle traduzioni, c’è una considerazione finale molto amara ma purtroppo realistica, ed è questa: coloro i quali hanno trascorso molto tempo a studiare le parole ad una ad una e coloro (i vescovi e la Santa Sede) che autorevolmente confermeranno le soluzioni adottate, si rendono conto che molti preti con libertà cambieranno le parole del Messale mandando all’aria con un soffio ore di dibattiti, di ricerche sui dizionari, di consultazioni di esperti? Non posso neppure immaginare che non se ne rendano conto. E allora perché non intervengono ribadendo con chiarezza che “non s’ha da fare”?

Ciò in realtà capita perché non è più interiormente vissuto ed esteriormente confermato (sino ad arrivare a interventi correttivi) il principio enunciato dal concilio - non di Trento ma Vaticano II - che «Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma del diritto, nel Vescovo ... nelle competenti assemblee episcopali territoriali. Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica» (SC 22).

“Aggiungere / togliere / cambiare” sono le tre forme degli “abusi”, ricordate dal n. 24 della Istitutio Generalis del Messale Romano (2000) e nella Redemptionis sacramentum n. 31: i sacerdoti «non svuotino il significato profondo del loro ministero, deformando la celebrazione liturgica con cambiamenti, riduzioni o aggiunte arbitrarie». Ora questo procedimento si applica non solo ai gesti e ai movimenti, ma alle parole: quante parole dei testi liturgici taciute, aggiunte o modificate!

Il problema non è il prete clown o il prete che proclama “il Credo non lo diciamo perché non ci credo”: questi sono casi limite, dove sostanzialmente si reagisce bene prendendo le debite distanze. Il problema sono i preti buoni e normali, soprattutto quelli che “sanno parlare alla gente” o peggio che “non parlano da preti ma come la gente”, i quali ormai non hanno più coscienza che osservare le rubriche e non modificare i testi dove non è previsto è un atto di osservanza della disciplina della Chiesa e di trasmissione della tradizione. Come mai? Beh... a causa di una carente formazione in seminario e del non intervento dei vescovi (fatto salvo il segreto del cuore di ognuno che Dio solo conosce).

Lo so che si obietta: “In antico non era così, i testi erano autorevoli ma non costrittivi”. Vero, ma appunto “in antico”. Ciò significa che a certe fasi di vita della Chiesa ne subentrano altre dove maturano altri valori e non è detto che l’antichità di una prassi sia sempre un criterio assoluto di perfezione. In ogni caso l’obbedienza alla normativa liturgica e a pronunciare i testi senza i tre abusi ricordati anche laddove i testi potrebbero in un futuro essere modificati in meglio, è adattarsi all’attuale ritmo di marcia della Chiesa; è attendere - pur presentando una proposta di modifica a chi di dovere - che la modifica sia vagliata e acquisita nel più ampio contesto ecclesiale e non da uno solo o da un piccolo gruppo; è avere l’umiltà di fare la coda allo sportello; è servire meglio Gesù Cristo servendo il popolo di Dio.

Sarebbe auspicabile che consegnando la nuova edizione del Messale si ricordasse tutto questo con una lode per chi lo sta già praticando, evitando di confonderlo con i ritualisti, gli esteti, i neopelagiani ecc. e risparmiandolo dalla scudisciata verso costoro.

Altrimenti a che sarà servito tanto studio nello scegliere le parole se poi più di un prete (vescovo?) le cambia e lo fa senza timore, tanto è sicuro che nessuno interverrà? Si continuerà - e qui concludo ridendo - con un abuso che ho sentito: nella preghiera che segue il Padre nostro uno al posto di “vivremo sempre liberi dal peccato” ha detto “vivremo sempre liberi” e basta. A me è subito venuto in mente il “Sempre libera degg’io” a chiusa del primo atto della Traviata. Che sarà la conclusione di chi cambia con disinvoltura le parole del Messale: un “traviamento”, un andare fuori strada. Che il Signore misericordioso ce ne liberi!

Riccardo Barile

http://www.lanuovabq.it/it/padre-nostro-come-se-il-catechismo-non-esistesse

“E non abbandonarci alla tentazione”. Un commento critico

“Roma locuta, causa finita”. Come era facile pronosticare, i vescovi italiani hanno esaudito il desiderio espresso da papa Francesco di sostituire nella messa l’invocazione del Padre nostro “e non ci indurre in tentazione” con “e non abbandonarci alla tentazione”.
La “vecchia” versione non è stata neppure messa ai voti, con l’impossibilità quindi di poterla difendere. Perché a detta di Francesco è solo il diavolo che tenta e non è ammissibile che anche Dio ci “induca” – cioè letteralmente ci “porti dentro”, come nel latino “inducas” e nell’originale greco del Vangelo “eisenènkes”  – nella tentazione.
La versione inglese del “Padre nostro” in uso negli Stati Uniti è rimasta fedele al testo evangelico originale: ”And lead us not into temptation". Mentre concordano con i desideri di papa Francesco sia la nuova traduzione in uso in Francia e in altri paesi francofoni: "Et ne nous laisse pas entrer en tentation”, sia quella entrata in uso in vari paesi di lingua spagnola, Argentina compresa: "Y no nos dejes caer en la tentación".
Ma a rigor di logica, se Dio non ci può “indurre” nella tentazione, non si vede nemmeno perché invece gli sia consentito di “abbandonarci” ad essa. Per due millenni la Chiesa non si è mai sognata di cambiare quella difficile parola del Vangelo, ma piuttosto di interpretarla e spiegarla, nel suo significato autentico.
È da qui che prende spunto la riflessione che segue.
Silvio Brachetta, l’autore, è diplomato all’Istituto di Scienze Religiose di Trieste e si è dedicato in particolare allo studio della teologia di san Bonaventura da Bagnoregio. Scrive sul settimanale diocesano “Vita Nuova”.
*

Breve riflessione sul “nuovo” Padre nostro
di Silvio Brachetta
Non è chiaro perché un Dio che ci “induce”, ci porta dentro, nella tentazione dovrebbe essere peggiore di un Dio che ci “abbandona” ad essa. È un mistero della moderna esegesi, ma anche della presunzione umana, stando almeno al padre del deserto sant’Antonio:
“Un giorno alcuni anziani fecero visita al padre Antonio; c’era con loro il padre Giuseppe. Ora l’anziano, per metterli alla prova, propose loro una parola della Scrittura e cominciò dai più giovani a chiederne il significato. Ciascuno si espresse secondo la sua capacità. Ma a ciascuno l’anziano diceva: ‘Non hai ancora trovato’. Da ultimo, chiede al padre Giuseppe: ‘E tu che dici di questa parola?’. Risponde: ‘Non so’. Il padre Antonio allora dice: Il padre Giuseppe sì che ha trovato la strada, perché ha detto: ‘Non so’” (Apophthegmata Patrum, 80d; PJ XV, 4).
Nelle Sacre Scritture ci sono cose facili da capire, cose difficili e cose che non si possono capire: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. Il senso letterale regge e guida gli altri sensi delle Scritture: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato. L’esegesi dei testi non può tradire l’esegesi dei padri e dei dottori della Chiesa: se ne ricorda qualcuno? No, tutto dimenticato.
Quanto a ciò che Dio opera, dovrebbe essere chiaro come il Dio che nel “Padre nostro” induce alla tentazione sia il medesimo Dio che fa dire a Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15, 34). Non vi è dubbio – e nel magistero della Chiesa non vi è mai stato il dubbio – che l’”eisenènkes” greco del “Padre nostro” esprima un moto a luogo e che il “sabactàni” aramaico di Mc 15, 34 significa abbandono.
È anche vero che l’interpretazione di questi passi evangelici da parte di san Tommaso o di sant’Agostino lasci il lettore insoddisfatto, poiché i dottori sanno bene che “fides et ratio” sono concordi, ma per nulla coincidenti. San Tommaso e sant’Agostino scrutano il mistero, però lo fanno nell’umiltà: alle volte riescono a soddisfare pienamente e sapientemente un qualche quesito ma, altre volte, possono anche rispondere o soddisfare parzialmente chi cerca una spiegazione.
L’operazione teologica contemporanea è spesso indecente, perché vuole forzare quelle porte inviolabili del mistero, che Ildegarda di Bingen sconsiglia fortemente di violare (cf. “Il libro delle opere divine”). Da dove tanta superbia? Come mai il teologo moderno è divenuto incapace di dire “non so” davanti a questioni sulle quali Dio ha decretato rimanesse il mistero? Persino i pagani erano di frequente più umili di molti dei nostri contemporanei. “Io sono tutto ciò che fu, che è e che sarà; e nessun mortale o dio solleverà mai il mio peplo”, dice la Sibilla di Plutarco (“Sul Fato”).
È antica come il mondo l’arte di forzare o falsificare il testo, quando la parola è incomprensibile o non corrisponde alle aspettative del nostro capriccio. Ma è pure antica come il mondo l’arte dell’umiltà, l’arte dello scriba fedele, che tramanda la voce di Dio ricopiando le Scritture e cercando di essere preciso, sillaba dopo sillaba, su quanto ricevuto dai padri.
La verità è stata più volte confessata dai santi: il Dio che ci “porta dentro” nella tentazione è buono, tanto quanto il Dio che ci “abbandona” ad essa. Ed è buono perché ascolta la preghiera del penitente, che chiede con insistenza: “non ci indurre, non ci abbandonare”. Dio, quindi, non induce e non abbandona quei figli che si convertono e lo pregano, ma abbandona l’empio, che lo bestemmia.
Il mistero permane e la realtà della “perdizione” – l’”abaddon” ebraico dell’Apocalisse (9, 11) – non può essere cancellata dalla penna di un falsario. Esiste dunque l’”angelo dell’abisso” (ibidem), poiché Dio permette che esista, così come esiste l’inferno e la possibilità di dannarsi. Dietro la negazione del “ne nos inducas” evangelico c’è il rifiuto presuntuoso di uno scandalo: lo scandalo della perdizione eterna dell’empio e il fatto stesso che il Cristo possa essere “pietra d’inciampo”. Egli stesso “scandalo”, appunto.
Settimo Cielodi Sandro Magister21nov  

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