ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 22 aprile 2019

Confondere la pace con il pacifismo

Fede cristiana e vita militare. Militia est vita hominis super terram 




La compatibilità tra fede cristiana e vita militare è, da qualche tempo, un argomento capace di creare non pochi disagi, in chi sinceramente voglia professare la vera Fede senza alcun contrasto con la propria vocazione militare. Scopo di questo scritto è quello di dimostrare non solo come non vi sia incompatibilità tra Fede e servizio della Patria in armi, ma evidenziare le affinità esistenti tra cattolicesimo romano (1) e virtù militari.

Il presunto contrasto tra fede cattolica e vita militare è sostenuto da due punti di vista distinti e distanti: quello di un pacifismo cattolico di matrice progressista – venuto alla ribalta come uno degli effetti nefasti del Concilio Vaticano II e del clima di euforia progressista che ha segnato il cosiddetto periodo post-conciliare – che non ha alcun solido riscontro nel magistero tradizionale della Chiesa cattolica; e quello di un neo-paganesimo presente in alcuni ambienti della destra radicale.  Il pacifismo ateo e progressista, tipico di una certa sinistra – e già funzionale alla propaganda sovietica negli anni della cosiddetta “guerra fredda”, che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo – non costituisce oggetto di interesse nel presente articolo, in quanto fondato su presupposti completamente estranei all’orizzonte filosofico e culturale dell’ambiente umano a cui ci riferiamo.


Per quanto concerne l’ambito del neo-paganesimo, riconducibile a tradizioni religiose europee pre-cristiane, la presunta inconciliabilità tra fede cristiana e vita militare, si fonderebbe sul sostanziale pacifismo che contraddistinguerebbe il cristianesimo, liquidato come la religione che invita a “porgere l’altra guancia”; una religione che mortificherebbe una certa virilità attiva, ossia non solo capace di sopportare ma anche di attaccare.

Tali accuse – spesso utilizzate col proposito di allontanare i giovani dall’interesse verso il cattolicesimo – si fondano su di un’interpretazione tanto parziale quanto errata del cristianesimo e dell’ortodossia cattolica. Confondere la pace – che è tranquillità nell’ordine e, prima ancora, armonia fra Creatore e creatura umana – con il pacifismo – che è, invece, il rifiuto di ogni possibile conflitto, in barba alla realtà e con buona pace dei diritti della verità, della denuncia e della lotta all’errore, del diritto/dovere di difendere se stessi ed il prossimo dall’ingiusto aggressore; un’ideologia malsana che fa della pace un valore assoluto a cui tutto sacrificare – è un grave errore in quanto si confonde un vero valore, ancorché relativo, con la sua caricatura.

La pace fra gli uomini è certamente una condizione ottimale, affinché si possano esprimere le qualità di ciascuna persona e le comunità prosperino. Ma, nella condizione umana post-peccatum – ossia considerando la natura umana ferita dal peccato originale – non è realistico pensare di vivere in assenza di ragioni che possano giustificare la necessità di combattere.

Se la pace è, per certi versi, una condizione favorevole ed auspicabile affinché gli uomini si realizzino per quello che sono, sotto altri aspetti lo può essere, nella sua drammatica durezza, anche la guerra dove il valore degli uomini trova modo di esprimersi nei più ardui cimenti.

Il magistero tradizionale della Chiesa romana, non ha mai affermato l’incompatibilità tra Fede e vita militare; anzi si può sostenere, in tutta tranquillità, l’essenziale affinità tra esse esistente. A chi assomiglia il religioso che, vestendo l’abito del suo ordine o della sua congregazione, sceglie di militare sotto il vessillo di Cristo Re per l’onore di Dio ed il bene delle anime, se non al militare che, vestendo la sua uniforme, mette la propria vita al servizio della Patria e della comunità nazionale?

Lo spogliarsi della propria individualità per vestire, invece, i panni della causa, fatto ben simboleggiato dall’abito e dall’uniforme, è un elemento di chiara affinità, come del resto lo sono alcune virtù quali la fortezza, la temperanza, la fedeltà, la tenacia, l’obbedienza, il coraggio, il rispetto della gerarchia, il dominio di sé, il senso del sacrificio nell’adempimento del proprio dovere.

Quella militare, se ordinatamente vissuta, è una vocazione paragonabile a quella religiosa. Ogni cristiano, non condizionato dagli effetti devastanti della confusione seguita al Concilio Vaticano II, sa che il combattimento è parte integrante della propria vita. Combattimento spirituale, certamente ed in primo luogo, contro le tentazioni del mondo e per l’integrità della propria anima; ma, se necessario, anche combattimento sul piano materiale per la difesa della propria vita, di quella dei propri cari, della Patria, della Civiltà. Come accadde, per esempio, al tramonto dell’Impero Romano d’Occidente, con il generale Ezio contro gli Unni; nella Spagna occupata dagli islamici; a Lepanto ed a Vienna contro le armate turco-mussulmane; in Vandea e nell’Italia pre-risorgimentale con le insorgenze controrivoluzionarie ed anti-giacobine; nel Messico dei Cristeros contro la repressione anti-cattolica condotta dallo Stato massonico; nella Spagna flagellata dalla barbarie comunista ed anti-cristiana.

La nota frase tratta dalla Sacra Scrittura (Libro di Giobbe), “Militia est vita hominis super terram” – a cui fa eco la saggezza naturale di Seneca secondo il quale “Vivere militare est” – ben si addice a rappresentare quale sia il senso cristiano della vita su questa terra: una milizia, ossia schieramento e combattimento.

Anche la figura di San Michele Arcangelo, che la teologia cattolica ci presenta quale Capo delle milizie angeliche che combattono contro gli angeli decaduti per la loro infedeltà, dà chiara evidenza dell’essenza militante e guerriera dell’autentico cristianesimo, ossia del cattolicesimo romano non edulcorato e stravolto dal patetico e malizioso tentativo di chi vuole conciliare la Fede con quel mondo per il quale Cristo non prega (2).

Da S. Ambrogio a S. Tommaso d’Aquino, passando per S. Agostino, solo per citare alcune delle più importanti figure di Padri e Dottori della Chiesa, non solo non vi è la condanna del “mestiere delle armi” ma giustificazione della guerra ed esaltazione della vita e delle virtù militari. A tale proposito, riportiamo quanto scritto dalla nota studiosa di storia antica greca e romana, Marta Sordi, nella sua opera L’impero romano-cristiano al tempo di S. Ambrogio: “Nell’Esamerone … Ambrogio pone la decadenza dell’antica repubblica, alla quale, fedele alla tradizione senatoria, guarda con rimpianto, in stretto rapporto con la mutata concezione della militia. Egli deplora la negligenza con cui si svolgono negli accampamenti i turni di guardia, l’indisciplina e l’incuria con cui si accettano i servizi pericolosi imposti dall’imperatore: di qui l’ammirazione per la disciplina con cui l’antica Roma aveva sottomesso il mondo, che abbiamo colto nella lettera del 384 D.C. La virtù che Ambrogio esalta in Camillo, in Attilio Regolo, in Scipione è l’antica disciplina militare romana, fatta di fortezza, di vigilanza, di resistenza alla fatica, di dedizione alla causa comune”.

A chi scrive capitò, anni or sono, di assistere ad una conferenza sul tema del pacifismo cattolico, organizzata da un gruppo parrocchiale di evidente stampo catto-progressita. Ebbene, in tale occasione non fu citato un solo riferimento al magistero cattolico che desse, in qualche modo, un fondamento dottrinale e teologico alle ragioni del pacifismo di quei confusi cattolici. Solo umanitarismo, di cui purtroppo è pregno il mondo cattolico dopo lo “tsunami” vaticanosecondista.

Come risolvere il problema che alcuni pongono, circa il rispetto del precetto che ci chiede di amare il nostro nemico? L’amore verso il prossimo è innanzitutto un amore di benevolenza, desiderare che il nostro prossimo possa vivere la propria esistenza realizzando se stesso per ciò che è: creatura ad immagine e somiglianza di Dio, chiamata a perseguire il fine per cui è stata creata, ossia vivere secondo la volontà di Dio e, mediante questo, ottenere la beatitudine perpetua.

Cristo ci chiede di fare uno sforzo e, con l’aiuto della grazia divina, desiderare in cuor nostro il bene anche per chi ci fa del male. Un invito esplicito alla magnanimità (già virtù della migliore tradizione romana pre-cristiana), alla grandezza d’animo che ci fa piacere a Dio. Ciò, tuttavia, non significa negare la realtà delle cose, ossia disconoscere la verità e la giustizia senza le quali non vi può essere carità (3). L’amore verso il prossimo non esclude la giusta punizione di chi si rendesse colpevole di un delitto: la colpa deve essere riconosciuta ed espiata. Amare il prossimo – ed anche il nemico – non significa, dunque, assecondare ogni suo desiderio, bensì volere in cuor nostro, e per quanto da noi dipende, il suo bene, ossia che realizzi appieno la sua vita secondo la dignità della natura umana e possa perseguire il fine ultimo a cui ogni essere umano è chiamato: la vita senza fine con Dio, effetto della Redenzione operata da Cristo e di una vita cristianamente vissuta.

La vita militare contempla la possibilità di dare e di ricevere la morte. Può un cristiano dare la morte, anche qualora non si trattasse di difendere la propria o l’altrui vita minacciata da un ingiusto aggressore? La risposta della Chiesa cattolica è si, ciò è moralmente lecito. In guerra, quando il soldato è chiamato ad obbedire ed a combattere contro altri uomini del campo avverso – i nemici – dare la morte è ammesso in quanto lo si fa in vista di un obiettivo che non è quello di volere la morte di quell’uomo, il nemico appunto, per l’odio personale che si nutre nei suoi confronti – perché lo si vuole privare del bene naturale più grande, ossia la vita – bensì quello di eliminare un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo per cui si combatte, colpendo un uomo che, per il fatto di indossare una divisa, ha rinunciato in qualche modo alla sua individualità ed ha assunto la responsabilità di rappresentare qualcosa di più grande ed importante, sul piano naturale, della sua stessa vita: il bene della Patria e della comunità nazionale, per cui si combatte, vale di più – sul piano naturale – del bene della singola persona (4). Tutto ciò la dice lunga sul rispetto che si deve avere nei confronti della divisa militare e di chi, con onore, la porta.

Carità delle armi, così può essere chiamata la vocazione militare cristianamente vissuta. “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”, questa frase di Gesù Cristo, riportata nel Vangelo di San Giovanni (15, 13), sintetizza in modo efficace il senso dell’espressione “carità delle armi”. Il militare, infatti, è colui che, per costituzione (5), pone la propria persona a disposizione della Patria e della comunità nazionale – gli amici – fino al punto di donare il bene terreno più prezioso che possiede, ossia la vita, senza nulla chiedere in cambio agli uomini, ma al solo scopo di poter esprimere al sommo grado le virtù proprie della sua condizione di soldato, e così piacere al Padre Eterno in vista del bene massimo: godere senza fine la visione beatifica di Dio.

In conclusione di questo articolo, riportiamo quanto significativamente scritto anni fa dal sacerdote Ennio Innocenti:

“È opportuno, prima di tutto, che si consideri se questa religione (quella cattolica n.d.r.) offra un fondamento all’antimilitarismo. Non ci riferiamo ad obiezioni emerse in singole coscienze di cristiani, ma al significato obiettivo dell’insegnamento cristiano. Ora è noto che né il Battista (San Giovanni Battista n.d.r.), né il Cristo, né il Cefa (San Pietro n.d.r.), né l’Apostolo delle genti (San Paolo n.d.r.) hanno mai avanzato obiezioni al compito proprio del soldato. Le autorità spirituali che hanno conservato e trasmesso l’insegnamento originario hanno sempre affermato che santificarsi è possibile in ogni professione, compresa quella militare.

I maestri della morale cristiana sono unanimi nel riconoscere che il Vangelo non può essere assunto a pretesto per incoraggiare la prepotenza e la violenza e che, al contrario, la verità e la carità comportano durissime responsabilità, le quali possono richiedere i sacrifici più ardui, compreso il sacrificio della vita temporale, che non è affatto il massimo valore.

Che le virtù tipicamente militari possano diventare virtù cristiane e luogo d’incarnazione di autentica santità, è dimostrabile sia sul piano teologico sia su quello storico, dove i militari – anche di altissimo grado – giunti alla santità ufficialmente canonizzata sono in tal numero da sconfiggere in anticipo ogni possibile obiezione.

Naturalmente sono informato anch’io di ciò che dicono certi “carismatici” nostrani contro le virtù militari. Se essi, però, avessero letto le motivazioni di tante decorazioni non avrebbero, penso, seri dubbi sulla loro essenza morale. Ad ogni buon conto, essi non possono minimamente parlare a nome del cattolicesimo: essi, infatti, non sono soltanto in contrasto con i principi etici comuni, ma anche contro l’insegnamento dei papi.”

“… Ammetto che altri, e sono in numero non trascurabile, pur disponibili a riconoscere nell’eroismo militare un valore morale, sono restii a qualificarlo come cristiano, evangelico e santo. Ciò, però, si verifica a causa di una perdurante scissione fra piano umano e piano cristiano (naturale/soprannaturale) che non è giustificabile dal punto di vista della ortodossa teologia cattolica.”

“… Non c’è frattura fra valori morali e valori religiosi … non solo la moralità militare può preparare la santità religiosa, ma può a sua volta ricevere ispirazione e conforto dalla religione.”

“… E, di fatto, la religione cattolica:

esalta l’amor di patria, mediante il criterio del retto ordine della carità, per il quale il dovere della solidarietà è urgente nei confronti dei più vicini, specialmente se deboli ed esposti a gravi mali, e specialmente quando siano in pericolo grandissimi beni, come sono quelli della identità e della libertà nazionale;
giustifica l’obbedienza, mediante il criterio della giusta autorità, per il quale si realizza – sia pure a certe obiettive condizioni di ragionevolezza – la forma più alta dell’adorazione e della devozione, che è il rinnegamento di se stessi in ossequio al Bene voluto senza riserve;
benedice l’esposizione di sé al supremo pericolo della vita temporale, mediante l’ideale di ciò che di più caro vi è al mondo, il sacrificio, appunto, il “dare la propria vita per coloro che si amano”. Il ricordo va qui a mio padre, più volte ferito in combattimento, decorato al valore e, infine, caduto nell’ultima guerra (mondiale). Egli non era quel che si dice un praticante della religione in cui volle che io fossi istruito, ma non aveva il minimo dubbio che se fosse morto da soldato sarebbe andato subito in paradiso, il che, tradotto, significa: avrebbe realizzato la pienezza della vocazione cristiana e l’identificazione con il sacrificio di Cristo.” (6)
Ed ecco quanto sostenuto dal sacerdote Julio Meinvielle:

“… La spada è l’unica arma efficace che possa vincere … poiché essa, in quanto arma militare, rientra nel carattere eroico dell’uomo, del vir, del maschio. La spada è connessa, tramite vincoli metafisici, ai valori spirituali dell’uomo; è qualcosa di essenzialmente opposto al senso carnale (materialista n.d.r.) … Vi sono due modi di combattere, radicalmente opposti: il primo carnale, l’altro spirituale; il primo, del diavolo; l’altro, di Dio; … il primo, insidia; l’altro attacca valorosamente.

Il diavolo sconfisse Eva con parole seduttrici, ma la Santa Vergine abbatte il diavolo schiacciandogli il capo. Il demonio tenta Cristo con affascinanti promesse, ma Cristo respinge il demonio con coraggio da leone …”

“… Allo zenit della grandezza medievale … i cavalieri e gli eroi combattevano alla luce del sole contro i nemici della Croce. Il Medio Evo è mistico e guerriero come lo è qualsiasi grandezza spirituale. La spada è al servizio della Croce. La carità cristiana, ci ordina di fare tutto il possibile in maniera efficace per il bene di Dio, il bene della Chiesa, il bene dei popoli cristiani, ci impone ugualmente di impugnare la spada per difendere efficacemente questi beni quando non c’è altro mezzo per garantirli… Se per sentimentalismo o viltà rifiuteremo di batterci, dovremo vivere da schiavi di una minoranza che … ci sottometterà alla tirannia del disonore. La carità stessa lo esige, perché non possono dire di amare davvero Dio, la Chiesa, la Patria, i figli, coloro che rifiutano di impiegare l’unico mezzo che assicuri il rispetto inviolabile di Dio, della Chiesa, della Patria, dei figli.” (7)

Dunque non solo tra fede cristiana e vita militare vi è compatibilità, ma, sotto molti aspetti, affinità. Queste due realtà, che come abbiamo visto possono davvero essere intimamente connesse, sono minacciate nella loro integrità dagli errori di cui è pregna la cultura dominante. Esempi di ciò sono costituiti, nelle Forze Armate italiane, da una certa impronta massonica – ereditata dal risorgimento – dalla promiscuità sessuale da non molti anni maliziosamente introdotta – capace di mortificare tanto la virilità maschile quanto la dolcezza femminile, nonché di generare quegli “equivoci” che inevitabilmente sorgono laddove uomini e donne siano chiamati a vivere intensamente a stretto contatto – e dall’infiltrazione di persone ed idee di esplicita appartenenza sinistrorsa.



Note

I sostantivi cristianesimo e cattolicesimo romano sono qui utilizzati indistintamente, facendo essi riferimento alla medesima realtà: la Fede ricevuta, custodita e trasmessa dalla Chiesa Cattolica Apostolica e Romana.
“Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per quelli che tu mi hai dato, perché sono tuoi”. Vangelo di S. Giovanni (17,9)
La carità è la terza delle tre virtù teologali (fede, speranza, carità) essa consiste nell’amare Dio sopra ogni cosa ed il prossimo come se stessi.
Questo argomento, come il buon senso dimostra, non può giustificare l’azione di chi, pur non essendo mosso da odio personale, giungesse al punto di uccidere una persona al fine di ottenere un obiettivo ritenuto buono. Per esempio, il ladro che sceglie di vivere accaparrandosi i beni materiali legittimamente posseduti da altri, da lui desiderati e, dunque, percepiti come bene (visione distorta della realtà, in quanto contraria al vero bene dell’uomo che consiste nel vivere conformemente alla dignità della natura umana, con tutto ciò che ne consegue sia sul piano naturale che sul piano soprannaturale), è disposto ad uccidere – anche non volendo direttamente la morte di una persona, ma mettendo comunque in conto la possibilità di ammazzare chiunque possa, in qualche modo, ostacolare il raggiungimento del suo obiettivo – è colpevole in quanto viola più comandamenti: quello che vieta di rubare; quello che vieta di desiderare la roba d’altri; quello che vieta di uccidere l’innocente, ossia colui che non ha fatto nulla di moralmente e gravemente illecito che possa giustificare la sua uccisione. Sarebbe diverso, invece, il caso di un padre che, dovendo sfamare i figli e non potendo fare altrimenti, chiedesse aiuto ad una persona dotata in abbondanza dei mezzi capaci di soddisfare tale necessità, la quale lo rifiutasse per puro egoismo. In tale evenienza il furto e l’eventuale accidentale uccisione di chi si opponesse al padre disperato, sarebbero fatti meno gravi, in quanto giustificati da valide ragioni di estrema necessità. Qualche ulteriore e doverosa considerazione:
il militare che non abusa della propria forza e che non vuole direttamente in cuor suo l’eventuale danno mortale che una certa azione potrebbe arrecare a civili inermi, non viola il comandamento che vieta di uccidere l’innocente;
la responsabilità della dichiarazione di una guerra ingiusta, è dell’autorità che la decide non dei soldati che, obbedendo, la conducono (resta ovviamente la responsabilità personale degli atti che ciascuno compie, così che vi possono essere comportamenti virtuosi di singoli militari appartenenti alla fazione che ha intrapreso una guerra ingiusta, e comportamenti riprovevoli da parte di militari appartenenti alla parte che conduce una guerra giusta);
la bestialità della guerra moderna pone seri problemi di ordine morale, che una retta coscienza non può ignorare. Il coinvolgimento brutale e di massa di civili inermi e la “asettica” conduzione di certe azioni belliche, che nulla hanno a che vedere con l’onore ed il valore a cui ogni soldato dovrebbe tendere, sono, a tale proposito, esempi eloquenti. Chiarito ciò, resta intatto il potenziale di virtù che la condizione militare possiede in sé, agli uomini il compito di attuarla con il decisivo aiuto della grazia divina.
Per costituzione, ossia per il fatto di essere tale; perché se non fosse così, non sarebbe un vero militare.
Rivista militare, n. 4, 1974
Pagine 139 e 140 dell’opera “L’ebreo nel mistero della storia” di Don Julio Meinvielle (1905 – 1973) Effedieffe Edizioni

di Marco Sudati


https://www.riscossacristiana.it/fede-cristiana-e-vita-militare-militia-est-vita-hominis-super-terram-di-marco-sudati/

LE DUE VOCAZIONI (che dobbiamo ritrovare)


Lo stesso Carlo V,   che aveva avuto quel figlio illegittimo  fra    le battaglie  sul Danubio e la vittoria di Muhlberg sull’elettore di Sassonia nella primavera del 1546,  cedendo (lui vedovo a 47 anni) alle grazie di una ventiduenne bionda, tedesca,  di nome Barbara Blomberg  – dieci anni dopo abdicò volontariamente dall’immenso impero (pieno di debiti, è vero, più che di ricchezze) perché bramava la pace dell’anima.
Si fece allestire dal fido Quixada un appartamento presso il convento di San Jeronimo de Yuste in Estremadura:  alla parete   il  quadro del Tiziano che lo ritraeva in Gloria, da una finestrella poteva seguire la Messa conventuale.   Lì, sul letto di morte, dettò a Quixada  la lettera  in cui rendeva noto al figlio legittimo, suo successore al trono,  Filippo II, di quel figlio che aveva avuto “da una donna nubile” ;  che sarebbe  stata  la cosa migliore che questi “liberamente”  scegliesse di vestire l’abito di un ordine di frati, ma “se preferisce condurre vita secolare, è mio comando che egli riceva ogni anno 20 mila ducati dai  proventi del regno di Napoli”. E’ chiaro che era stato lo stesso Quixada a suggerirgli,  ammonendolo del rischio per la salvezza dell’anima sua, di adempiere a questo dovere verso un figlio che mai aveva voluto vedere, che aveva tolto alla madre e fatto allevare lontano dalla Corte, perché non creasse problemi dinastici.
Anche l’illegittimo Juan, quando i 3 ottobre 1568 si sentì offeso perché al funerale della regina Elisabetta di Valois,  la moglie-bambina  di cui era amico personale (erano coetanei), il fratellastro Filippo  gli aveva assegnato un posto non solo lontano dal baldacchino regale, ma dai familiari – reagì in questo modo:  di notte montò a cavallo e raggiunse il convento francescano di Santa Maria de Scala Coeli a Valladolid: e per due mesi don Giovanni “rimase coi francescani adempiendo con la massima serietà ai doveri religiosi e  condividendo in tutto la vita francescana, la cura dei poveri e la pratica  della povertà”; tanto che a corte si sparse la voce che  don Giovanni si sarebbe fatto frate, dopotutto.  Ma Filippo II  – risultò  – non poteva privare il regno di  quell’imbarazzante fratellastro, in cui aveva riconosciuto  quella  virtù  che  a  lui sapeva far difetto,e di cui l’impero aveva  bisogno:   le qualità militari.  Era cominciata la rivolta dei moriscos,   nel cuore della Spagna stessa, e Filippo  ordinò a  Juan di uscire dal convento e  comandare  10 mila uomini per schiacciare la rivolta.   Il confessore  francescano, frate Juan de  Calahorra, “gli ricordò i suoi doveri”: aveva visto che la gloria era la vera vocazione del giovanotto. Fatto sta che Giovanni d’Austria  a Granada sfilò con le sue truppe  –   e  s’innamorò  di una bellissima Margherita di Mendoza   – da cui ebbe una figlia,  Anna d’Austria.
Affascinante,  cattolico, germano-ispanico  miscuglio di carne e ascesi, di  devozione e  valore guerriero, di lotta fra i sensi e la fede. Nessuno  visse coscientemente questo scontro in sé   più dell’uomo  – suo cugino  – che Carlo V mandò a fare il viceré di Catalogna: Francisco Borgia. Suo nonno era uno dei tanti figli  che aveva disseminato Alessandro VI,   il  famigerato scandaloso papa Borgia.  Paggio di corte  della madre dell’imperatore, la regina  Giovanna  (La Pazza), amico e confidente di Carlo V e suo necessario braccio destro,  era consapevole ed assillato dalla necessità di tenere a freno “il sangue dei Borgia”  che gli ribolliva nelle vene; si affrettò a sposare una damigella di 19 anni, Eleonora de Castro. Fu un travolgente grande amore. Eleonora li diede otto figli;  “ma dopo l’ultimo aborto non osando  più toccarla, egli prese a dormire da solo. E nella stanza, il vicerè si fustigava”.
Perché viceré di Catalogna lo aveva nominato Carlo  V,   provincia già allora difficile  e insubordinata, e allora infestata dal banditismo. Con pochi uomini, e a sue spese  (Carlo V non aveva mai quattrini) Francisco Borgia –  che allora era un obeso proverbiale –  cavalcò sulle  montagne, catturò  e impiccò alcune dozzine di briganti, ma disciplinò anche vescovi biscazzieri ed ecclesiastici mondani che coi banditi erano in combutta  mafiosa;    comprò grano per i poveri.  Quando come viceré sedeva ai banchetti o nei consigli dei nobili, “sotto il ricco vestito teneva il cilicio”  per tenere a freno il sangue  dei Borgia.



Francisco Borgia. Canonizzato dal 1671.

In realtà, don Francisco non aspettava  altro che  Carlo imperatore lo sollevasse dai  doveri politici, per entrare in religione. Aveva conosciuto un ex soldato ed uomo d’arme basco, Ignazio de Loyola,  e segretamente aveva  fatto professione di entrare nell’ordine appena nato.   Ma  morì suo padre, e lui dovette amministrare i beni di famiglia: che erano il ducato di Gandia, primo esempio di agricoltura industriale che produceva seta e zucchero.   Il Loyola gli aveva ordinato: prima,   hai  il dovere  di assicurare un avvenire ai figli maschi, e nozze decorose alle figlie femmine.  Così, “Dalle  quattro alle otto del mattino  Francisco pregava, per il resto della giornata amministrava”: Senza dimenticare di   piazzare 60 cannoni   contro le incursioni dei corsari di Algeri; di addestrare una milizia popolare di 600 uomini contro lo stesso pericolo; di allestire una scuola per i figli dei moriscos e un ospedale per i poveri. Intanto studiava teologia. Già frate nell’anima, scrisse una pregevole Pratica delle opere cristiane;   comandante, viceré, amministratore  del feudo,  fu anche musico. Scrisse partiture organistiche per la chiesa collegiata, “sufficienti a collocarlo fra i  maestri della musica spagnola dell’epoca” .  L’amata moglie gli morì nel 1547.   A corte nacque la voce che Carlo V voleva farlo ministro, per  cui Francisco accelerò la professione segreta di gesuita.  Quasi fuggì a Roma e   da frate, il duca e viceré e comandante fu messo a servire i confratelli, a rigovernare e lavare i piatti e i pavimenti. Finalmente felice:  aveva vinto   la carne dei Borgia.  Vero è che dovette tornare nel gran mondo, ormai come confessore della reggente Donna Juana,  un’altra “che attendeva solo di essere sollevata dall’incarico  politico   per entrare in convento”, e un’altra per chiudere gli occhi a Giovanna La Pazza che, dopo una vita  di follia  in cui aveva urlato solo bestemmie, l’ultimo respiro sussurrò: “Gesù crocifisso, assistetemi”.

“Una grandiosa humiltad”

Come sappiamo (o dovremmo sapere) a  incarnare insieme le due vocazioni più perfettamente erano gli Ospedalieri di San Giovanni:   corpo   sovrannazionale di monaci guerrieri, residuo anacronistico delle  Crociate, Carlo V aveva  dato loro l’isola di Malta.  Nel 1565,  profilandosi l’assedio di schiaccianti forze turche,  700  cavalieri erano tornati  nell’isola a prendere servizio,   richiamati dal gran maestro,  Jean Parisot de la Valette, settantenne.
Era l’avamposto degli uomini perduti, pochissimi, asserragliati tra fortificazioni incompiute,  scarsità di polvere da sparo,  di cibo, persino di acqua: immediatamente divennero il sogno di una gioventù aristocratica  nutrita dei romanzi cavallereschi.  Lo stesso don Giovanni cercò di partire per arruolarvisi, impedito dal divieto del fratellastro imperatore. Quando il viceré di Sicilia, don Garcia de Toledo,  andò personalmente a Malta con una flotta per evacuarne  le bocche inutili e portarvi provviste di grano, suo figlio minore, il sedicenne Federico,    volle entrare nell’ordine e restò a combattere. Anche 4 mila maltesi si misero agli ordini del  comandante La Valette; e persino due ebrei, che dal  Qohelet sapevano  “c’è un tempo per vivere e uno per morire” e vollero farlo in buona compagnia.       Alla fine  dell’assedio, dei 700 cavalieri, 250 erano morti e tutti gli  altri erano  gravemente feriti e mutilati,  ma i turchi avevano perso 31 mila uomini  –  senza espugnare  Malta.




vincitori di Lepanto: Don Juan de Austria, Marcantonio Colonna e Sebastiano Venier.  L’ultimo aveva 74 anni. Combatté in pantofole,   perché facevano  miglior presa sul ponte scivoloso di sangue.  Uccise numerosi nemici a colpi di balestra, aiutato da un fante che gliela ricaricava, poiché non aveva più forza sufficiente nelle braccia.  

A  Lepanto,  dove tutte le ciurme ed anche i criminali cristiani al remo – i galeotti  –   erano stati forniti di armi,  e tutti avevano partecipato alla Messa in coperta, don Giovanni passò  con una fregata  lungo un’ala  tenendo alto il crocifisso per risistemare lo schieramento;  nel fitto della battaglia,  mentre forzava i rematori della sua ammiraglia ad arrembare l’ammiraglia del comandante turco, fra le palle di archibugio che fischiavano, fu visto “danzare una gagliarda sulla piattaforma dei cannoni  al suono dei pifferi” con altri due gentiluomini.  Aveva  24 anni, in fondo.
Come noto a Lepanto si batté, imbarcato su La Marquesa,  un soldato di mestiere della stessa età, di nome Miguel De Cervantes: l’uomo che col Don Quixote avrebbe  versato le più  autentiche lacrime sull’ideale cavalleresco, con la scusa di canzonarlo.   Perse la mano  sinistra, e  fu colpito al petto da un’archibugiata. “Con una mano afferravo la spada, e il sangue correva giù dall’altra.  La sinistra era  già  lì, spezzata  in mille parti. Ma il giubilo che mi prese l’anima vedendo vinto il crudele popolo infedele da quello cristiano fu tale, che non capivo se ero ferito davvero”.   Cervantes   aveva 68 anni quando morì: volle essere seppellito con il saio francescano. Era terziario, e  i confratelli dissero che  affrontò   l’agonia con “una gran paz y  una grandiosa humiltad”.
Grandiosa umiltà:  nulla di più  spagnolesco di questo chiasmo. Che splendidi caratteri, che forti vite e nobiltà  diede la Spagna  al cattolicesimo; anzi, che  civiltà fu quella cristiana ai tempi di Lepanto,  dove l’aristocrazia  stava tra le due vocazioni –    possiamo misurare di quanto ne siamo decaduti e degradati liberandoci dalla fede, fino ad auto-estinguerci per viltà e privazione di senso.   Che  quella grandiosa cristianità sia perduta per sempre ”come lacrime nella pioggia”, non lo credo possibile.   Il sangue dei martiri di Sri Lanka, vittime del  preciso progetto satanico di spegnere tutti i residui punti di irradiazione della Grazia, me ne dà la certezza.  Christus Vincit


https://www.maurizioblondet.it/le-due-vocazioni-che-dobbiamo-ritrovare/

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