Sembra una notizia di nessun conto, ma a non essere superficiali c’è da meditare. Ieri mattina a Milano, tra le 10,30 e le 11,00, si è sentito un continuo passaggio di aerei che volavano a bassa quota. I media dicono che in molti hanno telefonato all’Aereonautica militare per conoscerne il motivo e anche chi scrive ha avuto la tentazione di chiamare il 112, perché quei rombi erano inquietanti. Che a girare fossero solo tre velivoli si è saputo dopo, ma al momento sembrava un attacco aereo.
A parte le considerazioni sull’opportunità di sorvolare il centro di una città e sul fatto che la popolazione non ne fosse stata informata, in quei seppur pochi minuti si è capito come debbano vivere quelle popolazioni che sono state bombardate per anni dal cielo e che hanno dovuto subire, inermi, la distruzione di interi quartieri che adesso sono irriconoscibili e abbandonati.
Noi europei, nati dopo la seconda guerra mondiale, ci siamo abituati a questionare su quelle che, a fronte di una guerra, sono inezie, anzi, come diceva Totò, sono “quisquilie e pinzillacchere”, non rendendoci conto del dono della pace e di come potremmo usarne tutti i vantaggi per il bene comune.
Ricordo bene quanto ottimismo e allegria si ritrovava tra i cittadini italiani negli anni cinquanta e sessanta: bastava entrare in un qualsiasi negozio, al Sud come al Nord, per sentire battute di spirito in vernacolo e coinvolgenti risate, così come i calorosi e festanti auguri in occasione delle ricorrenze più importanti.
Poi a qualcuno è venuto il prurito di contestare tutto, così che la famiglia, le tradizioni e la stessa religione sono diventati ingombri da eliminare e nemici da combattere. E così ora ci ritroviamo accomunati dalla stessa inconsapevole paura, quella cioè che ci tolgano quella pace di cui non abbiamo saputo far buon uso e che non abbiamo saputo sfruttare per crescere in civiltà e progresso.
Che Dio ci perdoni e ci preservi dal dover ricominciare tutto da capo.
Paola de Lillo
GENESI E SVILUPPO DEL”SISTEMA BIBBIANO” di Valentina Morana
Vi presentiamo la storia di come si sia generato il sistema Bibbiano, un processo che non è stato immediato e rapido, ma che deriva da una evoluzione ideologica e politica di lungo periodo. A parlarne è una esperta, Valentina Peloso Morana psicologa-psicoterapeuta e psicologa investigativa,
In seguito ai fatti di Bibbiano e alla notizia dell’indagine Angeli-Demoni, sono stata contattata da molte persone con la richiesta di spiegare il sistema degli affidi in Italia e i fenomeni a essi collegati.
Non entro nel merito delle indagini che sono azioni della magistratura e degli organi giudiziari, né delle persone coinvolte. Racconto in questo mio scritto, la storia e lo sviluppo del sistema che ho visto nascere e progredire sul nostro territorio, seminando disperazione e a volte morte. Non farò nomi né darò indicazioni troppo specifiche per ovvi motivi, ma disseminerò di indizi il percorso, rintracciabili in parte in rete, come ha fatto Pollicino per uscire dalla casa dell’orco e tornare a casa con i suoi fratelli.
Bibbiano è il luogo dove è emersa la punta dell’iceberg di quello che chiamo il “Sistema Minori”
Un giorno ringrazieremo questo paese di Italia per aver essere stato squarcio al velo, copertura di un vero e proprio mondo parallelo: quello dei bambini strappati alle loro famiglie e dei servizi sociali, dotati di un potere immenso quanto ingiustificato. Esistono assistenti sociali onesti e corretti e case famiglia fuori dal mercato economico, esiste anche il sistema.
Un sistema è organizzato da persone, e prevede regole insuperabili e ruoli ben definiti, delle azioni coordinate all’interno di un metodo comune, la prassi di intervento e l’obiettivo. Un sistema si può ingrandire attraverso una rete di collegamento, e mentre la cellula madre rimane la stessa e dà la direzione, i diversi gruppi che entrano nel sistema, diventano sistema a tutti gli effetti.
Esistono sistemi che operano per il bene e sistemi che operano per il male, sempre di esseri umani parliamo. Il bene è sempre manifesto e leggibile, il male si maschera. La storia insegna.
Ho visto nascere tutto.
Per motivi professionali ho visto troppa gente soffrire e troppi bambini urlare il loro dolore per lo strappo familiare. Non è mai potuto emergere nulla di questo mondo parallelo e presente su buona parte del territorio italiano, finchè non è arrivato Bibbiano. E prima ci avevamo provato in diversi di noi, tra tecnici, avvocati, parlamentari, giornalisti e anche un giudice del Tribunale dei Minorenni di Bologna.
Il Sistema Minori nasce nei primi anni novanta su iniziativa di tre centri per bambini maltrattati ben distinti: uno lombardo, uno piemontese e uno toscano.
Fino a quel momento non esisteva in Italia una dottrina specifica e approfondita sulle varie forme di violenza all’infanzia. Erano presenti delle linee guida sulla violenza alle donne, frutto del lavoro di femministe dell’epoca, ma sui bambini poco o niente, con un divario ventennale rispetto ad alcuni paesi europei come ad esempio la Gran Bretagna, che invece nel 1992 promuoveva il “Memorandum of Good Practice on Video Recorded – Interviews with Child Witnesses for Criminal Proceedings,1992”
In un vuoto pressoché assoluto, il Sistema Minori comincia a divulgare tutta la sua conoscenza del fenomeno del maltrattamento all’infanzia, e a promuovere i suoi servizi, per difendere i bambini dagli abusi sessuali familiari o da altre forme di maltrattamento, come ad esempio la trascuratezza o la violenza psicologica e/o fisica.
Appaiono in Italia nel tempo, convegni megalattici all’interno dei quali vengono snocciolati una serie di dati allarmanti sul numero di bambini che sarebbero abusati in Italia, senza una base scientifica né una fonte numerica attendibile, viene confuso l’abuso sessuale familiare con la pedofilia che è fenomeno diverso, vengono presentati dati a volte in contrasto tra loro, e viene demonizzata la figura del maschio come unico portatore di questa forma di violenza, quando anche le femmine commettono abusi sessuali. In sintesi: un coacervo di dettagli senza una forma chiara.
Però la presentazione del tutto è suggestiva con schermi di grandi dimensioni, parole evidenziate e aule importanti. Anche l’occhio vuole la sua parte, anche se di scientifico non trovi niente.
Si offre anche all’interno dei loro consessi e in via indiretta la formazione di operatori nei servizi pubblici, la quale infatti avverrà poi inizialmente in molti comuni del Nord Italia e del centro Italia.
Soprattutto si comincia a introdurre la parola “minore” che diverrà un mantra prima psico- sociale e poi collettivo. Bisogna leggerla una relazione o una perizia dove al posto del nome del bambino viene scritta la parola “il minore”, per comprendere quanto impersonale possa essere tutto questo e quanto incida sulla visibilità dello stesso. Viene usato un aggettivo comparativo, neanche un sostantivo, oltretutto di tipo svalutativo, per indicare un bambino/a o un ragazzo/a. E infatti i bambini e ragazzi finiti in questo mondo parallelo, contano solo per quello che rappresentano.
Quello che colpisce di questo sistema, è l’efficienza iniziale di collegamento con i servizi sociali dei tre luoghi in cui operavano inizialmente i centri, e con i quali il sistema aveva intrecciato rapporti di collaborazione professionale: i servizi segnalavano la problematicità di alcune famiglie e il sistema interveniva con i suoi centri (visite mediche, colloqui psicologici con genitori e con i bambini, terapie varie e presa in carico della famiglia). Contemporaneamente i professionisti di questi tre centri, entravano in tribunale come periti del pubblico ministero o del giudice. Un’organizzazione micidiale che ha visto una ramificazione del Sistema Minori sia in alcuni servizi sociali e aziende sanitarie(cresciuti di numero nel tempo) che dentro le aule dei tribunali. In meno di una decina di anni, il Sistema Minori aveva bonificato centri nevralgici del territorio italiano e si occupava sia di bambini che sarebbero stati abusati e delle loro famiglie, come anche forniva periti per i tribunali e formatori per enti pubblici e privati. Per arrivare a tutto questo ci vuole un pensiero, e poi la sua organizzazione. Questo processo richiede tempo e intelligenza umana, bisogna vedere al servizio di chi.
Nella seconda metà degli anni novanta comincia a comparire in Italia il fenomeno delle false accuse di abuso sessuale sui bambini. Accuse false, senza uno straccio di prova. Aumentano il numero di bambini portati via dalle loro famiglie con motivazioni risibili se non false da alcuni servizi sociali. Vengono colpiti dalle accuse soprattutto i padri e in particolare i papà-separati, in assenza di elementi di prova e con l’appoggio di molti servizi sociali, per lo più impreparati davanti a questo fenomeno. Quando un adulto viene incolpato di aver abusato di un minorenne, questi perde immediatamente il rapporto con il bambino, che sia vero o no. Se viene incolpata tutta una famiglia, tutta la famiglia perde il rapporto con il bambino, che sia vero oppure no. Ed è giusto, perché devono procedere le indagini ma che poi devono arrivare a una conclusione certa e in tempi rispettosi delle parti. Il problema all’epoca e comunque tutt’ora presente in Italia, è la conoscenza del fenomeno per chi se ne deve occupare e la durata dei processi. Venti anni fa poi, poco si conosceva in Italia rispetto al fenomeno della falsa accusa, per la quale ci sono state delle persone innocenti che sono morte di crepacuore o si sono uccise. Altre da innocenti, anche a processo chiuso, hanno visto recidere comunque il rapporto con i propri figli che non hanno più visto. A fronte di tanto dolore, diversamente, il sistema segnalava nei suoi scritti in rete come ai convegni e nelle formazioni, un innalzamento di denunce di abuso sessuale su minorenni e un aumento del numero dei bambini di cui si occupava, sia nei suoi centri che attraverso i suoi periti nel tribunale, i quali affermavano che le accuse sono sempre vere anche senza prova. Il tutto condito da atteggiamenti allarmistici. Una cosa ridicola se non fosse drammatica.
Ma l’apice doveva ancora venire, con l’esplosione del fenomeno delle case famiglia e degli affidamenti etero familiari a pagamento nei primi anni del duemila. Ma qui dobbiamo fare un passo indietro.
Fino a poco prima del duemila, prima le province e poi i comuni, erano gli enti che si occupavano di bambini con famiglie problematiche e gestivano gli affidamenti etero familiari. A fine anni ottanta, ancora prima di laurearmi in psicologia a Padova, frequentavo come tirocinante, una comunità alloggio della Provincia, dove erano ricoverati i bambini di età 0/7 e che nascevano in famiglie ad alto rischio o che erano gravemente trascurati o abbandonati perché portatori di problemi fisici o psichici.
Nella comunità erano presenti gli educatori, il personale di cucina e pulizia e i bambini, che erano seguiti, stimolati e accuditi dal personale. Una psicologa dipendente, supervisionava il lavoro e faceva formazione al personale come anche si occupava del benessere dei bambini. I genitori dei bambini ricoverati, mantenevano il rapporto con i propri figli che incontravano con la supervisione di un educatore. I bambini ricoverati erano pochissimi mentre funzionava molto bene il servizio di educatore a domicilio per conto del Comune di Trieste, cioè educatori che si recavano a casa delle famiglie con problemi, per aiutare a rivedere e modificare comportamenti diseducativi o di non ascolto dei propri figli. I bambini venivano allontanati dalle famiglie solo in casi gravissimi. I bambini a rischio certo e maltrattati venivano affidati alle famiglie affidatarie dell’Anfaa che non percepivano compenso.
Buona parte di questo ad un certo punto finisce nei primi anni duemila.
Esce la legge Turco n.328/2000 che regolamenta i servizi sociali con le nuove indicazioni di cui il sistema si appropria per gestire a modo suo. Non bisogna dimenticare che tanti comuni e aziende sanitarie cominciano a entrare nel Sistema Minori e agiscono secondo le indicazioni di questo, nella veste di formatore.
Cominciano a comparire le famiglie o le coppie che prendono a pagamento in affido uno o più bambini, sorgono sul territorio come funghi cooperative con case famiglia e comunità terapeutiche con alloggio per bambini. Il tutto monitorato dai servizi sociali competenti territorialmente. Aumentano gli interventi di formazione del Sistema Minori a enti pubblici e privati che si allarga in tutta Italia, aumentano i centri che entrano nel sistema con i loro servizi per l’infanzia e gli alloggi, aumenta il numero di protocolli di intesa tra il Sistema Minori e le istituzioni pubbliche, aumentano i casi di false accuse in modo esponenziale, aumentano i bambini strappati alle loro famiglie e collocati all’esterno. Amputazioni psichiche non da poco.
A Trieste chiudono le tre comunità alloggio del Comune che funzionavano così bene.
Inizia una guerra silenziata tra il Sistema Minori e singoli, sparsi professionisti, che lo contrastano, evidenziando le anomalie nei loro scritti, nelle perizie di parte in tribunale, nelle memorie difensive di alcuni avvocati, in alcune interrogazioni parlamentari e regionali. A questi si aggiungono le azioni di associazioni dedicate ai diritti dei bambini sottratti alle loro famiglie, come ad esempio l’associazione Pronto Soccorso Famiglia nata l’8 maggio 2012, come anche precedentemente e successivamente, le azioni di associazioni dedicate all’affidamento condiviso di bambini tra genitori in separazione, che evidenziano nei loro siti e blog, e nelle loro iniziative pubbliche, quanto sta accadendo a bambini strappati ai loro genitori con motivazioni spesso false, manipolate e risibili, se non economiche.
Si contesta insieme, nelle azioni dei professionisti, dei rarissimi politici e delle associazioni, il metodo non scientifico dei periti del Sistema Minori che intervengono in tribunale, e la non ammissione tecnica della presenza in Italia anche del fenomeno delle false accuse di abuso sessuale su minorenni che il sistema esclude a priori; si contesta il numero dei bambini strappati alle famiglie e i dati che il sistema snocciola in merito agli abusi sessuali in mancanza di un punto di riferimento attendibile; si contesta la visione di base che il maschio è portatore di violenza alla nascita (questa è ideologia non scienza); si contesta che in Italia vi sia un così gran numero di famiglie maltrattanti o disagiate al punto di togliergli i figli; si contesta la posizione che la maggior parte degli abusi sessuali avvengono in famiglia quando non si considerano i numeri( né si conoscono) della pedofilia, che è altro fenomeno ed è esterno alla famiglia, anche se in questa si insinua.
Non succede niente. A parte le censure, le denunce e gli esposti, le minacce e i tentativi di intimidazione, l’isolamento di tutti i singoli professionisti intervenuti. E intanto il sistema, molto protetto, proseguiva la sua strada, inglobando centri nuovi, case famiglia nuove, comunità private nuove, professionisti singoli, periti per i tribunali, sulla pelle dei bambini e dei loro familiari.
In quasi 15 anni vengono tolti tra i 30.000 e i 50.000 bambini alle famiglie in tutta Italia con un costo per bambino al giorno che varia dai 150 euro ai 300 euro in casa famiglia o comunità private. Questo risulta dalle ricerche in internet.
Un indotto economico importante, che nutre stuoli di professionisti privati e pubblici nei diversi ruoli e fuori dal controllo dello Stato, nel senso che non ci sono cifre certe di tutto il movimento economico né una lista certa che raccolga tutte le case famiglie, le comunità private e le cooperative a essi collegati sul territorio italiano. Senza dimenticare i palesi conflitti di interesse come per esempio essere coinvolti direttamente nel sequestro dei bambini e avere quote in alloggi che devono accoglierli. Una cosa che a ben guardarla è mostruosa.
Ma e i bambini e ragazzi strappati? Sono profondamente italiana e altrettanto profondamente amareggiata da come lo Stato non solo non tutela questi bambini e ragazzi ma è artefice diretto della loro sofferenza. Circolano in rete video in cui ci sono bambini o ragazzi al momento del loro prelievo forzoso che emettono delle urla strazianti. Ogni volta ho la pelle d’oca, sto male, mi arrabbio. Ogni volta che partecipo per lavoro alle fasi tecniche precedenti in cui si sta preparando lo strappo e assisto al dolore, all’ansia, alla disperazione e a volte alla ribellione del bambino o ragazzo che dovrà lasciare casa sua, sento il dolore e in contemporanea una rabbia che faccio fatica a contenere. L’impotenza del singolo contro il carrozzone. E anche se non molli mai, il carrozzone va avanti protetto e macina corpi di bambini e rabbia.
Ma ve lo immagine cosa significa per un bambino di due o tre anni essere strappato dalla propria madre e dal proprio padre? Una cosa feroce dal punto di vista emotivo e psicofisico. E lo immaginate cosa significa per un bambino di sei sette anni che ha già cominciato a mettere le basi di costruzione della propria identità e ha le sue relazioni affettive familiari, la sua camera, i suoi punti di riferimento, subire un terremoto psichico con lo strappo, trascinato poi in mezzo a estranei? E in un adolescente che proprio in quel momento della sua vita, ha necessità di entrambi i genitori per individuarsi, il trauma della separazione e la perdita dei punti di riferimento in un momento delicatissimo e determinante dello sviluppo, cosa comporteranno? Sono le urla che sentite nei video in rete a rispondere. Il Sistema Minori attacca la personalità di bambini e ragazzi, creando traumi e conseguenze successive con una crudeltà inaccettabile.
Ma proseguiamo con la storia del Sistema Minori.
Nel 2013 il giudice del Tribunale dei Minorenni di Bologna, dott. Francesco Morcavallo, fa una denuncia molto forte alla trasmissione “Mattino cinque” con Federica Panicucci, proprio sui metodi e le azioni di questo sistema. Dice che non esiste un supporto normativo che giustifichi il prelievo dalla famiglia del bambino contro la sua volontà, che ci sono 35.000 bambini e ragazzi ricoverati nelle strutture dedicate, con un movimento di circa 1.000.000.000 e mezzo di euro all’anno, e che il CSM pur essendo informato, non si è mai speso per i cittadini in tal senso. Lo trovate qui:
Anche quella volta non accade niente in favore dei bambini. Invece il giudice Morcavallo, come molti di noi, viene sommerso di esposti che risolve tutti, e nel maggio 2013 abbandona la toga e lascia la magistratura. Un atto che contiene al suo interno tutta la mostruosità della situazione e l’impossibilità da solo a Palazzo di cambiare le cose. Trovate qui una recente sua intervista
Un giudice che lotta in modo evidente, coerente e onesto intellettualmente, per i bambini e le loro famiglie, e che lascia la toga, è una ferita profonda nel nostro Paese che urla vendetta.
La politica e la magistratura non hanno fatto niente pur sapendo. Qualcuno ci ha provato ma è stato bloccato. Tutti noi che ci abbiamo provato siamo stati bloccati.
Per comprendere l’isolamento del problema di cui ci occupiamo,questo piccolo video è la sintesi estrema di quanto descritto. E’ uno stralcio di qualche minuto, ricavato dal video integrale dell’audizione di mercoledì 31 luglio 2019 dell’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, dott. Filomena Albano.
Lo scorso anno è comparsa l’inchiesta di Pablo Trincia con il suo “Veleno” e oggi è scoppiato Bibbiano, in rappresentanza di tutta Italia. La punta dell’iceberg del Sistema Minori è emersa grazie all’azione di un altro magistrato, un pubblico magistero donna, che ha avviato un’ indagine sui controllori. Ci auguriamo che questo sia solo l’inizio.
L’Emilia Romagna coinvolta non è da sola, è in buona compagnia, si fa per dire.
Valentina Morana*
*Valentina Peloso Morana è psicologa-psicoterapeuta, psicologa investigativa, autrice. Si occupa da trenta anni di diritti dei bambini ed è portavoce del gruppo a base scientifica La Nostra Campagna.
Emilia Romagna, regione bancomat per le associazioni Lgbt
La legge regionale contro le discriminazioni di genere, approvata la settimana scorsa, non solo riduce la persona alle sue scelte e orientamenti, fonda le norme su aspetti mutevoli della personalità e punisce il reato di opinione. Essa si tradurrà anche in generosi contributi pubblici alle associazioni Lgbt e ai Gay Pride, e promuove la presenza delle stesse associazioni in molti ambiti tra cui scuola, sport, educazione, cultura, servizi sociali e servizi sanitari.
In Emilia Romagna i Gay Pride saranno finanziati con i soldi pubblici
Nella distrazione dei più e con la colpevole disinformazione di alcuni, una settimana fa la Regione Emilia Romagna votava a maggioranza la “Legge regionale contro le discriminazioni e le violenze determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere” (clicca qui e qui). La Regione non ha ancora pubblicato ufficialmente il testo. Per il nostro commento ci rifacciamo a quello licenziato nella seduta dell’11 luglio 2019, sapendo che nelle sedute successive non ha subito modifiche. Per brevità esaminerò solo alcuni aspetti che ritengo altamente significativi.
Ai “Principi e finalità” della legge è dedicato l’art. 1, che al 1° comma così recita: «La Regione Emilia-Romagna […] promuove e realizza politiche, programmi ed azioni finalizzati http://demetra.regione.emilia-romagna.it/al/class/pck_images.php?idimg=54ffc996e2c1493487c5e53c1ddf3de3_02&idrev=b1a67c30-80e0-c7d2-e294-5d2c84720e57a tutelare ogni persona nella propria libertà di espressione e manifestazione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, nonché a prevenire e superare le situazioni di discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica». Non solo accetta acriticamente, ma dà riconoscimento giuridico-sociale all’“identità di genere” e a “orientamenti”.
Queste due espressioni ricorrono in quasi tutti gli articoli. Prescindo dal contenuto erotico-genitale degli orientamenti. Mi soffermo solo su un aspetto: l’orientamento per natura sua è cangiante, mutevole e in pari modo l’identità di genere – a detta dei suoi stessi fautori – è fluida. Orientamenti e identità di genere non sono dati oggettivi come il sesso, l’etnia, la razza, la data di nascita, né sono dati oggettivabili come le competenze culturali e professionali o gli handicap. L’ordinamento giuridico si fonda su dati oggettivi o oggettivabili, non su aspetti cangianti e mutevoli.
Facendo costante riferimento alle categorie di “identità di genere” e “orientamenti”, la legge regionale riduce la persona umana alla sua scelta e al suo orientamento, indipendentemente dal contenuto di tale orientamento. Visione altamente dannosa perché giustifica qualsiasi condotta compulsiva, e rischia di produrre personalità psicologiche confuse, indeterminate e insicure, che si fermano ai propri orientamenti pulsionali senza armonizzarli nell’identità sessuale e nella ragione.
L’art. 2, intitolato “Interventi in materia di politiche del lavoro, formazione e aggiornamento professionale e integrazione sociale”, al comma 1° dice: «La Regione e gli enti locali […] adottano interventi tesi a contrastare atti e comportamenti discriminatori nei confronti delle persone in ragione dell'orientamento sessuale o dell'identità di genere, mediante la promozione di specifiche progettualità a sostegno delle vittime di discriminazioni nell'ambito delle politiche attive del lavoro, di formazione e riqualificazione professionale nonché per l'inserimento lavorativo». E al comma 2°: «La Regione e gli enti locali, nei codici di comportamento e nelle attività di formazione e aggiornamento del personale, promuovono parità di trattamento di ogni orientamento sessuale e identità di genere, anche mediante il contrasto degli stereotipi discriminatori e di un linguaggio offensivo o di dileggio». Al comma 3: «Ai fini della presente legge per stereotipi discriminatori si intendono, nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza, i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo».
Quindi, la Regione si impegna a contrastare condotte chiamate “dileggio”, “linguaggio offensivo” e “i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo”. Le espressioni “dileggio” e “linguaggio offensivo” sono troppo generiche, non sono definite e circoscritte dalla legge regionale. Quindi possiamo ragionevolmente sospettare che vogliano comprimere la libera manifestazione del pensiero, garantita a tutti i cittadini dall’articolo 21, 1° comma, della Costituzione. Infatti ogni opinione che sia contraria alle rivendicazioni dell’area LGBTQI (cioè lesbica, gay, bisessuale, transessuale, transgender, queer, questioning e intersex) può rientrare nella generica espressione “dileggio” “linguaggio offensivo”.
La legge all’art. 2, comma 3 definisce gli stereotipi discriminatori: «Si intendono, nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza, i pregiudizi che producono effetti lesivi della dignità, delle libertà e dei diritti inviolabili della persona, limitandone il pieno sviluppo». Notare la clausola di salvaguardia: «nel pieno rispetto della libertà di pensiero, di educazione e di espressione costituzionalmente garantiti a tutta la cittadinanza». Ma notare anche che lo stereotipo discriminatorio è un pregiudizio lesivo dei diritti individuali, e il pregiudizio consiste in una idea o opinione precostituita, così dicono i vocabolari della lingua italiana.
Quindi la legge regionale contrasta, censura, stigmatizza – non azioni esterne lesive di altri – ma le semplici opinioni dei cittadini, opinioni lesive di altri. Possono esistere pregiudizi lesivi di un altro che non si traducano in comportamenti? Se sono pregiudizi che danno vita a condotte lesive, perché la legge regionale non definisce e non sanziona direttamente le condotte lesive? Se sono pregiudizi che non danno vita a condotte lesive, sono meri pregiudizi, meri convincimenti. E chi giudicherà che una mia idea è lesiva di un altro? Forse la semplice percezione dell’altro? È un passo verso l’introduzione del reato di opinione.
Altro aspetto ricorrente nella legge (cf. artt. 2, 3, 4, 5, 6) è l’impegno della Regione a sostenere – cioè pagare con i soldi pubblici (cf. art. 4, c. 2) – progetti, iniziative funzionali a contrastare stereotipi motivati dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale. All’art. 4, c. 2 è detto esplicitamente: «La Regione può avvalersi della collaborazione, anche concedendo contributi, di organizzazioni di volontariato e di associazioni iscritte nei registri previsti dalla legislazione vigente in materia, impegnate in attività rispondenti alle finalità di cui alla presente legge». Come se i fatti di Bibbiano fossero accaduti in vano.
L’art. 4 intitolato “Promozione di eventi culturali” al comma 1 recita: «La Regione e gli enti locali […] promuovono e sostengono eventi socio-culturali che diffondono cultura dell'integrazione e della non discriminazione, al fine di sensibilizzare la cittadinanza al rispetto delle diversità e di ogni orientamento sessuale o identità di genere». Quest’articolo è funzionale a finanziare con soldi pubblici manifestazioni “di ogni orientamento sessuale o identità di genere”. Non c’è bisogno della zingara per individuare queste manifestazioni. Si tratta dei gay pride. Dai recenti fatti di cronaca sappiamo che sono manifestazioni di strada contrarie al buon costume e alla pubblica decenza, e in quanto tali vietate dall’art. 21 della Costituzione.
Con il pretesto lodevole di «favorire inclusione sociale, superamento degli stereotipi discriminatori, prevenzione del bullismo e cyberbullismo motivato dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere» (art. 3, c. 1) la Regione promuove e finanzia progetti per formare e aggiornare insegnanti e genitori (art. 3), medici, infermieri e operatori dei servizi sociali (art. 5) mediante l’inserimento attivo di «organizzazioni di volontariato e associazioni […] impegnate in attività rispondenti alle finalità di cui alla presente legge» (art. 6, c. 2). Quali saranno queste organizzazioni di volontariato e associazioni specializzate nelle tematiche LGBTQ?
È una legge bancomat, perché è molto ragionevole che la semplice lettura di tale documento faccia sorgere un sospetto: la legge regionale è funzionale a finanziare con soldi pubblici le associazioni del mondo LGBTQ.
È una legge pass-partout: perché l’ente pubblico Regione Emilia Romagna incoraggia, finanzia e accredita le associazioni che promuovono l’ideologia gender perché siano attive in molti ambiti, tra cui ricordo quello della scuola, dello sport, dell’educazione, della cultura, dei servizi sociali e dei servizi sanitari.
Tutto ciò – come enuncia l’art. 1 – per «prevenire e superare le situazioni di discriminazione, dileggio, violenza verbale, psicologica e fisica». Ma se leggiamo i dati raccolti dall’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (OSCAD), organismo composto dalla Polizia di Stato e dall’Arma dei Carabinieri, ci accorgeremo che in poco più di 8 anni, cioè dal 10/09/2010 al 31/12/2018, le segnalazioni di crimini di odio segnalate a tale organismo sono state pari a 2.532. Se ricondotte a una media annuale, si hanno 253 l’anno. Di queste 2.532 segnalazioni solo 1.114 sono reati di matrice discriminatoria. E se andiamo a leggere l’origine di tali reati di odio osserviamo che nel 59,3% dei casi si tratta dell’etnia o della razza di appartenenza della vittima, nel 18,9% del suo credo religioso, nel 13% del suo orientamento sessuale, nell’1% della sua identità di genere, nel 7,8% della sua disabilità.
Se prendiamo solo orientamento sessuale e identità di genere arriviamo al 14% dei casi per un totale di 212 casi (197+15) in 100 mesi su base nazionale, cioè 25 casi l’anno su base nazionale. Considerato che in Emilia Romagna risiede il 7,39% della popolazione italiana, possiamo stimare che i crimini di odio segnalati all’OSCAD originati da orientamento sessuale e identità di genere siano pari a 1,85 l’anno. Si tratta davvero di una vera emergenza regionale che richiede un intervento legislativo e un congruo finanziamento.
Qualsiasi atto di violenza e di ingiusta discriminazione va sempre condannato. Ma non siamo in presenza di un’ondata di violenza ai danni di una categoria di persone. Un principio fondamentale che governa la produzione normativa è che le leggi devono essere emanate solo in caso di reale necessità, per soddisfare e recepire reali e concrete esigenze della collettività, nascenti dall’effettiva esigenza di regolamentare aspetti particolari della vita di relazione o dell’azione della Pubblica Amministrazione, nel chiaro intento di perseguire sempre e comunque il bene comune e non singoli interessi settoriali.
Ma anche questo ragionevole aspetto è stato serenamente violato.
Giorgio Carbone
Politico pro-terzo tempio: preparatevi alla guerra
In risposta alle notizie di un imminente vertice di pace arabo-israeliano ospitato dall’amministrazione Trump, l’ex MK Moshe Feiglin ha dichiarato che il risultato di questa iniziativa sarà una “guerra”.
Moshe Feiglin, ex membro del parlamento e attuale capo del partito Zehut, è arrivato sui social media affermando che “il risultato del prossimo vertice sulla pace di Trump, come tutti i precedenti vertici sulla pace, sarà una guerra”.
“Per comprenderlo, bisogna capire che l’obiettivo di un” palestinese “non è la sovranità (per questa non nazione) in Israele ma piuttosto l’eliminazione della sovranità ebraica”, ha aggiunto Feiglin.
Nel post, il leader del partito ha ricordato l’ex segretario agli esteri britannico Ernest Bevin che ha ammesso alla fine del mandato britannico che l’obiettivo degli arabi in Palestina è garantire che gli ebrei non abbiano mai uno stato.
“Da allora non è cambiato nulla”, ha continuato Feiglin. “Non vogliono uno stato, vogliono solo assicurarsi che non ne abbiamo uno. Hanno richiesto uno stato nei “territori” quando era sotto il controllo giordano ed egiziano. Chiederanno sempre l’ultimo centimetro quadrato di terra governata da ebrei ”, ha affermato.
“Pertanto, ogni tentativo di pace porterà sempre a un altro giro di spargimenti di sangue”, ha aggiunto Feiglin.
Il partito di Feiglin, Zehut, è l’unico partito politico attuale che ha pubblicamente approvato la costruzione del Terzo Tempio, sebbene non sia necessariamente in prima linea nella loro agenda. Il partito Zehut è anche l’unico partito libertario di Israele che promuove il capitalismo del libero mercato ma anche l’annessione di tutta la Giudea, la Samaria e Gaza.
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