Nell’evangelizzazione si finisce per non trattare mai l’argomento [della proposta cristiana], sostituendo una proposta chiara ed esigente di vocazione alla santità con un ripiegamento psicologistico sulle tematiche di comunicazione della coppia oppure dando la preferenza ad altre tematiche più di moda e più attraenti per i giovani e per le famiglie: questioni importanti, certo, come la pace, l’ecologia, i diritti dell’uomo, che però spesso non mettono in gioco un personale cambiamento di mentalità e di comportamenti.
Così il mons. Livio Melina, già presidente dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia, in questo articolo che propongo all’attenzione dei lettori.  


(…) si tratta di prendere sul serio una difficoltà molto diffusa e molto grave, che noi, sacerdoti, oppure laici impegnati, genitori, insegnanti incontriamo nel comunicare l’insegnamento della Chiesa sulla morale sessuale, matrimoniale e familiare.
Quando il seminatore esce per spargere il seme del Vangelo sperimenta che ormai troppo spesso la buona semente cade su un terreno molto arido, che non accoglie, che non è permeabile… Ci troviamo a fronteggiare un’incomprensione radicale della proposta
cristiana, che l’ambiente tende a presentare come culturalmente superata e inadeguata ai problemi della nostra epoca. Il timore di essere non solo rifiutati apertamente, ma anche guardati con un sorriso di compatimento, porta molti al silenzio su questo tema e ad un
adattamento surrettizio ai costumi e ai valori dominanti. Parlarne sarebbe ostacolare l’evangelizzazione. Si preferisce rimandare il discorso a tempi migliori… che tardano poi sempre ad arrivare.
Nell’evangelizzazione si finisce per non trattare mai l’argomento, sostituendo una proposta chiara ed esigente di vocazione alla santità con un ripiegamento psicologistico sulle tematiche di comunicazione della coppia oppure dando la preferenza ad altre tematiche più di moda e più attraenti per i giovani e per le famiglie: questioni importanti, certo, come la pace, l’ecologia, i diritti dell’uomo, che però spesso non mettono in gioco un personale cambiamento di mentalità e di comportamenti.
Prendere sul serio la difficoltà, come noi vogliamo fare in questi giorni, significa capire che non si tratta solo di un problema di coerenza personale e di coraggio, ma che c’è una dimensione culturale del fenomeno, che va compresa e adeguatamente affrontata. La terra su cui cade il seme è stata resa secca e sterile da una cultura ostile, che si oppone all’evangelizzazione. Il fenomeno della “rivoluzione sessuale” da più di quarant’anni ha segnato profondamente il costume e la mentalità, trasformandosi in una vera e propria cultura. L’abbiamo definita come cultura del pansessualismo. La sessualità, separata dal matrimonio, staccata dalla procreazione, e sradicata dall’amore e dalla persona, cioè privata del suo contesto e dei suoi legami di senso e di responsabilità, è divenuta nelle nostre società occidentali un oggetto di consumo, pervasivo e onnipresente, ossessionante e determinante. Non è esagerato forse rilevare che la cultura del pansessualismo, mediante il facile allettamento, riesce a condizionare a tal punto gli individui da riuscire a determinare una configurazione alternativa della società e delle sue istituzioni basilari, quali il matrimonio, la famiglia, l’educazione. Se è veramente così, allora non basta continuare a gettare il seme nel campo, sperando magari che qualche chicco finalmente trovi una fessura, un po’ di umido e attecchisca: occorre anche preoccuparsi di dissodare il campo. È un lavoro duro e faticoso, talvolta ingrato. Ma anche necessario per preparare il terreno. Il nostro Istituto, voluto dal Santo Padre, esiste per questo. Il Seminario di questi giorni è offerto, per aiutare con una comprensione adeguata della circostanza culturale in cui ci troviamo, lo slancio dell’evangelizzazione. 
I vescovi spagnoli, rilevando le difficoltà cui ho appena fatto cenno, hanno iniziato il loro recentissimo Direttorio di Pastorale Familiare con una citazione della lettera ai Romani: “Non mi vergogno del Vangelo, che è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rom 1, 16). Può essere questa Parola che ci illumina e sostiene nel lavoro di questi giorni.
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Il vincitore del Tour / Egan Bernal e quel segno della croce

    Alla fine del Tour de France, vinto dal ventiduenne colombiano Egan Bernal (primo sudamericano a riuscire nell’impresa e atleta più giovane ad aver vinto la Grande Boucle nei tempi moderni) sono rimasto colpito dal saluto fra il ragazzo, il suo fratellino di dodici anni e la mamma. Perché è stato qualcosa di più di un semplice abbraccio.
Quando ha visto il fratello, Egan gli ha preso il volto fra le mani, poi si sono guardati negli occhi, poi Egan ha baciato il fratello sulla fronte e infine si sono scambiati reciprocamente il segno della croce, tracciandolo l’uno sul petto dell’altro. E quando poi è stata la volta della mamma, Flor Gómez, la scena si è ripetuta e di nuovo ecco quel contemporaneo segno della croce. Un gesto fatto in tutta semplicità, senza paura di sconcertare le persone attorno, e con grande spontaneità, come è tipico di chi lo fa abitualmente.
Che Egan Bernal sia un bravo ragazzo lo dicono tutti e glielo si legge nello sguardo. Ma quel segno della croce ha aggiunto qualcosa. Certamente all’origine dei precoci successi di questo ragazzo non c’è soltanto una predisposizione psicofisica.
Mamma Flor, dopo il trionfo di Egan, ha detto: “Posso solo ringraziare Dio che ha scelto il mio grembo materno per dare la vita a questo bellissimo bambino venuto al mondo con un obiettivo speciale: regalare così tante gioie non solo alla mia vita, ma anche a un’intera nazione”.
Capite bene anche voi che non sono parole usuali. Ho cercato allora qualche notizia in poi su Egan e ho scoperto quanto segue.
Fino all’ottavo mese di gravidanza, come ha raccontato lei stessa, mamma Flor non si rese conto di essere incinta. Aveva disturbi, provava nausea, soffriva di vertigini e di dolori allo stomaco, ma in quel dicembre del 1996, quando finalmente decise di andare dal medico, pensava di avere solo problemi intestinali. E quando il dottore, dopo averla visitata, le annunciò che le restava solo un  mese di gravidanza, la sorpresa fu totale.
Mamma Flor e papà German, non sapendo che avrebbero avuto il loro primo figlio, non avevano nemmeno pensato a un nome, e così fu proprio il medico a scegliere Egan, che significa “fervente”, “focoso”. E il dottore chiese di anche di poter essere il padrino al battesimo.
Egan nasce il 13 gennaio 1997 a Zipaquirá, una città a oltre 2800 metri di altitudine e a circa cinquanta chilometri dalla capitale Bogotà. Mamma Flor ha ventidue anni e lavora nell’azienda agricola Guacarí di Zipaquirá. Il suo lavoro consiste nel selezionare i migliori garofani da destinare all’esportazione. Il 12 gennaio di quel 1997 trascorre l’intera giornata in piedi, a scrutare garofani. Quando si rompono le acque, lei, giovane e inesperta com’è, di nuovo non capisce, ma fortunatamente la sua capa, Marina Velásquez, capisce subito: “Egan sta per nascere!”.
Flor è portata all’infermeria dell’azienda e poi all’ospedale municipale, dove le dicono che dovrà andare a Bogotá. Non c’è però un’ambulanza, e così Flor deve prendere un taxi, con un esborso ben al di sopra delle sue possibilità. Arrivata alla clinica San Pedro Claver, i medici la mettono su una barella in un corridoio pieno di altri pazienti. Nessuno le parla, mentre il personale medico va e viene. Le somministrano un farmaco per indurre il travaglio, ma la quantità è eccessiva e le provoca una forte tachicardia. Flor sta male e urla per il dolore.
Finalmente la portano in sala parto e Egan nasce a mezzogiorno in punto. La mamma è in condizioni pietose, però quando le portano il bambino ha la forza di contargli le dita delle mani e dei piedini, per verificare che non manchi niente, e di memorizzare eventuali segni particolari. Le partorienti sono tante e lei ha il terrore che i neonati possano esse scambiati.
Qualche attimo dopo, per Flor tutto si fa nero. Il suo cuore batte a mille, come se volesse uscire dal petto. La giovane mamma perde i sensi. Una crisi cardiaca.  Quando rinviene, le dicono che deve abbandonare il letto, perché serve ad altri pazienti. La mettono sopra una sedia. Chiede di poter vedere il bambino, ma non è possibile, perché lui si trova in un altro reparto.
Quando Germán, il marito, le si avvicina, sulle prime non riconosce la giovane moglie, tanto è sconvolta e sofferente. Poi finalmente le portano il bimbo e lei per prima cosa gli abbassa il pannolino e controlla un punto sull’anca. Durante la minuziosa ispezione, si era accorta che lì c’era una macchiolina. Capisce che Egan è veramente Egan e finalmente la tensione si allenta. La clinica però è così piena che Flor viene congedata. Con Germán ed Egan torna a casa in taxi e l’esborso, di nuovo, è costosissimo per le loro tasche.
Il primo controllo medico avviene quando Egan ha sei mesi. Si scopre che il piccolo ha la polmonite e la mamma, per occuparsi di lui, lascia per lungo tempo il lavoro di selezionatrice di garofani. Tutto si risolve ed Egan cresce bene. È un po’ iperattivo. A un anno cammina e si sbarazza del pannolino.
Di anni ne ha nove quando con i suoi genitori passa accanto ad alcuni bambini con biciclette e caschetti. È una gara giovanile, e a lui piacerebbe partecipare, ma Flor e Germán non hanno i solidi sufficienti per l’iscrizione. Interviene un amico di famiglia, César Bermúdez, che presta il denaro necessario e, così facendo, di certo non immagina che sta iscrivendo alla sua prima gara il futuro vincitore del Tour de France.
Inutile dire che Egan vince la corsa senza difficoltà, sbaragliando il campo. L’amore per la bici è immediato e lui dichiara: “Voglio essere un ciclista”.
La sua, inizialmente, è però una mountain bike, e per lungo tempo Egan gareggia su sentieri in mezzo ai boschi, su sabbia e fango, fino a partecipare ai mondiali della specialità nel 2014 e nel 2015.
L’avventura europea incomincia nell’estate del 2015 grazie a un ex ciclista italiano, che lo ospita in casa sua, in Sicilia, come un figlio. È stato il commissario tecnico della nazionale colombiana di mountain bike a segnalare il ragazzo.
Vicino a Catania il giovanissimo ciclista ha il suo primo contatto con il mare. Non solo non sa nuotare, ma non ha mai toccato l’acqua. Andare in spiaggia gli piace molto, purché ci possa andare in bici.
In Sicilia scopre anche la cucina italiana. Tutto della nuova realtà gli piace e arrivano subito le prime vittorie. Ma, paradossalmente, dal punto di vista fisico fatica un po’ troppo, perché correre al livello del mare è strano per lui, nato e cresciuto a quasi tremila metri d’altitudine.
Egan si comporta da vero atleta. Una volta gli offrono una lattina di Coca Cola e lui la rifiuta: beve solo acqua e tè. Prova con il caffè, ma non gli piace: lo agita troppo. Ma come fa una ragazzo a evitare la Coca Cola? Messo alle strette, confessa che si tratta di un fioretto: non berne per un  anno intero, fino alla firma del suo primo contratto. Il quale puntualmente arriva e gli apre le porte del ciclismo dei campionissimi.
Ecco, questa, per sommi capi, è la storia di Egan, di mamma Flor e della famiglia Bernal. Nella quale, evidentemente, farsi il segno della croce non è solo un gesto scaramantico.

Aldo Maria Valli