ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 4 febbraio 2019

Quella decadenza che conduce alla morte

Il paradigma della “suorina stolta”: dai monasteri del XV secolo ridotti a bordelli alla sterilità del XXI secolo. Il rifiuto della realtà genera quella decadenza che conduce alla morte. Possiamo dire che nella vita religiosa femminile tutto è andato bene dopo il Concilio Vaticano II ?

.I prodotti postumi al Concilio Vaticano II sono oggi sotto gli occhi di tutti: a mezzo secolo da quello che taluni indicano come il più grande Concilio della Chiesa, od il concilio dei concili, la Chiesa versa in una crisi dottrinale, morale e spirituale dinanzi alla quale è davvero difficile trovare dei precedenti storici, perché si tratta di una situazione e di una crisi del tutto nuova. Pertanto, dinanzi alla suorina stolta che afferma: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!», penso di poter replicare che sul piano della vita religiosa femminile, forse sarebbe meglio tornare al periodo precedente al Concilio di Trento, quando molti monasteri femminili erano ridotti a degli autentici bordelli, perché di fatto ce la passavamo meglio, perlomeno, convivevano assieme il buon grano e la gramigna.
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Autore:
Ariel S. Levi di Gualdo
Correva la fine del lontano anno 1563 quando il 3 dicembre, due giorni prima della chiusura dei lavori, il Concilio di Trento approvò un decreto sui religiosi e sulle monache. All’interno di questo documento furono anche stabilite delle norme più precise sulla materia della clausura, legate alle religiose ed agli spazi interni ed esterni delle loro case. Già sul fine del XIII secolo,con la bolla Periculoso promulgata nel 1298 dal Sommo Pontefice Bonifacio VIII, entrata poi in vigore nel 1302, furono ribadite le norme sulla osservanza della clausura e della sua reintroduzione dovunque fossero state abbandonate [1]. Pur malgrado, a cavallo tra il XV ed il XVI secolo, le norme sulla clausura non erano state di fatto messe in pratica, se non da pochi ordini religiosi femminili: le Francescane Clarisse, le Domenicane, le prime Carmelitane e le Certosine. Tutte le altre monache, specie quelle che vivevano proprio nelle grandi abbazie e monasteri, s’erano sempre più allontanate dall’applicazione di quelle norme molto precise e rigorose mirate alla salvaguardia morale delle istituzioni religiose femminili.
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Sarebbe interessante ed istruttivo studiare a fondo la vera vita di Teresa d’Avila, quella che le sue figlie per prime si guardano bene dal trasmettere, facendo ad esse più comodo ricordare e narrare solo le sue sublimi estasi mistiche, che giunsero però verso il finire della sua vita. Diversa fu l’esistenza di questa grande Santa e riformatrice dell’Ordine Carmelitano, basti ricordare che quando fu nominata priora del Monastero dell’Incarnazione in Avila, le centotrenta monache che lo abitavano dettero vita a disordini per impedirle di entrare, sino ad aggredire fisicamente sulla porta del monastero il corteo che accompagnava la nuova priora, che non fu eletta dal capitolo delle monache, ma scelta dai superiori dell’Ordine su sollecitazione delle Autorità Ecclesiastiche del luogo, per rimettere in riga le turbolente e rilassate abitanti di quel monastero. Perché dunque non ricordare che questa grande riformatrice tridentina, prima delle estasi mistiche, dovette avvalersi come priora di quel popoloso monastero di un servizio di guardia, usato all’occorrenza anche per far bastonare le monache ribelli? E perché, non ricordare che la sua stanza era sorvegliata di notte e la sua cucina ed i suoi cibi controllati con cura per evitare che fosse avvelenata? Pertanto, la figura di Santa Teresa d’Avila unicamente ridotta ad una mistica in estasi cristologiche d’amore, è un’immagine che se da una parte fa di certo più comodo, dall’altra imbarazza meno tutte coloro che ai giorni nostri, seppure in modi e forme diverse, in oltre cinquecento anni non hanno ancóra recepita la solenne lezione della loro Santa Madre.
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In che modo la lezione teresiana non è stata recepita? Per farlo capire bisogna sempre ricorrere a dei pratici esempi concreti, come questo: alcuni anni fa mi trovai a celebrare la Santa Messa in un monastero di Carmelitane Scalze al posto del cappellano. Quando al momento della Santa Comunione mi avvicinai alla grata del coro, la priora si fece avanti a me con una teca a prendere l’Eucaristia per una monaca che non poteva camminare. Le bisbigliai:
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«Reverenda Madre, non si preoccupi, mi apra il cancello della grata che entro io dentro il coro a portare la Comunione alla monaca inferma».
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Replica la priora:
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«Non è possibile, lo sa: noi abbiamo la clausura papale, per questo sono ministro straordinario della Comunione».
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Non mi misi certo a fare storie con la pisside in mano contenente il Prezioso Corpo di Cristo, sicché le detti la Santissima Eucaristia da portare alla sorella. Dopo la Santa Messa uscii dalla chiesa e, prima di risalire in macchina, mi misi in un angolo nascosto del muro esterno della clausura, accesi il telefono cellulare e controllai se c’erano chiamate perdute e messaggi. E così, dall’interno della santissima clausura papale, odo delle voci maschili. Mi allontano dal muro e salgo su un vicino dosso per vedere a distanza se riesco a intravedere all’interno dello spazio claustrale. Oltre il muro della santissima clausura papalec’erano due giovani ventenni, vestiti in canottiera e pantaloncini corti — per meglio chiarire: i pantaloncini da calcio, in pratica delle mutande — che presumo stessero facendo lavoretti, anche perché avevano attrezzi di lavoro. Era evidente che in quel momento fossero in pausa, infatti stavano parlando sguaiatamente ad alta voce e armeggiando con uno dei loro telefoni cellulari, come se stessero guardando qualche cosa di particolarmente divertente sul display.
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Inutile a precisarsi, perché col buon senso ci giunge pure il più digiuno in diritto canonico: un presbìtero, nell’esercizio delle sue funzioni sacramentali può, anzi deve all’occorrenza entrare nella clausura papale, con tutte le modalità dettate dai canoni e dalle regole monastiche — che io conosco, ed i miei confratelli sacerdoti altrettanto —, per amministrare i Sacramenti alle monache inferme. Ma soprattutto ho piena facoltà di farlo proprio nel caso in cui, mentre la priora impediva a me di entrare nel coro durante la celebrazione della Santa Messa per portare la Santa Comunione ad un’inferma davanti a tutta la comunità e sotto gli occhi dei fedeli presenti in chiesa, al tempo stesso permetteva però ad un paio di giovanotti più svestiti che vestiti di muoversi disinvolti, sguaiati e irriverenti dentro gli spazi della santissima clausura papale delle Carmelitane Scalze. E mentre si seguita a propinare l’immagine diafana di Teresa d’Avila in estasi, al tempo stesso si seguita a ignorare che la Santa Madre, la riforma dell’Ordine Carmelitano, la fece all’occorrenza anche a bastonate. E con questo esempio credo sia stato spiegato e chiarito in che modo cinquecento anni, non per poche, anzi purtroppo per molte, siano trascorsi inutilmente, di secolo in secolo, di riforma in riforma.
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QUANDO LA TRAGEDIA È TROPPO TRAGICA, MEGLIO SMORZARE CON UNA NOTA DI COLORE
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Quando i problemi sono molto seri e le situazioni che ne derivano veramente tragiche, mi avvalgo sempre di una mia consolidata facoltà: partire da una nota di colore. In questo caso una nota rosa, femminilmente intesa. Infatti, ad ispirarmi questo scritto è stata una donna appartenente alla più infausta delle categorie femminili, che è quella delle cosiddette suorine stolte. Detto ciò è opportuno precisare che molti preti e frati, nella loro superficiale stoltezza, possono essere superati solo dalle suore. Le suore rimangono infatti insuperabili in un elemento al quale neppure i peggiori dei chierici e dei religiosi riuscirebbe mai a giungere: quella particolare cattiveria caratterizzata da elementi di crudeltà spesso indicibili che è del tutto unica e peculiare delle suore. E così, trovandomi a interloquire con una suorina stolta appartenente ad una delle sempre più numerose congregazioni in agonia destinate nei prossimi anni alla totale estinzione per mancanza di vocazioni e per l’età ormai molto elevata delle religiose in essa sopravvissute, alla mia domanda se per caso, durante il periodo successivo al Concilio Vaticano II, qualche cosa nella sua, come in tante altre congregazioni, non fosse andata per il verso giusto, la poverina risponde con questo sfoggio di acume mirabile: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!».
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Lo premetto e lo ammetto “candidamente”: io non chiedo di meglio che poter mettere in imbarazzo unasuorina stolta, di quelle che da una parte paventano apertura, modernità e disinvoltura, dall’altra, se un bimbo di quattro anni del loro asilo deve essere aiutato ad orinare, ecco che per assisterlo spediscono la maestra laica, perché potrebbero rimanere turbate giorno e notte per una settimana intera dall’attributo imberbe di un piccolo angioletto, quantunque gli angioletti non orinino, mancando ad essi la materia prima, ossia l’attributo virile, dato che gli angeli non hanno sesso. Infatti, nessuno dei nostri Santi Angeli Custodi si è mai ammalato alla prostata, pur essendo costretti a fare da protettori ad alcuni dei peggiori preti, dei peggiori frati e delle peggiori suore, cosa questa che causerebbe un tumore alla prostata anche all’apparato urologenitale più sano. Forse per questo gli Angeli sono stati creati senza sesso, per evitare gravi malattie infiammatorie e tumorali all’apparato urogenitale reattive al dover adempiere al ruolo di custodi di preti, frati e suore. Premesso e ammesso il tutto, passai alla mia risposta che fu questa:
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«Vede, cara Sorella, il Concilio di Trento, casomai lei non lo sapesse, di meriti ne ha avuti tanti e, a dire il vero, dalla peggiore oscurità, semmai ci ha liberati. In modo del tutto particolare ha liberato anche voi religiose, per esempio proibendo la costituzione e la vita di quelle che in linguaggio secolare si chiamavano Case Chiuse».
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Dato però che la suorina stolta non capì, o chissà se finse invece di non capire, fui costretto ad illuminarla proseguendo così il discorso:
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«… lei lo sa che prima dell’oscuro Concilio di Trento avevamo monasteri e conventi femminili che erano degli autentici bordelli? Basti dire che durante una sua omelia dal pulpito della Basilica di San Marco tenuta il 25 dicembre 1497, il celebre predicatore francescano Timoteo da Lucca aveva inveito contro i peccati che si commettevano nei monasteri femminili di Venezia denunciando: “[…] quando viene qualche Signore in questa terra, voi gli mostrate i monasteri di monache, che però non sono monasteri, bensì postriboli e pubblici bordelli” [2]Tali erano infatti i monasteri — vale a dire dei bordelli — perché le nobili e ricche famiglie in modo del tutto particolare, per questioni legate spesso sia ai loro patrimoni, sia talvolta a questioni anche politiche, rinchiudevano — o come soleva dirsi monacavano — le loro figlie che, all’interno di quelle strutture religiose, avevano però i loro alloggi separati, la loro servitù e la loro personale cucina. Ci sono state potenti e nobili famiglie che hanno costruito appositamente abbazie e monasteri per le loro figlie, dotandoli di patrimonio e di rendite; e le giovani monacate di queste famiglie, in questi monasteri erano elette sempre e di rigore badesse, perché in caso contrario la potente famiglia avrebbe revocate le rendite. Animate quindi tutt’altro che da fede, vocazione e virtù di vita, le giovani conducevano dentro quelle sacre mura esistenze mondane, non di rado come vere e proprie cortigiane, con tanto di feste interne e di uomini che entravano ed uscivano senza problemi; ed i monasteri dove regnavano in assoluto le più indicibili dissolutezze morali, erano quelli delle monache benedettine e delle monache cistercensi».
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Nel 1514 il Tribunale dell’Inquisizione di Veneziaebbe modo di occuparsi di un caso al di là della stessa fantasia umana, quello delle pie monache benedettine del Monastero di San Zaccaria, che non contente di avere trasformato il loro parlatorio — e non solo il parlatorio —, in un salotto di accoglienza per giovanotti, cantanti e attori, un bel giorno organizzarono una festa in maschera che nel suo corso si mutò in un vero e proprio baccanale da fare invidia alle antiche città di Pompei ed Ercolano, che come ricordiamo agli eventuali digiuni di storia romana erano due postriboli a cielo aperto [3].
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La Chiesa del Concilio di Trento riportò anzitutto i monasteri ed i conventi ad essere ciò che dovevano essere: luoghi di preghiera e di penitenza. Il decreto del 3 dicembre 1563 vietò la professione dei voti prima dei sedici anni e l’ingresso in monastero prima dei dodici; impose l’obbligo di almeno un anno di noviziato e stabilì che il vescovo accertasse la reale volontà della giovane ad intraprendere liberamente la vita religiosa. Quel decreto ristabilì così il principio della clausura e fatte salve rare eccezioni nessuna monaca poteva uscire dal monastero e nessun estraneo poteva entrarvi, in modo particolare gli uomini. Nel 1566, con la bolla Circa pastoralis officii il Santo Pontefice Pio V comminò la scomunica a tutti i trasgressori, mentre le leggi ecclesiastiche avevano già chiarito e inserito tra i delitti quello del sacrilegio carnale. Sicché solo un sacerdote, preferibilmente anziano o scelto in ogni caso con accortezza dal vescovo, era ammesso all’interno della clausura e unicamente per amministrare i Sacramenti alle monache inferme o ammalate, ed era previsto dalle leggi canoniche che quattro monache anziane lo accogliessero all’ingresso della clausura, lo accompagnassero e poi lo conducessero di nuovo all’uscita. I rapporti delle giovani monache con la famiglia erano ridotti a brevi incontri nel parlatorio, il tutto con la rigida separazione creata da fitte grate, dalle quali si poteva udire la voce della monaca ma solo a malapena se ne poteva intravedere la figura. Le grandi famiglie nobili sollevarono molte proteste contro questo irrigidimento della vita conventuale, ma nessuna delle loro proteste impedì l’applicazione delle nuove norme nate dai «tempi oscuri del Concilio di Trento», che impedì alle famiglie di risolvere i loro problemi patrimoniali e di successione ereditaria spedendo le figlie nelle abbazie e nei monasteri, ed impedendo altresì a figlie senza alcun barlume di vocazione di mutare queste case religiose in autentici postriboli all’interno dei quali condurre vite da vere e proprie cortigiane. Un fenomeno, quello delle giovani costrette alla monacazione, che assunse risvolti a tratti non poco inquietanti, in modo particolare nelle città di Venezia, Napoli e Palermo.
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Alcuni decenni dopo la chiusura del Concilio di Trento, le autorità civili della Repubblica di Venezia giunsero ad introdurre una legge contro i monachini — in tal modo erano indicati gli amanti delle monache — che prevedeva sino alla pena di morte, ciò non solo per il sacrilegio carnale ma anche per la semplice violazione della clausura. Legge introdotta ma rimasta nei concreti fatti lettera morta, perché sia le monache dissolute, sia i loro monachini, appartenevano, se non di rigore ma comunque quasi sempre, alle famiglie più potenti e altolocate di quelle stesse città.
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Non solo, col Concilio di Trento, fu restituita dignità alla vita religiosa, perché dopo quella stagione di riforme, la Chiesa ed il mondo poté assistere ad una sua straordinaria rinascita. Il tutto con buona pace dellasuorina stolta coi capelli al vento e le gonne a mezza gamba che starnazza sul cosiddetto «oscurantismo tridentino» al capezzale della propria congregazione ormai agonizzante nel reparto di oncologia della vita religiosa femminile, dove attualmente sono ricoverate decine di congregazioni religiose che entro pochi anni non esisteranno più.
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E il vero oscurantismo fu!
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IL CONCILIO DI TRENTO OFFRÌ  UNA GRANDE MEDICINA MA LA CURA NON FU TOTALE A CAUSA DI MOLTI MEDICI CHE NON LA PRATICARONO
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Il Concilio di Trento non fu propriamente un incontro tra fratelli convenuti a Roma per parlare un po’ diammodernamento e pastorale, sostituendo il dialogo alla dura condanna il rigore della dura dottrina al ragionamento teologico aperto e pluralistico, come cinque secoli appresso — tanto per chiarirsi —, fu ridotto il Concilio Ecumenico Vaticano II, nel corso del quale fu prodotto: prima il para-concilio dei teologi in combutta coi giornalisti, poi appresso il ben più problematico post-concilio dal quale è nato quello che da anni vado definendo come il concilio egomenico dei socio-teologi. Il Concilio di Trento ebbe anzitutto una durata di ben diciotto anni [1545 – 1563] e si svolse sotto i pontificati dei Sommi Pontefici Paolo III, al secolo Alessandro dei principi Farnese [Canino 1468 – Roma 1549], Giulio III [Monte San Savino 1487 – Roma 1555], Pio IV [Milano 1499 – Roma 1565]. Ho reputato opportuno chiarire questa cronologia perché tra l’ignoranza che regna oggi sovrana — ahimè anche e soprattutto nel clero cattolico —, non rare volte ho udito ecclesiastici e pastori in cura d’anime affermare che il Concilio di Trento si sarebbe svolto sotto il pontificato del Santo Pontefice Pio V, che fu invece eletto due anni dopo la chiusura del concilio tridentino, nel 1566. Questa confusione generata purtroppo da crassa ignoranza deriva dal fatto che il Santo Pontefice Pio V pubblicò il 14 luglio 1570 l’edizione riformata ed unificata del Missale Romanum, anche noto come Messale di San Pio V o comeMessale Tridentino.
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Il Concilio di Trento offrì, anche a livello disciplinare, delle indubbie, grandi ed efficaci cure. Potremmo dire che a suo modo istituì la chemioterapia per combattere il cancro ed impedire la diffusione delle metastasi nel Corpo della Chiesa. Pur malgrado la Chiesa visibile fu lungi dal mutarsi nei successivi decenni nella Gerusalemme Celeste, perché la lotta contro il cancro e le metastasi risulterà sempre inefficace se gli oncologi preposti omettono di praticare le cure con tutte le relative terapie. Il tutto lo apprendiamo dagli scritti e dalle parole di fuoco vergate e pronunciate da diversi Santi nei loro testi o sermoni. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, vescovo e dottore della Chiesa [1696-1726] non esitò a lamentare il desolante e basso livello dei Vescovi del Meridione d’Italia, i loro interessi economici ed il loro asservimento al potere politico in vista del conseguimento di benefici e prebende; non esitò neppure ad indicarne le scarse capacità pastorali, ma soprattutto la bassa formazione teologica, con tutto ciò che da simili vescovi poteva derivarne al loro clero. Inutile ricordare che siamo a circa due secoli di distanza dalla chiusura del Concilio di Trento.
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Lamentele analoghe a quelle del Santo vescovo e dottore della Chiesa Alfonso Maria de’ Liguori, affiorano diverse nello stile espressivo ma identiche nella sostanza dagli scritti del Beato Antonio Rosmini, raccolti oltre un secolo dopo nell’opera Delle cinque piaghe della Santa Chiesa[il testo curato dai Padri Rosminiani è leggibile QUI].
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Se Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, appresso il Beato Antonio Rosimini, si esprimevano rispettivamente nel Settecento e nell’Ottocento entro termini così reali e severi, ciò è dovuto al fatto che trascorsi due e tre secoli dalla chiusura del Concilio di Trento, persino alcuni dei suoi canoni fondamentali non erano stati ancóra applicati in molte regioni della vecchia Europa, incluse non poche antiche Chiese locali di fondazione apostolica. Così, per apparente paradosso, il Concilio di Trento ebbe migliore e più capillare applicazione nelle terre di missione per opera dei missionari, che muovendosi sulle discipline tridentine evangelizzarono interi continenti. Le conseguenze furono che, mentre nelle missioni dell’America Latina i missionari provvidero ad istituire nel XVI secolo i seminari resi obbligatori dai Padri del Concilio per la formazione dei sacerdoti, in molte antiche diocesi del Meridione d’Italia, alla metà del Settecento, i seminari non erano stati ancóra istituiti. E quando furono istituiti, lo furono per formare al loro interno i figli delle famiglie nobili o dell’alta borghesia, da destinare poi ad incarichi ecclesiastici di rilievo, mentre la gran parte dei futuri sacerdoti seguitavano a ricevere la loro scarsa formazione da parroci di campagna come avveniva prima del Concilio di Trento. Non va poi dimenticato che per questioni di carattere sia politico sia economico, in molti Stati europei, l’applicazione di molti canoni del concilio tridentino, fu ostacolata dai regnanti, ovviamente con la compiacente accondiscendenza dei vescovi del luogo, che se da una parte non applicavano,dall’altra lucravano, dai Borbone nel Meridione dell’Italia come dai prìncipi germanici nell’estremo Nord dell’Europa, i loro buoni benefici e prebende.
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Il Concilio di Trento stabilì l’età di venticinque anni per ricevere la sacra ordinazione sacerdotale, ma molti vescovi non si attennero a quella come ad altre disposizioni, n’è esempio esauriente uno dei grandi santi della carità, Vincenzo de’ Paoli [Pouy, 1581 – Parigi, 1660], proveniente da una famiglia molto povera ed avviato dal padre agli studi ecclesiastici grazie al sostegno di un ricco avvocato di Tolosa che pagò le sue spese di formazione, ma soprattutto non sappiamo bene se mosso inizialmente da una autentica vocazione, che in ogni caso giunse in seguito e con esiti del tutto straordinarî. Infatti, il padre, sperava che in futuro, acquisito uno statussuperiore, il figlio potesse aiutare e sostenere la famiglia. Incurante di quanto disposto quattro decenni prima dai canoni del Concilio di Trento, il Vescovo di Tolosa lo consacrò sacerdote ad appena diciannove anni il 23 settembre del 1600.
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DOPO IL CONCILIO DI TRENTO, SCOMPARVE FORSE IL MALCOSTUME DAI MONASTERI FEMMINILI?
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Il Cinquecento fu indubbiamente il secolo dei grandi riformatori e dei grandi Santi che dettero vita e concreta esecuzione alle riforme operate dal Concilio di Trento, si pensi a Sant’Ignazio di Loyola [Azpeitia, 1491 – Roma, 1556] ed ai suoi primi Compagni, a San Filippo Neri [Firenze, 1515 – Roma 1595] ed a San Felice da Cantalice [Cantalice, 1515 – Roma, 1587], a San Carlo Borromeo [Arona, 1538 – Milano, 1584], a San Pietro da Alcántara [Alcántara, 1499 – Arenas, 1562], a Santa Teresa d’Avila [Avila, 1515 – Alba de Tormes, 1582] ed a San Giovanni della Croce [Fontiveros, 1542 – Úbeda, 1591], a San Giovanni d’Avila [Almodóvar del Campo, 1499 – Montilla, 1569], a San Giovanni di Dio [Montemor-o-Novo, 1495 – Granada, 1550] … senza certo dimenticare la già richiamata figura del Santo Pontefice Pio V [Bosco Marengo, 1504 – Roma, 1572], che per questi Santi fu ispiratore ed autentico modello di dottrina, virtù morale e pastorale.   
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I vizi e le decadenze morali che serpeggiavano nei conventi e nei monasteri tra il Quattrocento ed il Cinquecento, furono lungi dall’essere estirpati. O per dirla con alcuni tristi esempi scelti a caso tra i numerosi storicamente a disposizione: ad un tiro di schioppo da Roma, nella cittadina di Sora, alla metà dell’Ottocento, nel territorio canonico della Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo, la badessa del monastero di Santa Chiara, Domna Maria Francesca Tronconi, comunicava all’Arciabate di Montecassino, Dom Celestino Gonzaga da Napoli, che il canonico Basilio Fortuna, membro del Capitolo della Cattedrale di Santa Maria Assunta a Sora e confessore ordinario delle monache di Santa Chiara, aveva abusato di tre religiose durante le confessioni sacramentali e di averle messe incinte. Delle tre, una certa Iacobelli, nei giorni che la badessa vergava quella lettera sarebbe stata prossima al parto [4].
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Come dimenticare ciò di cui sono poi capaci certe religiose, basti narrare tra i tanti un caso emblematico: nel 1821, due monache del monastero di Sant’Andrea Apostolo ad Arpino e con loro una terza, ancora educanda, accusarono il confessore ordinario di gravi molestie. Dopo accurate indagini canoniche le accuse si rivelarono però infondate e le tre donne ritirarono la loro denuncia, tentando di sostenere che si erano sbagliate e che avevano solamente frainteso il sacerdote. La triste vicenda stava però in tutt’altri termini: una delle monache aveva marchingegnato il tutto con l’appoggio e la complicità delle altre due, desiderando ella vendicarsi in tutti i modi del confessore che l’anno precedente aveva denunciato all’Autorità Ecclesiastica un prete per gravi abusi su delle religiose. Il prete denunciato, era però parente di questa monaca, che riteneva infangato il buon nome della sua famiglia a causa di quella denuncia. Così, la religiosa, tentò di vendicarsi rivolgendo a questo innocente la stessa accusa [5].
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Secondo la locuzione del Santo vescovo e dottore della Chiesa Ambrogio di Milano [Gallia 337 – Mediolanum 397] la Chiesa è «casta meretrix», una meretrice casta. Espressione, quella dell’antico Vescovo di Milano sulla quale oltre un decennio fa, il Venerabile Pontefice Benedetto XVI strutturò una delle sue omelie indicando la Chiesa come «santa e composta di peccatori» [6] [il testo integrale è leggibile, QUI].  In alcuni particolari momenti storici, la Chiesa non appare neppure composta semplicemente da uomini defettibili e peccatori, bensì come una vera e propria struttura di peccato che produce al proprio interno peccato e che lo diffonde al proprio esterno.
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Prima ancóra del Concilio di Trento, i malcostumi e la grande decadenza morale che imperversava nel clero fu condannata in modo molto severo dal IV Concilio Lateranense, che promulgò settanta decreti di riforma e che fu convocato da quell’uomo di ferro del Sommo Pontefice Innocenzo III [Gavignano 1161 – Perugia 1216]. I canoni disciplinari di questo concilio lasciano intendere in modo molto chiaro ed esauriente quali fossero le profonde e gravi decadenze morali e le corruttele che impestavano il clero. Eppure, a pochi decenni di distanza dopo la celebrazione di quel Concilio, un altro Santo e dottore della Chiesa, Bonaventura da Bagnoregio [Bagnoregio 1221 – Lione 1274], si esprimeva in questi termini per nulla rassicuranti:
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«Roma corrompe i prelati che corrompono i preti che corrompono il Popolo di Dio».
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A valutare la situazione in cui versa al presente la Chiesa, viene da chiedersi se i canoni disciplinari contro i malcostumi morali del clero siano stati scritti per gli ecclesiastici del 1215 o per quelli di oggi [il testo in traduzione italiana è leggibile, QUI].
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Nessun Concilio, ha mai resa la Chiesa perfetta,nessuno di essi ha mai distrutta la corruzione dell’uomo ed il peccato. I concilî, alcuni di essi in particolare, hanno ridato alla Chiesa ossigeno e l’hanno messa nella condizione di continuare a vivere in un corpo ecclesiale formato da ecclesiastici e da fedeli laici all’interno del quale convivono da sempre assieme peccatori e santi. Tutto questo ci è spiegato dalla parabola della zizzania e del buon grano che si conclude con queste parole:
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«[…] Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio» [Mt 13, 27-30].
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QUAL È LA REALE SITUAZIONE DELLA VITA RELIGIOSA FEMMINILE DOPO LA GRANDE VENTATA DEL CONCILIO VATICANO II ?
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Per rispondere a questo quesito partiamo dai dati numerici: la popolazione mondiale oggi conta sette miliardi e mezzo di persone, nel mondo di oggi l’età media della vita di una donna è di 70 anni e otto mesi; quella di una donna europea è di 84 anni e nove mesi. Oggi nel mondo i fedeli cattolici sono circa un miliardo e trecento milioni. Le religiose degli ordini e delle congregazioni religiose femminili, secondo le statistiche che il 30 ottobre 2018 hanno ufficializzato i dati del 2017, ammontano a 659.445, sottraendo il numero dei decessi al numero delle nuove professioni religiose abbiamo una decrescita di meno 10.885, l’età media delle religiose è pari a 64 anni, ma se alla statistica fossero sottratte l’Africa e alcuni Paesi dell’Asia, l’età media delle religiose sarebbe al di sopra dei 70 anni, n’è prova che in Europa, da un ventennio a questa parte, le religiose stanno progressivamente sparendo da intere diocesi [cf. dati statistici ufficiali, QUI]. Andiamo adesso indietro di sessant’anni, per l’esattezza cinque anni prima l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, quando secondo il paradigma della suorina stolta usato come filo conduttore di questo mio scritto, vigevano le regole «oscurantiste» del Concilio di Trento. Nel 1958 la popolazione mondiale contava due miliardi e novecento milioni di persone, i cattolici nel mondo erano circa 800 milioni, l’età media della vita di una donna era di 49 anni, quella di una donna europea di 67 anni, le religiose degli ordini e delle congregazioni religiose femminili risultavano nel 1957 un milione e sessantamila, l’età media delle religiose era di 41 anni, sottraendo il numero dei decessi al numero delle nuove professioni religiose abbiamo un incremento di più 12.450.
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Faccio notare, a chi eventualmente non vi avesse prestata attenzione, quando siano allarmanti questi due diversi dati statistici: quello registrato quando vigeva sempre «l’oscurantismo tridentino», quello registrato mezzo secolo dopo l’esplosione della nuova Pentecosteavvenuta con il Concilio Vaticano II. Il dato allarmante si regge sia sul numero della popolazione mondiale sia su quello dei cattolici nel mondo. Infatti, quando in epoca «oscurantista» la popolazione mondiale non arrivava a tre miliardi di persone ed i cattolici erano circa 800 milioni, le religiose nel mondo erano oltre un milione, mentre mezzo secolo dopo la nuova Pentecoste, a fronte di un popolazione mondiale più che raddoppiata — sette miliardi e mezzo di persone —, nonché a fronte di una popolazione cattolica mondiale passata da circa 800 milioni di fedeli a un miliardo e trecento milioni, le religiose risultano calate per un numero pari ad oltre 400.000 in soli sessant’anni, il tutto — lo ripeto di nuovo — mentre la popolazione mondiale era più che raddoppiata e mentre i cattolici erano mezzo miliardo di fedeli in più rispetto a quelli di circa mezzo secolo prima.
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Se i numeri sono aridi e non hanno un’anima, hanno però una storia, soprattutto una ragion d’essere, ecco allora sorgere la prima domanda: se dopo quello che taluni ecclesiastici e teologi contemporanei definiscono trionfalmente come il più grande concilio della storia della Chiesa, siamo giunti a questi dati statistici; se di giorno in giorno chiudono istituti religiosi, monasteri e conventi storici di lunga tradizione, qualcuno, intende cominciare a chiedersi se per caso, in quella che a suo tempo fu definita come nuova Pentecoste, qualche cosa non è andata per il verso giusto? È una risposta, questa, che viene richiesta in modo serenamente doloroso alle Autorità Ecclesiastiche ed ai Pastori della Chiesa, non è affatto reclamata dalla prevenzione, né dall’ironia e meno che mai dalla cieca ideologia: è una risposta reclamata dai numeri, che come dicevo poc’anzi non hanno un’anima, ma hanno una loro storia e una loro ragione d’essere. E, questi numeri sconcertanti, a mezzo secolo dalla chiusura dell’ultimo concilio della Chiesa rappresentano una domanda che reclama appunto risposta, anche se costasse dover ammettere che poco prima, che durante e che dopo il Concilio Vaticano II, qualche cosa non ha funzionato, coi conseguenti risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi; risultati resi del tutto innegabili dall’aridità, ma al contempo dalla innegabile precisione dei numeri.
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ERA NECESSARIO UN «AGGIORNAMENTO» DELLE RELIGIOSE A COLPI DI TAILLEURS, TESTE SCOPERTE E MESSE IN PIEGA DAL PARRUCCHIERE ?
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Tra la metà degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta del Novecento, la vita di gran parte delle congregazioni femminili è stata sconvolta — più e peggio di quelle maschili —, dalla grande ventata del cosiddetto “aggiornamento”. Diversi sono stati i capocomici nel corso della infelice stagione del post-concilio egomenico — in testa a tutti i Gesuiti, che in molti istituti religiosi femminili svolgevano da molti anni il ministero di confessori e di direttori spirituali —, i quali hanno letteralmente stravolta la vita, il senso della vita ed il carisma di quegli istituti. O, sempre per ricorrere a degli esempi concreti: sino al 1965 le religiose erano ricoperte coi propri abiti dalla testa ai piedi e con i capelli interamente nascosti dal velo, il significato ed il senso del quale risale sino ai tempi dell’epoca apostolica. La stessa Beata Vergine Maria è raffigurata nella iconografia sin dai primi secoli col cosiddetto μαφόριον [maphórion]. Il μαφόριον, noto poi come “velo monastico”, era ed è tutt’oggi il segno delle vergini consacrate a Dio. Il Beato Apostolo Paolo, rivolgendosi agli abitanti di Corinto, raccomanda alle donne di coprirsi il capo. Si tratta di una lettera apostolica da collocare indubbiamente nell’epoca e nella cultura in cui fu scritta, ma che attraverso un messaggio che mai ha perduta attualità sottintende il segno e l’intimo senso di appartenenza a Dio della donna a lui consacrata [I Cor 11, 1-6]. Ecco però che d’improvviso, a pochi anni di distanza dall’ultimo Concilio, ci siamo ritrovati dinanzi a suore vestite in tailleurs, con le gonne che coprivano a malapena il ginocchio e con i capelli tinti trattati con la permanente e curati dalla messa in piega fatta dal parrucchiere. Mi domando e domando: è forse un attentato di lesa maestà, dire solo e null’altro che il vero, ossia che cose di questo genere, nel Nord America e in vari Paesi europei, sono avvenute principalmente presso quelle congregazioni religiose che da sempre, se non per vera e propria tradizione, si avvalevano dei Gesuiti come confessori, direttori spirituali, insegnanti e predicatori? [un solo esempio tra i tanti, QUI].
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I fatti dimostrano che il cosiddetto «aggiornamento» delle religiose in tailleurs, con le teste scoperte e le messe in piega del parrucchiere, ha prodotto lo svuotamento di intere congregazioni religiose, che scompariranno definitivamente quando le ottantenni oggi sopravvissute saranno finalmente sepolte con i lorotailleurs, le loro teste scoperte e le loro messe in piega del parrucchiere. Però, moriranno aggiornate! E con loro sarà consegnata alla tomba la loro congregazione religiosa, altrettanto ed anch’essa aggiornata.
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LE CASE RELIGIOSE VUOTE E LE SCELLERATE “CAMPAGNE ACQUISTI” DELLE VARIE CONGREGAZIONI RELIGIOSE RASENTI A VOLTA LA … “TRATTA DELLE NERE”
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In certi discorsi bisogna procedere con cautelaperché purtroppo c’è una chiusura ideologica a priori: infatti, tutto ciò che è nero, di per sé è bello e buono. Soprattutto, tutto ciò che è nero, è vittima sopravvissuta, o vittima discendente delle scellerate politiche coloniali e di conquista dei vari Paesi dell’Occidente. Se in diversi Paesi del Continente africano oggi ci ritroviamo con un clero ingestibile che partendo dalla grande chimera dell’inculturazione — altra parola magica del post concilio — ha finito per divenire un clero che spazia tra l’animismo ed un cattolicesimo adulterato e corrotto, ciò è dovuto al fatto che tra la metà e la fine degli anni Sessanta del Novecento, il Santo Pontefice Paolo VI ebbe la discutibile lungimiranza di voler creare a tutti i costi dei vescovi locali, incurante che alcuni di quei Paesi erano stati evangelizzati neppure trent’anni prima. Numerosi sono stati i casi di soggetti elevati alla dignità episcopale ad appena quarant’anni, od a trentasette o trentotto, che erano stati battezzati e divenuti cristiani a tredici o quindici anni, dopo essere nati e cresciuti in famiglie che li avevano istruiti sin da bambini ai culti animistici ed al culto degli spiriti degli antenati.
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Nei tempi che furono qualcuno ci provò a dire al Santo Pontefice Paolo VI che per dare vita ad un clero autoctono occorrevano generazioni e che per creare i primi vescovi scelti tra i nativi era bene attendere un secolo, o comunque non meno di settanta od ottant’anni, ma a questo, lui che pure lo sapeva bene, non volle prestare ascolto, commettendo, in questo come in altri casi, degli errori notevoli. Chiariamo il tutto con un esempio legato ad una triste figura, quella dell’Arcivescovo Emmanuel Milingo, scomunicato nel 2006 e poi dimesso dallo stato clericale nel 2009 [documento ufficiale, QUI] …
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… Emmanuel Milingo nasce nel 1930 nello Zambia, Paese africano dove la vera e propria evangelizzazione — dopo alcuni sporadici tentativi fatti solo a fine Ottocento in poche località ad opera di piccoli gruppi di missionari —, prende avvio solo dopo il 1915. Riceve il battesimo nel 1942 all’età di dodici anni e la sacra ordinazione sacerdotale nel 1958 all’età di 28 anni. Nel 1959, ad appena 39 anni, è eletto Arcivescovo Metropolita di Lusaka, Capitale dello Zambia. Riceve la consacrazione episcopale dal Sommo Pontefice Paolo VI, che lo aveva voluto vescovo e che lo salutò come il vescovo più giovane dell’intero Continente africano. Questa cronologia non necessita commenti, perché l’apoteosi dell’imprudenza è racchiusa tutta nelle date, alle quali basta aggiungere che i vicariati apostolici istituiti attorno al 1915 nello Zambia, sono stati elevati a diocesi solo tra il 1959 ed il 1976. Emmanuel Milingo fu il primo arcivescovo autoctono dell’Arcidiocesi di Lusaka, suoi predecessori furono due missionari polacchi gesuiti nominati vescovi titolari e posti alla guida di quel vicariato apostolico: Bruno Wolnik dal 1927 al 1950; Adam Kozłowiecki dal 1955 al 1969. Quest’ultimo, prima coltivò e poi indicò a Paolo VI il giovane Emmanuel Milingo come figura di profilo episcopale. Nel concistoro del 21 febbraio 1998 Adam Kozłowiecki fu creato cardinale dal Santo Pontefice Giovanni Paolo II, mentre Emmanuel Milingo, per la sua problematicità non più sostenibile in loco, era già stato costretto a rinunciare al governo della sua diocesi e chiamato a Roma nel 1983. Già quindici anni prima che il méntore di Emmanuel Milingo fosse creato cardinale per i suoi meriti missionari e pastorali — meriti ai quali si potrebbe aggiungere un concetto molto in voga nella Compagnia di Gesù, ovvero la “capacità di discernimento” —, egli aveva già dato tutti i peggiori problemi, sino alla sua grottesca partecipazione come cantante ospite al Festival della canzone italiana di San Remo nel 1997, per seguire con la sua entrata in una sétta, il suo matrimonio-farsa con una Signora coreana, il suo atto di apostasia dalla fede e di scisma dalla Chiesa Cattolica. Alla concreta prova dei fatti Emmanuel Milingo non s’è fatto mancare niente, resta però senza risposta il quesito fondamentale: chi è che di tanto in tanto favorisce con la propria leggera, emotiva e fantasiosa imprudenza la nascita e lo sviluppo di simili “mostri”, in questa nostra Chiesa nella quale Cesare non sbaglia mai e la moglie di Cesare è sempre e di rigore al di sopra di ogni possibile sospetto? 
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Quali sono stati i risultati di certe scelte pastorali?Furono purtroppo che molti vescovi di questi Paesi appena evangelizzati, di fatto si comportavano come dei grandi capi tribù, ma soprattutto avevano sempre a proprio servizio gruppi di giovani suore appartenenti alla miriade di congregazioni di diritto diocesano sorte come funghi in tutta quanta l’Africa; e tutte con lo stesso originale e strano carisma: assistere vescovi e sacerdoti. D’altronde, in un contesto socio-culturale nel quale tutt’oggi il celibato sacerdotale, ma soprattutto la castità ad esso legata, non è facile da far penetrare, si rendeva necessario raccogliere, per i vescovi e per i preti, delle domestiche sessuali in modo per così dire pulito, evitando semmai che i preti lasciassero ragazze incinte da un villaggio all’altro. E che cosa accadeva di prassi, se la suora rimaneva incinta? Se non veniva fatto ricorso all’aborto — cosa purtroppo ripetutamente avvenuta —, a quel punto la suora finiva sbattuta fuori dalla comunità, ed il prete mandato invece a studiare a Roma a spese della Congregazione de propaganda fide.
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Siccome il lupo antropologico perde il pelo ma non il vizio, ecco che nel 2008, ai quattro angoli del grande refettorio del Collegio romano San Pietro adiacente la Pontificia Università Urbaniana, appaiono dei cartelli che avvisano: «È proibito ai sacerdoti far salire le suore nelle proprie camere». Cartelli che furono letti da decine e decine di preti, compresi due che oggi, ad oltre un decennio di distanza, sono divenuti vescovi, uno di una diocesi africana, uno di una diocesi missionaria dell’America Latina; furono infatti proprio loro, ad informarmi di questi cartelli affissi dal rettore del collegio ed a farmene vedere le immagini da loro stessi fotografate.
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Mentre nel pieno della nuova Pentecoste le case degli istituti religiosi si svuotavano nel corso degli anni Settanta, mentre molti noviziati erano ormai deserti e da lì a poco, le suore della vecchia Europa avrebbero dovuto cominciare a fare i conti con l’età, ecco che le loro lungimiranti superiore generali decisero assieme ai loro consigli di aprire missioni in diversi Paesi africani e asiatici. E tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta prese avvio quella invereconda e per certi versi immorale campagna acquisti che potremmo per taluni versi paragonare ad una vera e propria tratta delle nere.
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Dobbiamo però prudentemente sorvolare su quanto siano difficili da trattare e da mettere sulla giusta riga certe giovani africane, culturalmente refrattarie anche alle forme più elementari di disciplina sulle quali si fonda la vita comune nelle comunità religiose, perché affrontando certi temi si leverebbe prontamente per tutta risposta un coro polifonico di anime politicamente corrette per dare inizio al solenne inno: Al razzista, al razzista! E non parliamo di che cosa è accaduto in certe comunità religiose quando sono giunti invece gruppi di brasiliane, con le suore anziane che pregavano per avere la grazia di una veloce e buona morte o perlomeno la grazia di rimanere quanto prima possibile sorde e cieche, ond’evitar d’assistere a certi scempî.
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Questa manovalanza acquisita in siffattecampagne acquisti per evitare l’estinzione di certe congregazioni, benché non si dica, quasi sempre è stata anche particolarmente costosa, con risvolti tutt’altro che puliti. Molte di queste congregazioni, l’acquisizione di certe religiose, l’hanno pagata e seguitano a pagarla col mantenimento economico di tutti i nuclei familiari delle suore. A questo vanno poi aggiunte le ruberie delle suore stesse, che appena hanno potuto si sono impossessate di danaro dalle casse o dalle risorse delle comunità religiose, per inviarlo ai loro parenti nei propri Paesi di origine. Più volte, queste suore, sempre a spese delle comunità hanno portato in Europa loro fratelli e sorelle, costringendo la congregazione a provvedere alla loro sistemazione, inclusa quella di fratelli e nipoti tutt’altro che propensi al lavoro, perché, in alcuni Paesi e culture africane, a lavorare è la donna, non l’uomo. E qui, per evitare che il coro polifonico di anime politicamente corrette pronto a inneggiare Al razzista, al razzista! Dal canto passi alla denuncia, è bene tacere sulla nazionalità di alcuni di questi uomini africani, a tal punto allergici al lavoro che, se un giorno incontrassero la persona che il lavoro l’ha inventato, non esiterebbero ad ammazzarla di botte. Mi riferisco ovviamente a quelli che, pur di non lavorare, preferiscono molto di più portare le loro mogli e le loro figlie a prostituirsi sulle strade delle nostre città, esercitando infine il loro lavoro: togliergli i soldi di tasca quando poi vanno a riprenderle al termine del loro servizio.
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Dopo l’ondata di africane e di brasiliane, è giunta appresso quella delle indiane. In quel caso ci siamo ritrovati più volte dinanzi a giovani ragazze veramente molto belle. E quando una ragazza europea molto bella diventava suora, ciò era quasi sempre segno di una particolare e solida vocazione, perché se avesse voluto, avrebbe potuto aver lieta e felice vita scegliendosi il miglior marito che si sarebbe potuta scegliere, perché da sempre, la bellezza femminile, è una ricchezza che può produrre ottimi matrimoni.
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La campagna acquisti indiana non ha però tenuto conto di una cosa, o meglio non ha voluto tenerne conto: in gran parte delle zone dell’India, se una famiglia non ha i soldi necessari per costituire una dote alla figlia, questa, fosse anche una perla di rara bellezza, non può sposarsi. E le ragazze che non possono sposarsi, spesso scelgono tra due diversi mestieri: fare le prostitute a Calcutta, oppure fare le suore. E tra le due scelte, molte scelgono giustamente la seconda opzione.
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Le superiore generali delle congregazioni che hanno fatto campagne acquisti in India, vogliono per caso narrarci che fine hanno fatto, quelle ragazze tanto belle ma tanto povere, prive per questo di dote matrimoniale, quando sono giunte suore in Italia? Ebbene, premesso che più bugiardi dei preti lo sono solo le suore, sapendo che una domanda simile rimarrebbe senza risposta o comunque sarebbe evasa con una risposta del tutto menzognera, la verità sarà bene che ve la narri io: la maggior parte di queste splendide ragazze, giunte in Italia o in altri Paesi europei, poco dopo si sono trovate un uomo che se l’è prese in moglie trattandole come delle autentiche regine. Infatti, per l’uomo italiano, ed in genere per gli uomini europei, una donna giovane, bella e soprattutto dotata di quella femminilità ormai da tempo perduta da molte delle nostre donne maschiaccecapaci solo a porsi in competizione professionale e sociale con gli uomini, è una ricchezza che non ha prezzo. Ecco dove sono finite molte delle ragazze bellissime, giunte in Italia come suore, in seguito alle campagne acquisti da parte di molte morenti congregazioni religiose che stanno esalando i propri ultimi respiri grazie alla nuova Pentecoste.
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TRA POCO ASSISTEREMO ALLA PIÙ GRANDE SVENDITA DEL PATRIMONIO RELIGIOSO
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Molte congregazioni religiose femminili sono dotate di grandi patrimoni immobiliari. Numerose posseggono stabili grandi e di gran pregio storico e artistico, altre posseggono grandi stabili che un tempo erano asili, scuole, istituti d’istruzione e collegi. Girando per la sola Roma, è visibile agli occhi di tutti che già molti di questi stabili sono stati trasformati in case di accoglienza o alberghi, altri dati in affitto o venduti a privati. Naturalmente, ed in specie uscendo dai centri storici delle grandi città, non sarà possibile convertire tutte queste strutture in alberghi od in sedi di prestigiosi uffici di rappresentanza di aziende private o di liberi professionisti con le parcelle a sei zeri. Pertanto, gran parte di questi patrimoni, sono destinati in breve tempo ad essere svenduti. Sicché, entro breve tempo, assisteremo alla più colossale svendita del patrimonio immobiliare religioso. Forse, affaristi ed avvoltoi vari, avranno già fatto i loro conti, o forse, con lucida freddezza, avranno già fatto il progetto per spartire la torta tra varie società immobiliari e gruppi di singoli e ricchi affaristi.
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A questo dato, o se preferiamo alla tragica cronaca di questa morte annunciata, si uniscono tutte le complicazioni derivanti dalle scellerate campagne acquisti. Esempio: ci sono congregazioni religiose che per lunghi decenni, se non addirittura per secoli, si sono dedicate alla istruzione dell’infanzia od alla gestione di scuole medie superiori caratterizzate dall’alta qualità dell’offerta formativa. Questi istituti, per la maggiore, si reggevano in piedi grazie alle suore che erano tutte quante insegnanti; a onor del vero, erano anche delle insegnanti di indubbio ed alto livello. Durante la nuova Pentecoste, lo Spirito Santo, anziché riempire di vocazioni i noviziati, pare però che per mistero imperscrutabile di grazia li abbia svuotati, nel mentre, le suore, col passar del tempo invecchiavano. Grazie alla campagna acquisti diverse congregazioni sono riuscite a sopravvivere acquisendo un certo numero di suore africane e indiane, le quali però, lungi dall’essere laureate e lungi dal destreggiarsi perfettamente nella lingua italiana, avevano una scarsa formazione scolare e non riuscivano a parlare bene la lingua italiana, figurarsi dunque se potevano sostituire nell’insegnamento scolastico le loro anziane consorelle. A quel punto, laddove è stato possibile, l’istituto è stato mutato in un albergo all’interno del quale oggi, un gruppo di giovani suore africane e indiane, fanno le cameriere, mentre le poche anziane italiane sopravvissute gestiscono e seguiteranno a gestire finché vivranno o finché potranno tutta quanta l’amministrazione. Domanda: che cosa accadrà, quando le anziane suore italiane moriranno e questi istituti, con i relativi patrimoni, finiranno in mano ai frutti della scellerata campagna acquisti? Perché domani, le cosiddette “proprietarie del tutto”, saranno gruppi di suore straniere di bassa cultura, senza adeguata istruzione, con una conoscenza sommaria della lingua italiana e via dicendo a seguire.
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Premesso che dalle attuali suore ho sempre cercato di stare alla larga, come credo sia bene stare alla larga da dei cadaveri messi dentro le celle frigorifero dell’obitorio in attesa che si liberi qualche posto per la loro sepoltura nel cimitero sovraffollato, nella mia personale esperienza sacerdotale e pastorale posso dire di avere conosciuto in Italia solo pochissime suore africane ed asiatiche dotate di profonda formazione e di competenze professionali. Per esempio: ricordo alcune suore indiane che all’interno di una delle migliori cliniche di Roma, di proprietà e gestita dalla congregazione di queste religiose, sono delle infermiere professioniste che tutti i chirurghi che operano in quella struttura cercano sempre di avere vicine come assistenti di sala operatoria, perché sono di una bravura straordinaria. Bisogna però notare che queste suore indiane sono originarie dello stato del Kerala, dove la cultura cristiana è molto antica e dove quella Chiesa particolare vanta la propria fondazione apostolica, avvenuta nell’anno 52 d.C. per opera dell’Apostolo Tommaso. E per cultura ed antica tradizione cristiana, le religiose del Kerala sono del tutto diverse da quelle religiose di altre regione dell’India che sono vegetariane e che non mangiano carni per paura di potersi cibare di qualche loro antenato reincarnato in una mucca o in un vitello. Sempre a Roma ho conosciuto una eccezionale suora filippina, oggi quasi settantenne, giunta in Italia ad appena diciannove anni d’età, che per anni è stata insegnante e direttrice di una scuola media gestita dalla sua congregazione religiosa. Oltre alla sua operosità ed alle sue straordinarie capacità di lavoro, questa religiosa parla l’italiano come una vera e propria madrelingua, conseguì a suo tempo la laurea in lettere ed è stata per quasi quarant’anni un’ottima insegnante e poi direttrice didattica della scuola. Anche in questo caso, però, stiamo parlando di una donna nata nelle Filippine, dove il cattolicesimo non è stato portato pochi decenni fa, ma ha una storia di oltre cinquecento anni, peraltro caratterizzata da una popolazione cattolica particolarmente legata alla fede cristiana e profondamente devota a Roma. Storia diversa ma del tutto analoga a quella della suora filippina, quella di una suora congolese che si destreggia con un perfetto italiano e che parla a meraviglia inglese, francese e spagnolo. Questa religiosa di origine congolese proviene da una vecchia famiglia che è cattolica da generazioni e che decise di diventare suora quando, con una borsa di studio, giunse poco più che diciottenne a Roma per svolgere gli studi universitari, dopo avere studiato per quattro anni italiano alla scuola media superiore della sua città, avendo in programma i suoi genitori di mandarla a studiare in quella metropoli europea da loro considerata la grande capitale mondiale della cristianità. E qui facciamo notare che l’evangelizzazione del Congo prese avvio sul finire del Quattrocento, mentre agli inizi del Seicento i Gesuiti fondarono in quel Paese l’istituto del Santissimo Salvatore, che formerà per gli anni a seguire le classi dirigenti congolesi, mentre a metà del Seicento giunsero i Frati Minori Cappuccini, ai quali fu invece affidato il compito di istruire e di assistere il clero locale nella erezione delle parrocchie.
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Fatte salve le eccezioni e senza temere che la corale polifonica del politicamente corretto dia avvio all’inno Al razzista, al razzista! I prodotti di queste campagne acquisti, oltre all’elevato numero di suore indiane approdate alle vita religiosa perché prive di dote e quindi del mezzo fondamentale per potersi sposare, è stata la introduzione in molte congregazioni religiose di numerose suore provenienti da vari Paesi africani di recente evangelizzazione, divenute cristiane da adolescenti, prive di una profonda formazione cristiana e prive di adeguata formazione religiosa dovuta proprio alla loro carente formazione cristiana, intrise di animismo, affette da non poche superstizioni e di fatto legate ancóra ai culti degli antenati. Quando le vecchie suore italiane che oggi reggono ormai le propri vite coi denti e che dall’altra seguitano a reggere ed a gestire queste congregazioni, verranno a mancare, quale fine faranno questi istituti, inclusi i loro patrimoni spesso cospicui, quando il tutto sarà in mano ai prodotti della infelice campagna di acquisti?
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ERA MEGLIO NEL PERIODO PRECEDENTE IL CONCILIO DI TRENTO QUANDO MOLTI MONASTERI ERANO DEGLI AUTENTICI BORDELLI
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I frutti prodotti dalla nuova Pentecoste, o come dicono altri «da quell’aria di primavera entrata negli armadi da troppo tempo chiusi della Santa Chiesa di Dio», sono quelli che abbiamo sotto gli occhi: sono frutti che hanno prodotto una crisi religiosa negli istituti femminili come mai s’era vista prima. In fondo noi abbiamo piantato un albero che doveva essere il più bello e rigoglioso del giardino, ed anche se nei fatti non lo è, c’è chi lo dichiara tale, lanciando tutti i fulmini e le saette dell’ostracismo verso chiunque osi indicare che l’albero è brutto e ammalato. Eppure il Santo Vangelo, tramite le parole di Cristo Signore, ci insegna come riconoscere gli alberi:
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«Non c’è albero buono che faccia frutti cattivi, né albero cattivo che faccia frutti buoni. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dalle spine, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» [Lc 6, 43-45].
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Dovremmo pertanto domandarci: se l’albero è cresciuto storto ed i frutti da esso dati sono morti prima ancóra di germogliare, può essere che sia nel piantarlo sia nel farlo crescere, qualche cosa non sia andata per il verso giusto?
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Il Vaticano II è stato un concilio della Chiesa, per l’esattezza il XXI°, non è stato né un super-concilio né il concilio dei concili. Ma soprattutto, come ci spiegò il Venerabile Pontefice Benedetto XVI, il Vaticano II non può essere mutato in una sorta di superdogma. Concetto questo ripreso dal Sommo Pontefice il 14 febbraio del 2013, tre giorni dopo avere fatto atto di rinuncia al sacro soglio. In questo suo discorso rivolto al clero romano Benedetto XVI ammette chiaramente che nella Chiesa imperversa una grave crisi di ordine dottrinale e morale, attribuendola sia al para-concilio celebrato dai teologi sulle colonne dei giornali, sia al post-concilio:
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«[…] Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale […]» [testo integrale,QUI].
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A metà degli anni Sessanta fu annunciato l’arrivo delle nuova primavera della Chiesa, alla prova dei fatti siamo invece sprofondati in uno dei peggiori inverni siberiani, o come scrissi in un mio articolo due anni fa: siamo alla nuova caduta dell’Impero Romano. [vedere testo QUI].
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Come ho spiegato nel corso di questo mio scritto,dopo il Concilio di Trento abbiamo assistito ad una grande rifioritura della Chiesa unita ad una grande attività missionaria, il tutto collocato nella storia di quel Cinquecento che fu un secolo di grandi riformatori e di grandi Santi. Pur malgrado, il Concilio di Trento non debellò affatto i malcostumi, ed a distanza di alcuni secoli molti dei suoi canoni fondamentali non risultavano ancora applicati ovunque, oppure erano solo parzialmente applicati. 
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I prodotti postumi al Concilio Vaticano II sono oggi sotto gli occhi di tutti: a mezzo secolo da quello che taluni indicano come il più grande Concilio della Chiesa, od il concilio dei concili, la Chiesa versa in una crisi dottrinale, morale e spirituale dinanzi alla quale è davvero difficile trovare dei precedenti storici, perché si tratta di una situazione e di una crisi del tutto nuova. Concludendo pertanto con l’iniziale paradigma della suorina stolta che affermava: «Mica possiamo tornare ai tempi oscuri del Concilio di Trento!», come estrema risposta conclusiva penso di poter replicare che sul piano della vita religiosa femminile, forse sarebbe meglio tornare al periodo precedente al Concilio di Trento, quando molti monasteri erano ridotti a degli autentici bordelli. Non dimentichiamo infatti che al loro interno, oltre alle monache divenute tali per costrizione, c’erano anche delle Sante che come buon grano vivevano a fianco a fianco con la gramigna [cf. Mt 13, 27-30], perché come insegna il Beato Apostolo: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» [Rm 5, 20]. E sul finire merita ribadire che la grande Santa e riformatrice Teresa d’Avila nacque proprio in questo genere di monasteri popolati di monache dissolute, divenendo ciò che è divenuta e producendo i frutti che ha prodotto.
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Oggi questo non è possibile, perché non stiamo più parlando di grano e gramigna che vivono assieme e che devono essere lasciati assieme per evitare il rischio di distruggere anche una spiga sola di buon grano; oggi noi siamo di fronte al cadavere della vita religiosa femminile posto dentro la cella frigorifera dell’obitorio per evitare che si decomponga. E lo stato di grazia, come risaputo, abbonda anche e soprattutto nel peggior peccato, ma sui corpi dei viventi, non sui cadaveri dei morti. Mai nessuno potrà infatti pronunciare su di un cadavere la formula: «Io ti battezzo…», oppure «Io ti assolvo dai tuoi peccati», meno che mai si può porgere la Santissima Eucaristia sulla bocca di un morto dicendo al cadavere inanimato «Il Corpo di Cristo».
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Ma questo, la suorina stolta con la chioma al ventoe la gonna a mezza gamba, abbeveratasi al post-concilio nato dal para-concilio, non lo sa, come tutte le persone che vivono incoscienti e irresponsabili con l’idea di una primavera sotto il gelo invernale delle temperature glaciali della Siberia. Perché gli alberi, belli e rigogliosi, lo sono per i frutti che danno, non per i frutti non dati ma da noi in ogni caso immaginati. La fede non si basa sulle emotività ideologiche ma sui fatti, per quant’è vero ciò che insegnava uno dei grandi maestri della scolastica, Sant’Anselmo d’Aosta: fides quaerens intellectum, intellectus quaerens fidem [La fede richiede la ragione, la ragione richiede la fede]. Fantasia e illusione, non sono elementi fondanti della nostra fede, ma elementi di distruzione della fede, perché togliendo il grande lume della ragione che produce le opere e che è dono di grazia mirabile dello Spirito Santo, a quel punto prende vita uno pseudo cristianesimo fondato sul sentimentale e sull’emotivo. E così, si passa dal cristianesimo al neo-paganesimo, allo gnosticismo, se non peggio: all’ateismo. Infatti «la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa […] mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede» [II Gc 1, 17-18]. Ecco la terribile domanda fondamentale di cui molti, troppi, dovranno rendere seriamente conto a Dio: quali sono stati i frutti delle opere e che genere di fede hanno prodotto? È infatti da questi frutti che saremo riconosciuti e poi giudicati da Dio, perché «alla sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere» [Mt 11, 19].
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dall’Isola di Patmos, 3 febbraio 2019
Presentazione del Signore Gesù al Tempio
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NOTE
[1] «Ubi violata […] diligenter restitui, et ubi inviolata […]conservari»: Concilii Tridentinii actorum. Pars sexta complectens acta post sessionem sextam (XXII) usque ad finem concilii (17 sept. 1562-4 dec. 1563).
[2] Citazione originale in italiano arcaico: «[…] quando vien qualche signor in questa terra, li mostrate li monasterii di monache, non monasterii ma prostribuli e bordeli publici» —  Marino Sanuto, Diarii (a cura Federico Stefani), Venezia, 1879, t. I, col. 836. Cfr. anche Pio Paschini, I monasteri femminili in Italia nel ‘500, in AA. VV., Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento. Atti del convegno di storia della Chiesa in Italia, Bologna, 2-6 settembre 1958, Editrice Antenore, Padova, 1960, pp. 31-60 e Innocenzo Giuliani, Genesi e primo secolo di vita del Magistrato sopra monasteri (Venezia, 1962).
[3] S. F. Wemple – S. Salvatore – S. Giulia: A case study in the endowment and patronage of a major female monastery in northern Italy, in Women of the medieval world. Edited by Julian Kirshner and Suzanne F. Wemple. New York: Blackwell, 1985.
[4] Archivio della Nunziatura Apostolica di Napoli, Scat. 44, Denuncia della badessa Domna Maria Francesca Tronconi, 21 aprile 1836.
[5] ASDS, Atti per luogo, Arpino, B. 61, fasc. 4. ASV, Congregazione dei vescovi e regolari, Positiones monialium, Novembre 1822, S. Germano, Placida Scafi.
[6] Cf. S.S. Benedetto XVI, Omelia alla liturgia dell’Epifania, Papale Arcibasilica di San Pietro, 6 gennaio 2008.
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Ringraziando tutti i cari Lettori che ci hanno sostenuti, ricordo, come ormai ben sanno i nostri numerosi affezionati, che la nostra opera si regge interamente sul vostro sostegno economico [cf. QUI], ed a tal proposito ricordiamo:
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«Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo» [I Cor 9, 13-14].

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