ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

domenica 11 novembre 2018

Una progressiva mutazione sostanziale della verità

Il volto che si nasconde dietro la maschera
padre Massimo Lapponi, monaco missionario nello Sri Lanka, mi ha segnalato il seguente articolo di Emanuele D’Agapiti dal suo blog, che volentieri pubblico.

Foto: il popolo d’Israele nel deserto.
di Emanuele D’Agapiti
Dal dí che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Ugo Foscolo, I sepolcri, 92-97
Nel 1969 il teologo Karl Rahner ebbe a scrivere che il Concilio Vaticano II, per il fatto di essere stato il primo concilio a radunare vescovi non in assoluta prevalenza europei e nordamericani, ma anche africani e asiatici, aveva portato nella Chiesa una novità paragonabile quella portata da San Paolo con il rifiuto della circoncisione. Del resto – egli aggiungeva – lo stesso San Paolo non aveva saputo dare una giusta soluzione ai problemi sollevati.

Dilungarsi sull’inconsistenza di questo modo di considerare le cose sarebbe dare ad esso un’importanza che non merita. Basterà, dunque, osservare che nessun concilio è stato tanto “occidentale” e così poco “orientale” come il Concilio Vaticano II e che San Paolo non ha portato alcuna “novità” sostanziale, ma non ha fatto che esplicitare quanto era già presente nella vera “novità”, cioè il “nuovo patto” inaugurato dall’assoluta novità di Cristo e della sua redenzione.
Ma, a quanto sembra, le suggestioni del teologo tedesco hanno fatto breccia, contribuendo a diffondere l’idea che il progresso della Chiesa non sia un progresso nell’approfondimento della verità, bensì una progressiva mutazione sostanziale della verità, la quale dovrebbe adeguarsi alla radicale mutabilità dell’uomo nella storia.
In questa prospettiva, la novità cristiana non consisterebbe nella fede in una “buona novella” «che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte» (Giuda 3), bensì in una sorta di apertura dell’animo paragonabile all’“a priori” kantiano, capace di organizzare, secondo proprie categorie “agapighe”, i dati dell’esperienza storica.
Una volta accettata questa impostazione, non è strano che qualcuno abbia detto che «un bene cattolico non esiste, perché il bene comune è di tutti, e dobbiamo cercarlo insieme agli altri».
Questo e analoghi atteggiamenti di “discontinuità” e di “rottura” rispetto a una “verità” dottrinale data e ricevuta, che, in varie forme, si sono diffusi soprattutto a partire dal post-concilio, comunemente vengono etichettati con l’aggettivo “progressista”, per sottolineare la loro volontà di conseguire, rispondendo con la giusta apertura mentale alle sempre rinnovate esgenze dei tempi, un perpetuo progresso e una mai esaurita novità.
Ma ci si può chiedere: dietro la maschera della novità, non si celerà, per caso, il riapparire di un volto vecchio quanto il mondo?
A rafforzare questo inquietante sospetto vi è la circostanza che la stessa pretesa di “rinnovarsi” cercando il bene “insieme agli altri” non è affatto nuova. Nella Bibbia troviamo, infatti, infinite volte denunciata, come una deviazione che offende in modo gravissimo la santità di Dio, la sempre riemergente tendenza del popolo eletto ad accompagnarsi con i vicini popoli pagani, stringendo alleanza e legandosi per via di nozze con essi, e così finendo per allontanarsi dall’esclusivo culto di Dio e dall’obbedienza ai suoi comandamenti.
«Il popolo servì il Signore» si legge in un testo paradigmatico «durante tutta la vita degli anziani che sopravvissero a Giosuè e che avevano visto tutte le grandi opere, che il Signore aveva fatte in favore d’Israele. Poi Giosuè, figlio di Nun, servo del Signore, morì a centodieci anni e fu sepolto nel territorio, che gli era toccato a Timnat-Cheres sulle montagne di Efraim, a settentrione del monte Gaas. Anche tutta quella generazione fu riunita ai suoi padri; dopo di essa ne sorse un’altra, che non conosceva il Signore, né le opere che aveva compiute in favore d’Israele. Gli Israeliti fecero ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal; abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto, e seguirono altri dèi di quei popoli che avevano intorno: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte» (Gdc 2, 7-13).
Il fatto di essere divisi e diversi dagli altri popoli e di seguire costumi propri, fondati sulla legge del Dio del Sinai, fu sempre sentito come un freno troppo stretto dal popolo di Dio, e ciò causò la ripetuta tentazione all’infedeltà e l’illusione di trovare una più appagante libertà e felicità aprendosi agli esempi dei costumi stranieri. Se i falsi profeti appoggiavano con la loro usurpata autorità l’apertura a costumi e pratiche dei popoli pagani, il popolino dava loro ascolto, non perché li seguisse nei loro ragionamenti, ma soltanto perché quei costumi erano piacevoli e «perché da quando ci siamo separati da loro, ci sono capitati molti mali» (1Mac 1, 11).
Certamente agli occhi dei falsi profeti liberarsi dalle strettoie della legge sianitica per andar dietro ai culti cananei era un grande “progresso” nella religione! E non c’era nenanche bisogno di abbandonare formalmente la religione dai padri: bastava convincersi e convincere che essa poteva e doveva convivere con le pratiche degli altri popoli. Così, quando «Elia si accostò a tutto il popolo e disse: “Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!”. Il popolo non gli rispose nulla» (1RE 18, 21).
Ma possiamo chiederci: se questo “cercare il bene insieme agli altri”, lungi da essere una “novità progressista”, non è che un ricadere nella inveterata tentazione del popolo di Dio, i risultati della relativa scelta non saranno, per caso, anziché qualche strabiliante novità, una semplice ricaduta negli antichi vizi dell’umanità, dai quali la scelta “gelosa” del Dio del Sinai aveva voluto separare il suo popolo «con mano potente e braccio teso» (De 4, 34)? E la parola “santo” non significa “separato”?
«Si mescolarono con le nazioni» canta il salmista «e impararono le opere loro, servirono i loro idoli e questi furono per loro un tranello. Immolarono i loro figlie le loro figlie agli dèi falsi. Versarono sangue innocente, il sangue dei figli e delle figlie sacrificati agli idoli di Canaan; la terra fu profanata dal sangue, si contaminarono con le opere loro, si macchiarono con i loro misfatti» (Sal 105, 35-39).
Se poi ci chiediamo quale sia il vizio più vecchio, ossessionante e deleterio del genere umano, capace di precipitare i popoli nella dissoluzione e nella rovina, come insegna la lezione della storia, sempre balordamente ignorata e parossisticamente rifiutata nei tempi di decadenza, la risposta non è difficile: il vizio della lussuria. E la stessa Bibbia connette strettamente l’abuso sessuale con l’infedeltà al Dio d’Israele e alle sue sante leggi. Così si legge in una delle pagine più tragiche della storia sacra:
«Ma il re Salomone amò donne straniere, moabite, ammonite, idumee, di Sidòne e hittite, appartenenti a popoli, di cui aveva detto il Signore agli Israeliti: “Non andate da loro ed essi non vengano da voi: perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi”. Salomone si legò a loro per amore. Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine; le sue donne gli pervertirono il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne l’attirarono verso dèi stranieri e il suo cuore non restò più tutto con il Signore suo Dio come il cuore di Davide suo padre. Salomone seguì Astàrte, dea di quelli di Sidòne, e Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Salomone commise quanto è male agli occhi del Signore e non fu fedele al Signore come lo era stato Davide suo padre. Salomone costruì un’altura in onore di Camos, obbrobrio dei Moabiti, sul monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche in onore di Milcom, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere, che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi» (1Re 11, 1-8).
L’abuso sessuale appare, dunque, nello stesso tempo come tentazione ad allontanarsi dalla legge di Dio e come effetto del suo abbandono.
Non dovrebbe, dunque, destare fondati sospetti il fatto che il cosiddetto “progressismo” teologico, con tutta la sua pretesa apertura al “vastissimo” orizzonte dei “diversi” e alle esaltanti “novità” dei “progressi della storia”, finisca poi per andare a concludere in nient’altro che nell’allentamento e nell’abbandono delle norme bibliche ed evangeliche sulla morale sessuale – nella volontà di «integrare fede e sessualità», come ha asserito di recente un personaggio molto gettonato?
Domandiamoci, dunque: allinearsi con i popoli pagani nell’accettazione della libertà sessuale, della non peccaminosità di pressoché tutte le pratiche erotiche, della precocità delle esperienza sessuali, del divorzio, dell’aborto, della promiscuità sessuale e infine di tutto ciò che in questo campo possa essere immaginato e realizzato, è realmente segno di progresso verso una più matura e universale verità, o non è, invece, piuttosto un ritornare ai costumi barbari dell’umanità primitiva, a quesi costumi, cioè, da cui la sapiente pedagogia divina aveva ritratto il suo popolo eletto e dai quali l’espansione universale del nuovo patto cristiano doveva liberare tutti i popoli della terra?

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