ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

giovedì 4 luglio 2019

Beati i forti, perché di loro è il regno di questa terra.

I figli di Trasimaco
Disse Socrate: «Cerca dì persuaderci che ci sbagliamo nel preferirela giustizia all’ingiustizia».
«E come potrò persuaderti?», replicò Trasimaco. «Se non sei stato convinto da ciò che ho detto poco fa, cos’altro potrei fare? Devo forse infilarti il discorso nell’anima con la forza?»
Platone, “Repubblica”, Libro I

Non credo che molti tra i miei lettori sappiano chi fosse Trasimaco, un sofista greco vissuto quattrocento anni prima di Cristo, di cui ci resta ben poco. Se è famoso – se così si può dire – è grazie alla “Repubblica” di Platone, che lo sceglie come antagonista di Socrate in una discussione sulla giustizia. Per il Trasimaco del libro, la giustizia coincide l’utile del più forte: chi è più forte può dettare legge secondo i propri interessi. Felice è colui che, grazie alla propria potenza, è in grado di soddisfare ogni desiderio e sottomettere i più deboli. L’ingiustizia è virtù. Quindi beati i forti, perché di loro è il regno di questa terra.
E’ una tesi che torna in mente guardando le cronache di questi giorni, agli esempi di leggi e sentenze a uso e consumo di particolari convenienze e ideologie.
Si tratti di far morire di fame e di sete chi utile non è, di sottrarre i figli ai genitori, di destinare risorse agli amici, ignorare i fatti; il tratto comune è lo spregio di quanto appare ragionevole al pensiero. Chi dovesse rimanere stupito e confuso per come si invochi legalità un minuto prima e la si infranga in nome di un personale arbitrio l’istante dopo, è invitato a rileggersi Trasimaco.
Perché sembrerebbe abbia ragione lui. Se la legge viene interpretata fino a farle dire l’opposto, a incarcerare la vittima e liberare il ladro come nelle storie di Pinocchio, allora davvero essa non è che lo strumento di oppressione del potente. Quello che più colpisce non è tanto l’ovvia distorsione di chi fa il proprio interesse, quanto la claque di tanti che non hanno così tanto da guadagnare, se non per il fatto di essere sul carro del vincitore. Quantomeno, illudersi di esserlo.
Sembrerebbe il trionfo del relativo, della forza sul diritto. Eppure il fatto stesso che di diritto si parli, che si percepisca la dissonanza tra quanto si sostiene e la realtà, indica un fatto chiaro: che una giustizia più profonda, un vero più profondo ed autentico esiste. Incrostato di dubbio e falsità, vilipeso, rovesciato, deriso, disprezzato, però c’è. Riconosciuto nel momento stesso in cui lo si nega, perché non si cerca di distruggere ciò che non esiste.
I figli di Trasimaco controllano la scena di questo mondo, ma Trasimaco si sbaglia. Non è felicità la loro, è solo esercizio di potere, una soddisfazione labile, presto finita. Perché ciò che l’uomo davvero desidera è la giustizia vera, e allontanarsene non fa che acuire quella brama.
Che i potenti e i loro servi seguano pure quei loro desideri, che li portano distante da ciò che senza rendersene conto vogliono. Il vero e il giusto cerchiamo. Perché questi durano, non cambiano con i giorni, i governi, i giudici, il gioco dei potenti.
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La rete dell’abuso ha per padre un mostro ideologico
Di fronte all’orrore della tortura mentale e fisica inflitta ai bambini, della rapina dei figli al padre approntata in via amministrativa e giudiziaria che ci sconvolge in questi giorni, bisogna guardare al terreno di coltura in cui tale ignominiosa realtà va a collocarsi. Infatti non siamo di fronte ad un fenomeno che viene dal nulla, casuale e occasionale, qualcosa di inspiegabile e irripetibile, isolato come una pietra nera emersa in mezzo ad acque limpide e chete.
Si tende a far apparire questi fatti come eccezionali in quanto riconducibili immediatamente a delle personalità psichicamente alterate e interessate da notevoli disturbi del comportamento, e mediatamente all’aberrante funzionamento di un apparato amministrativo e giudiziario, che però altrove funzionerebbe a dovere.
II realtà questi fatti non dovrebbero essere considerati né sorprendenti né imprevedibili, perché sono il frutto scontato di un terreno concimato a dovere. Insomma, non ci si può meravigliare di fronte a certe mostruosità quando la loro matrice ideologica e politica è viva e vegeta, gli impresari continuano a propagandarne le idee portanti dai loro scranni di parlamentari, di giudici o di amministratori locali, vendendo la propria merce dai palcoscenici televisivi. La follia del presente ha i propri piazzisti politici in quelli che lavorano alacremente ogni giorno allo smantellamento di una intera comunità nazionale e hanno creato un “clima culturale” minoritario ma fortemente invasivo penetrato in tutti i gangli vitali della società in ossequio alle direttive impartite dai poteri sovranazionali.
Insomma, quelle mostruosità sono figlie del monstrum politico, erede di una più antica ibridatura politica, che comprende i cascami di una chiesa non più cattolica e il progressismo etico neocapitalistico, depositario autocertificato, per antica concessione, della cultura ufficiale, cioè del nulla etico e speculativo dominante. Da quell’ibridatura si è generato un vero e proprio tipo antropologico, fornito di un linguaggio e di un formulario codificati, che sostituisce il pensiero e fornisce di ogni evento una lettura precostituita.
L’evoluzione della specie assume anche queste forme. Se i padri avevano volto lo sguardo all’Unione Sovietica come polo di riferimento morale e politico, il progressista neocapitalistico di nuova generazione si è inginocchiato una tantum davanti alla statua della libertà, pletorico simulacro del connubio transatlantico tra una democrazia fasulla e la vuota utopia libertaria. Da allora ogni idea degenerata che negli ultimi anni ha impunemente aggredito il tessuto etico, economico e politico dell’Italia è stata importata diligentemente e ha dettato leggi dissennate, pronunce giurisdizionali altrettanto dissennate, ha occupato con esemplare afflato democratico tutti gli spazi mediatici, e fornito una nuova agenda culturale ad una l’Italia che la Chiesa aveva già abbandonato ai nuovi venti di dottrina.
Nel quadro di questo indiscusso “progresso” culturale, un posto di primo piano è spettato all’omosessualismo, entrato di slancio nella metafisica dei costumi, ovvero nella religione democratica della libertà dalla morale, dall’etica e dalle leggi di natura, e ne ha affidato l’ufficio liturgico alla pensosa sicumera delle sue vestali televisive. L’omosessualismo ha trovato insomma in questa temperie politica l’habitat ideale in cui sguazzare.
I movimenti omosessualisti importati dall’America hanno dettato l’agenda. Bisognava puntare prima alla normalizzazione sociale attraverso una martellante presenza mediatica, teatrale e cinematografica e la rappresentazione propagandistica pubblica (vedi oscene esibizioni organizzate per le vie cittadine da amministrazioni compiacenti). Ma l’obiettivo era molto più ambizioso. Il passo successivo doveva essere, ed è stato, la conquista di una posizione di prestigio giuridicamente assistita, attraverso la manipolazione dei concetti giuridici garantita dagli stessi uffici giudiziari e dalle aule legislative.
Le moderne legislazioni occidentali, hanno riconosciuto il principio di uguale tutela da parte della legge di tutti gli individui in quanto tali, cioè indipendentemente da condizioni personali contingenti, pur ammettendo ragionevoli eccezioni richieste dalle condizioni e qualità particolari di alcuni soggetti. Come ad esempio le condizioni previste per le lavoratrici madri, o le immunità per i capi di stato estero.
Ma le lobby omosessualiste hanno avanzato la pretesa di una surreale tutela giuridica privilegiata immettendo già nel linguaggio comune i fantomatici “diritti degli omosessuali”, cioè ulteriori rispetto a quelli derivanti dalla comune condizione di uomini, come se la omosessualità fosse essa stessa un valore aggiunto meritevole di tutela ad hoc. Dall’equivoco terminologico si è arrivati all’equivoco giuridico e alla cieca quanto cervellotica applicazione di un principio di uguaglianza che punta alla parificazione giuridica di situazioni ontologicamente incomparabili come la famiglia naturale e la sua grottesca scimmiottatura omoerotica.
Nelle famose “conquiste” patrocinate da una Cirinnà che prometteva ai suoi sodali di partito, dopo le famose unioni, anche la adozione dei minori in nome della omogenitorialità fondata sull’amore. In questo orizzonte di dissennatezza che comprende altri ben noti cavalli di battaglia come eutanasia, aborto e immigrazione senza confini, e altro ancora, una fauna politica ha trovato la propria unica ragion d’essere e lavora per spingere sempre più una società confusa sul crinale suicidario della autodissoluzione.
Di questo scempio della ragione gli italiani sono stati spettatori frastornati e spesso colpevolmente inerti. La politica dell’universo progressista, dura a morire perché foraggiata dalle istituzioni sovranazionali e incoraggiata da una chiesa ex cattolica allo sbando perché occupata manu militari dalle stesse lobby, continua a lavorare alacremente per incrementare questo scempio di ogni canone etico logico e giuridico. I sindaci che piangono sulla carenza di fondi per le strutture scolastiche, li promuovono e finanziano ogni osceno esibizionismo omosessualista, e organizzano nelle scuole primarie e in quella dell’infanzia corsi di indottrinamento precoce all’indifferentismo sessuale in perfetta sintonia col piano di contenimento presente e futuro delle nascite dei bianchi autoctoni, razza destinata per decisione superiore democratica alla estinzione nel corso del secolo.
Non è dunque nel sadismo psicopatico di due sciagurate che si misura la gravità di questo dramma collettivo, e nelle correlative storture dei meccanismi di affidamento che violentano spesso famiglie inermi, ma nella indifferenza per le implicazioni morali, per la sofferenza prevedibile, per il danno colpevole verso i bambini che una ideologia degenerata va seminando da anni sotto la ipocrisia delle parole, la manipolazione delle leggi, la intossicazione delle coscienze, il nascondimento della realtà.
I fatti di Reggio Emilia sono ripugnanti non soltanto per le colpe dirette acclarate, ma anche, o forse soprattutto, per quelle diffuse in una società anestetizzata dalla miserabile pochezza dei suoi “legislatori” e ciarlatani, dei suoi intellettuali buoni a nulla e capaci di tutto. Rigorosamente antifascisti. Ohibò!
Patrizia Fermani Luglio 4, 2019
La dittatura dell’educazione sessuale (e la possibilità di ribellarsi)
Dedicato a coloro che sostengono che l’educazione sessuale nelle scuole è cosa buona e giusta. A quelli che «tutto dipende da come la si fa», che «si sa che i ragazzi fanno sesso: tanto vale che sia un “esperto” a dare loro le istruzioni», che «l’importante è la prevenzione»; a coloro che «a noi forse fanno un certo che determinati dettagli, ma i giovani di oggi sono molto più scafati»; a quelli che «sanno già tutto, che problema c’è?»; a quelli che «fin da bambini i nostri figli sono bombardati da messaggi a sfondo sessuale, bisogna che la scuola li aiuti a gestire tutti questi stimoli»; o ancora, alle anime pie, che «le malattie sessualmente trasmissibili sono in vertiginoso aumento» e «ci sono ragazze che, minorenni, hanno già vari aborti alle spalle» e quindi vanno tutti aiutati «a prendere le dovute precauzioni».
IL VERO SCOPO DELL’EDUCAZIONE SESSUALE Partiamo dal fondo. Che il sesso vorace, precoce e promiscuo eletto a riempitivo di vuoti siderali e a diversivo di disagi diffusi distrugga vite e spappoli cervelli non è revocabile in dubbio. Del resto, l’apparato ludico-mediatico e l’industria dell’intrattenimento di massa sono schierati in assetto da guerra per scatenare le pulsioni animalesche dei suoi fruitori compulsivi attraverso un martellamento di sollecitazioni sessuali più o meno esplicite, spesso pornografiche. Alla fine, la patologia dilaga al punto – tale è la dimensione della tragedia – che si tende a scambiarla per normalità, secondo la nota teoria per cui un fenomeno in espansione diventa via via prima consueto, in seguito accettabile e poi persino buono, a prescindere da qualsiasi giudizio di valore. Ci hanno abituati a pensare che la statistica sia il metro per misurare la moralità e noi, da bravi, usiamo gli strumenti che ci sono forniti in dotazione.
Il fatto è – non ci si deve stancare a ribadirlo, a costo di apparire molesti – che il danno che si pretenderebbe di prevenire e curare attraverso l’educazione sessuale è proprio l’effetto preordinato dell’educazione sessuale, disciplina concepita e propagata con una ben precisa finalità dissolutoria della interiorità, della moralità e dell’identità dei soggetti in via di formazione. Storicamente è nata così, e non c’è molto da discuterci sopra: è un fatto ed è incontrovertibile. I giovani e giovanissimi vanno rastrellati a tappeto per ridurli ad altrettante monadi ripiegate sui propri genitali e schiave degli istinti inferiori, galleggianti nel non luogo del presente indifferenziato e dello sballo permanente. Li si cattura facilmente con la narrativa della centralità delle emozioni, parola magica che ha conquistato il monopolio della pedagogia aggiornata.
Il lemma “affettività” serve invece, col suo suono rassicurante, da edulcorante onomastico per una ricetta cucinata apposta per essere monogusto e unifunzionale, sul presupposto ideale che il consumatore in erba debba fare sesso, farlo presto, farlo con chiunque, farlo senza tabù. L’importante è “prevenire” le malattie veneree, ridefinite in linguaggio evoluto (onusiano) “sessualmente trasmissibili”: la formuletta salutista funziona da esca per i genitori evoluti, che abboccano voraci e sentitamente fieri di sé. Il primo rischio da scongiurare, si capisce, è la gravidanza, il più grave in assoluto, ormai catalogato in via definitiva come fenomeno sessista retaggio della cultura patriarcale, insieme a quell’altra storica iattura che va sotto il nome di famiglia (si intende: “tradizionale”, ché le sue parodie vanno bene).
Il vero traguardo, dunque, è disinibirli tutti, disinibirli completamente, renderli monomaniaci e possibilmente fluidi: nuovi consumatori crescono, le catene di sexy shop li aspettano, devono vedere sesso dappertutto, come zio Paperone con il dollaro oculare, devono filtrare la realtà attraverso le lenti a contatto della libidine permanente.
L’ILLUSIONE RIFORMISTA Ecco perché appaiono ridicole le anime belle che, pur rigettando a parole (ma neanche troppo, per carità) la versione corrente di educazione sessuale dettata dagli organismi ufficiali, a partire dall’OMS, pretenderebbero di avanzare proposte alternative, cioè di promuovere (dal loro punto di vista) una educazione sessuale “buona”. Secondo il manuale delle anime belle, infatti, bisogna essere per principio propositivi, mai disfattisti. Eccerto. Imbracciamo le armi che sono state fabbricate per annientarci e spariamoci da soli: i bravi neocat sono specialisti del fai-da-te e lo spacciano per amore. Come se uno strumento concepito a tavolino per un preciso obiettivo di carattere eversivo fosse suscettibile di venire snaturato su iniziativa uguale e contraria di qualche zelante parrocchiano di mondo. Come se avesse un senso provare a raddrizzare una malapianta di dimensioni planetarie.
La dipendenza dal sesso e dai suoi surrogati – repetita iuvant – è indotta su vasta scala e resa endemica delle élite dominanti a fini di controllo delle masse che, arrapate e rimbecillite, diventano manovrabili a piacimento in qualsivoglia direzione, compresa quella del proprio autoannientamento. Suicidarsi godendo, ecco dove deve portare l’epidemia. Nell’abisso della solitudine e del totale vuoto spirituale.
I soldatini del sistema, inghiottiti dalle sue logiche perverse, si mettono al servizio di un disegno di cui hanno rinunciato a chiedersi la ratio. Eseguono. Stanno agli ordini di quattro guru messi al comando del bastimento e diventati nel settore oracoli trasversali: trasversali nel senso che battono indifferentemente ambienti laici ed ecclesiastici, ormai indistinguibili sotto ogni punto di vista. Col sussiego tipico dei benefattori, si appropriano dei sintomi già sviluppati e li sparpagliano dappertutto, estendendo senza limite la magnitudine del contagio. Per ottimizzare il risultato, si usa la rete già stesa della imponente struttura scolastica per la quale tutti devono obbligatoriamente passare, sì che nessuno sfugga al trattamento.
I DIFENSORI D’UFFICIO CANTANO A ORECCHIO Accade spesso, a margine delle conferenze su educazione sessuale e gender, che si manifesti il tipo umano della mamma progredita o dell’insegnante aggiornata e che, l’una o l’altra, si autoinvestano del ruolo di difensore d’ufficio dell’educazione sessuale: essa sarebbe necessaria, dicono, molti ragazzi hanno dei problemi e ne traggono giovamento e comunque anche gli altri, lungi dall’esserne pregiudicati, imparano a vivere bene e liberamente la propria sessualità.
Non sono nemmeno sfiorate dall’idea, le signore, che non sia quello il compito della scuola, alla quale non compete insegnare il sesso, i suoi teoremi e i suoi corollari, e nemmeno assumersi d’ufficio il ruolo di terapeuta erga omnes. La scuola non è una clinica psichiatrica, ha un fine formativo in incertam personam, che corrisponde a quello di strutturare il bagaglio culturale degli studenti, e la cultura è sempre servita da antidoto strutturale alle imposizioni esogene. L’intimità di ciascuno, per contro, resta uno spazio inviolabile, legato alla sensibilità personale e perciò stesso non standardizzabile secondo criteri arbitrari per definizione e il più delle volte tarati sui parametri dell’erotomane di turno.
Nel voler offrire a tutti lo stesso becchime, peraltro il più piccante possibile, è insita una dose inaccettabile della più subdola forma di violenza. Anche qui, lo stratagemma per giustificare l’omologazione forzata è una costante del formulario didattico-pedagogico, e coincide con la nota retorica del “fare gruppo”, ovvero con la ricerca obbligata della coesione e del benessere del “gruppo classe”, per cui l’elemento non conforme, consenziente o non compiutamente integrato nell’idem sentire dominante diventa un problema, un caso umano, un’escrescenza da far rientrare nei ranghi.
Accade anche, tuttavia, che la replica più convincente all’elogio della educazione sessuale provenga proprio da chi abbia avuto modo di sperimentarne gli effetti e, come sempre, nessuna argomentazione teorica risulta più efficace della testimonianza di vita vissuta. Non possono che lasciare ammutoliti le reazioni di certi bambini, rimasti schifati dal sesso così come gli è stato raccontato in classe, o traumatizzati dai contenuti illustrati dagli “esperti” nelle loro lezioni, in ossequio alle linee-guida di categoria.
LA VOCE DEGLI “EDUCATI” Recentemente, al termine di una di queste conferenze, dal pubblico si è alzato un ragazzo, chiedendo di esporre la propria esperienza.
Ho ventitré anni, racconta. Quando avevo circa dieci anni, ero ancora alle elementari, ho assistito a scuola a un corso di cosiddetta educazione sessuale. Sono entrati in classe alcuni “esperti” e ci hanno intrattenuto sul tema, indugiando su dettagli a noi completamente sconosciuti ed elargendo consigli ovviamente non richiesti.
Parecchie mie compagne sono rimaste scosse da ciò che è stato detto, certe – ricordo – hanno pianto. Altri hanno reagito in maniera diversa, hanno vissuto gli incontri un po’ come un gioco. Ai toni leggeri e forzatamente scherzosi degli “esperti”, infatti, molti di noi hanno risposto con altrettanta leggerezza, cercando di vincere la vergogna attraverso il gioco. Ricordo che c’era chi faceva a gara nel dire parole sconce e volgari, delle quali chiedeva il significato agli “esperti”. Questi alla fine, imbarazzati pure loro, non sapevano più come gestire la situazione che si era creata. Noi maschi in gran parte ci siamo sentiti solleticati all’idea della trasgressione. Fatto sta che ci siamo trovati nel pomeriggio nella palestra della scuola a simulare atti sessuali con dei manichini.
Da quella volta per alcuni di noi, me compreso, il sesso ha cominciato a diventare un’ossessione, ci siamo messi a frequentare siti a luci rosse e ad acquistare riviste e materiali pornografici. Stavo male, ero cambiato, e mio padre e mia madre se ne sono accorti. Io stesso mi rendevo conto di non essere più io, di essere diventato dipendente e di avere perso il controllo delle mie azioni. Non mi riconoscevo più. Così, ho accettato l’aiuto dei miei genitori. È stata dura uscire dal gorgo, bonificarsi.
C’è voluto del tempo, soprattutto ci sono voluti tutta la determinazione e l’amore della mia famiglia. Alla fine ce l’ho fatta, ne sono completamente uscito e ora posso parlare di quel periodo con sollevato distacco, ricordarlo come una brutta storia a lieto fine. Sono felicemente sposato e mia moglie mi sta dando il nostro primo figlio. Ma per alcuni miei compagni è stato diverso. Non hanno avuto la mia stessa fortuna, cioè una famiglia attenta e pronta a intervenire per aiutarmi con la tempestività necessaria, prima che certi comportamenti si cronicizzassero. Loro sono tuttora calati in quell’inferno e non so se mai ne usciranno.
HANSEL, GRETEL, L’ORCO. E IL LIETO FINE Questa storia, che ha colpito tutta la sala quella sera per la spontaneità e il coraggio con cui è stata raccontata, mi è tornata alla mente ora mentre seguo la vicenda di Reggio Emilia e, dalle informazioni reperibili, cerco di ricostruire il puzzle dell’orrore con i tasselli che mano a mano la cronaca fornisce, nonostante sia già partito il contrordine compagni e l’apparato stia facendo tutti gli sforzi per riassorbire l’urto mediatico e spostare i riflettori su altri obiettivi.
Si chiariscono via via, comunque, i profili dei soggetti coinvolti nell’affare degli affidi gonfiati e pilotati a fini di lucro e, soprattutto, a fini ideologici. L’auctoritas psico-pedagogica del giro è tale Claudio Foti, perno della Onlus “Hansel e Gretel”, già passata miracolosamente indenne dal coinvolgimento dei fatti terribili emersi lustri or sono dall’inchiesta “Veleno”. Piemontese, collezionista di cariche di rilievo anche presso blasonate istituzioni clericali (gruppo “Abele” di don Ciotti, Pontificia Facoltà di scienze dell’educazione “Auxilium” di Roma, “Famiglia Cristiana”), giudice onorario stabile del Tribunale dei minori di Torino, Foti si qualifica come “esperto” cacciatore di abusi infantili, sempre «dalla parte dei bambini e delle vittime contro l’adultocentrismo, contro la cultura patriarcale, contro il negazionismo della violenza che si consuma ai danni dei soggetti più deboli come i bambini e come le donne…».
Torneremo sul suo interessante curriculum, ma ci preme qui sottolineare come questo signore sia un accanito promotore e sostenitore dell’educazione sessuale precoce e obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado. Nel suo pensiero è distillato tutto il repertorio del modello di indottrinamento sessuocentrico e ipererotizzato predisposto nelle centrali sovranazionali per annientare l’identità delle giovani generazioni e presentato al riparo dello scudo scientista, umanitario e assistenziale.
Dopo quanto abbiamo detto sulla teoria e sulla pratica della educazione sessuale, nella cornice dell’industria del sesso e del mercato di carne umana, vale dunque la pena di gustarsi per intero una illuminante intervista di Foti che mette a tema proprio questa disciplina. Al netto dei toni e degli argomenti suggestivi, funzionali alla captatio di un uditorio già privato dei suoi anticorpi, appare chiaro come tutto faccia parte di un sistema imponente e ramificato, radicato da decenni nel tessuto sociale e istituzionale, di cui gli epigoni emiliani sono solo uno degli esiti deteriori. Dentro questo sistema intrinsecamente distorto e distorsivo, la storia di un ragazzo che, ferito dai suoi istitutori, risale la corrente con l’aiuto della sua famiglia e, a ventitré anni, ne costruisce una di propria, rappresenta agli occhi degli “esperti” un baco del sistema e un pericoloso focolaio di insubordinazione. È viceversa un bellissimo esempio di resistenza, di libertà e di vita agli occhi di chi è ancora capace di credere nelle favole e nella verità.
Elisabetta Frezza Luglio 4, 2019

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