ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 16 settembre 2019

Comunione con Dio o con gli “spiriti” (maligni)?

Verso il sinodo amazzonico / “Mistica indigena”? No, grazie. In gioco c’è l’Eucaristia

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Cari amici di Duc in altum, il sinodo pan-amazzonico si sta avvicinando e le avvisaglie sono sempre più inquietanti, come dimostrano alcuni rituali pagani che hanno visto la partecipazione di pastori cattolici. Non bisogna pensare che si tratti soltanto di folclore. La posta in gioco è alta e decisiva: la nostra stessa fede. La parola-talismano con la quale si cerca di sovvertire la dottrina è “inculturazione”.
Nel saggio che oggi vi propongo il professor José Antonio Ureta dimostra, con ampia documentazione, come si sia già andati molto avanti in questo processo e come la Chiesa, spesso, anziché opporsi alla deriva magica, spiritistica e panteistica, la appoggi e la favorisca.

Circa gli ispiratori, per niente occulti, del prossimo sinodo ho pubblicato nei giorni scorsi il mio articolo Le radici del sinodo amazzonico e la carica degli ottantenni, mentre del professor Ureta sono già usciti in Duc in altum alcuni contributi, fra i quali vi ricordo Brandmüller, il sinodo amazzonico e il destino della Chiesa.
A.M.V.
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Comunione con Dio o con gli “spiriti” (maligni)?
La Rete Panamazzonica (Repam), principale coordinatrice della prossima assemblea speciale del sinodo dei vescovi, ha organizzato dal 16 al 18 luglio scorsi un seminario nel Centro culturale missionario, a Brasilia. Fra le attività dell’evento, a destare più interesse e reazioni è stata la celebrazione di una “mistica indigena”, durante  la quale sono state invocate “protezione e benedizione sul cammino sinodale”. Il noto blogger brasiliano Bruno Braga l’ha qualificata come “rituale macabro”, proprio del “paganesimo indigenista”[1].
Un mese dopo, il 14 agosto, durante il terzo incontro ufficiale preparatorio per il sinodo, tenutosi a Bogotà (dopo quelli di Washington e Roma) con la partecipazione del cardinale Pedro Barreto Jimeno, vicepresidente della Repam e uno dei presidenti dell’imminente sinodo, lo sciamano Isidoro Jajoy, della tribù colombiana Inga, ha dato la “benedizione” a un gruppo di partecipanti all’evento, fra i quali una suora in atteggiamento reverenziale[2].
Si tratta di alcuni esempi di rituali pagani celebrati nel corso di eventi o cerimonie cattoliche e che sono stati immortalati in moltissime foto che stanno facendo il giro delle reti sociali.
La più scandalosa è stata la cerimonia celebrata davanti alla cattedrale di Arica (Cile) a conclusione della consacrazione del nuovo vescovo monsignor Moisés Atisha: nelle foto si vede uno stregone inginocchiato che offre foglie di coca, semi, acqua e chicha (un intruglio fermentato) alle divinità Pachamama (la Terra) e Tata Inti (il Sole), così come ai Malkus (spiriti delle montagne). Tutto ciò avviene al cospetto di una dozzina di vescovi che formano un semicerchio. Tra essi sono presenti il nunzio apostolico e l’allora arcivescovo di Santiago. Lo stregone impone poi collane multicolori di carta al nuovo presule e al suo consacrante, monsignor  Cristián Contreras. Dopodiché, le foto mostrano come entrambi i vescovi si inginocchino davanti all’ “altare” idolatrico per raccogliere alcune foglie di coca benedette dallo sciamano. Per chi guarda, però, l’impressione è che anche essi le offrano alla Pachamama, al Tata Inti e ai Malkus[3].
Questi presuli si sono forse dimenticati che tali rituali pagani sono stati già condannati nel canone 24 del concilio di Ancira (anno 314), secondo cui quanti avessero accolto maghi nelle loro case dovessero venire scomunicati? Si sono scordati che nel canone 36 del sinodo di Laodicea (anno 375) si dichiarava che “i sacerdoti ed altri chierici non possono essere maghi, fattucchieri, chiromanti, astrologhi” e che “non possono fabbricare portafortuna di protezione, che sono più catene per l’anima che protezioni della vita”?
Passati 1700 anni, i fattucchieri non sono nelle case bensì nelle riunioni ecclesiali e molti premono  affinché si celebrino i loro rituali nel templi, in nome della Chiesa… Quomodo obscurantum est aurum, come si è potuto oscurare fino a questo punto l’oro della fede e della disciplina?
La parola-talismano, usata per operare un tale trasbordo ideologico e il conseguente sincretismo liturgico, è “inculturazione”, mentre il supporto teologico lo si è andato a cercare in diversi documenti magisteriali. Dalla costituzione conciliare Sacrosantum Concilium del Vaticano II – laddove si afferma che la Chiesa “non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità”,  motivo per cui è raccomandabile che “si lasci posto alle legittime diversità e ai legittimi adattamenti ai vari gruppi etnici, regioni, popoli”[4] -, fino al documento finale della IV  Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi a Santo Domingo che, in nome dello sviluppo di “una evangelizzazione inculturata per i nostri fratelli indigeni”, manifesta la volontà di “promuovere una  inculturazione della liturgia, accogliendo con riguardo i loro simboli, riti ed espressioni religiose compatibili con il chiaro senso della fede, mantenendo il valore dei simboli universali e in armonia con la disciplina generale della Chiesa”[5].
All’inizio questi insegnamenti sono stati interpretati solo come traduzione dei testi liturgici ai dialetti aborigeni, immissione  di canti, melodie e ritmi autoctoni, costruzione e decorazione di santuari con stili artistici locali, etc.  Ma ben presto si è passati dal compatibile all’incompatibile e dal legittimo all’illegittimo, col pretesto che “la cultura dell’altro non va assunta a metà”, facendo soltanto qualche concessione, come afferma il teologo delle missioni Paul Suess[6], uno dei principali redattori dei documenti preparatori del prossimo sinodo panamazzonico.
Così, ad esempio, già agli inizi degli anni Settanta, su pressione del cardinale Joseph Malula, arcivescovo di Kinshasa, fu creato un “rito zairese” per la celebrazione della Messa. Secondo i rapporti di quegli anni, durante il rito il celebrante, scalzo, con una pelle di leopardo intorno alla cintura e sopra la casula (quando non vestiva semplicemente con abiti locali) e con un copricapo ornato da penne e corni di antilope,  faceva il suo ingresso nel santuario a passo di danza, portando in una mano uno scudo e nell’altra un machete o lancia corta, nominata  zagaglia, come lo farebbe un capo tribale in una cerimonia ancestrale. Dopodiché invocava, assieme ai fedeli, “gli antenati dal cuore retto”… La Santa Sede finì per riconoscere tale rito esclusivamente per le diocesi della Chiesa zairese, nonostante tutti questi elementi che, oggettivamente, facilitavano una confusione con le religioni ancestrali africane[7].
A sua volta, dietro suggerimento di monsignor Helder Câmara, in America Latina il vescovo Pedro Casaldáliga compose assieme al  poeta e politico noto con lo pseudonimo di Pedro Tierra una Messa della Terra senza mali – evocazione della mistica guaranì – per celebrare il supposto martirio di indigeni ad opera degli imperi spagnolo e portoghese. Quasi quaranta vescovi presero parte alla sua prima celebrazione, il 22 aprile 1979, nella cattedrale di San Paolo. Per farsi una sommaria idea del suo contenuto basti leggere il seguente dialogo, tratto dalla Memoria penitenziale (Kyrie), fra un indigeno che evoca il carattere soprannaturale della sua cultura ancestrale e l’assemblea rappresentante i missionari. I quali, si presume, avrebbero forzato gli indios ad accettare la fede cattolica.
– Indigeno: L’amore del Padre comune / mi ha battezzato con l’acqua della Vita e della Coscienza / seminando in me la Grazia del suo Verbo, / Seme universale di Salvezza.
– Tutti: Mentre noi ti abbiamo marchiato / con un Battesimo imposto, / marchio di bestiame umano, / blasfemia di Battesimo, / violazione della Grazia / e negazione di Cristo[8].
Due anni più tardi, gli stessi autori composero una Messa dei Quilombos, in memoria degli schiavi neri. Tale messa venne proibita dalla Santa Sede, ma fu rappresentata come spettacolo nella Piazza “del Carmelo”, a Recife, da tre vescovi: Helder Câmara, João Maria Pires e Pedro Casaldáliga.  Nonostante il divieto vaticano, la Messa viene regolarmente celebrata in diverse regioni nel corso della Settimana della coscienza nera. Il suo carattere sincretista si può percepire subito dal secondo cantico d’ingresso: “In nome del Dio di tutti gli uomini / Yahweh / Obatalá / Olorum / Oiá”[9] (gli ultimi tre nomi corrispondono a  divinità della religione degli Yoruba, gruppo etnico-linguistico dell’Africa Occidentale, dal quale discendono i neri del Brasile).
Intanto, la stessa “creatività liturgica” si faceva strada nelle comunità ecclesiali di base latinoamericane, approfittando del carattere informale di piccole assemblee. In esse si dava libero sfogo all’immaginazione, sia nelle “celebrazioni della Parola”sia nella stessa celebrazione eucaristica. L’ex frate Leonardo Boff diede il suo avallo teologico, sostenendo che la “liturgia è espressione della fede e non realizzazione di un rito sacro”. E aggiungeva: “Evidentemente il popolo apprezza la liturgia canonica ufficiale;  ma crea pure dei riti, mette in scena la Parola di Dio con grande spontaneità, sa organizzare grandi celebrazioni adoperando la Bibbia e gli oggetti significativi della propria regione, oppure i cibi tipici”. Nella sua corrispondenza col cardinale  Ratzinger, rispondendo alle osservazioni della Congregazione per la dottrina della fede, il teologo della liberazione ammetteva che nelle comunità ecclesiali di base, a causa della mancanza di sacerdoti, si celebra una “Cena del Signore” presieduta da un “coordinatore laico”: evidentemente non si tratterebbe di una vera Messa (data l’assenza di un sacerdote), ma non sarebbe neanche una mera para-liturgia. Boff suggeriva l’ipotesi che tale “coordinatore laico agirebbe come ministro straordinario nell’ambito del principio supplet Ecclesia (oeconomia)”[10]. E questo presiedere la Cena costituirebbe uno dei nuovi ministeri laicali che “reinventerebbero” la Chiesa dalle fondamenta…
In Europa facevano lo stesso i cosiddetti “gruppi profetici”, critici delle celebrazioni “troppo astratte, esoteriche, stereotipate, minacciate dalla routine” delle parrocchie; e ciò avveniva persino dopo la promulgazione del nuovo Ordinario della Messa di Papa Paolo VI. Questi piccoli gruppi propugnavano l’opportunità di frazionare le parrocchie in piccole comunità più fraterne e intime, il che avrebbe reso impossibile avere tanti sacerdoti per presiedere l’Eucaristia.  Perciò, “hanno deciso di ‘prendere in mano la cena del Signore’” e  di “celebrare fra loro l’Eucaristia, o varianti di essa, senza che vi sia una ‘origine controllata’”, come rivelava un dossier intitolato Célébrations eucharistiques & agapès, preparato dalle stesse comunità cristiane di base, con prefazione del gesuita Joseph Moingt. “Il fenomeno si espande dappertutto”, asseriva il documento: “in Germania, Belgio, Canada, Francia, Gran Bretagna, Paesi Bassi…”[11]. In modo simile al francescano Boff in America Latina, il domenicano belga E. Schillebeeckx agli inizi degli anni Ottanta sostenne che, in casi straordinari, la presidenza eucaristica possa essere affidata a dei comuni laici. Questa tesi fu ribadita nel 2007 dal rapporto Chiesa e ministero, redatto dal capitolo provinciale dei domenicani olandesi e inviato a tutte le parrocchie dei Paesi Bassi[12].
Tuttavia la teologia progressista non considerava sufficienti questi abusi liturgici; cercava piuttosto una maggiore “inculturazione” dei riti nella vita reale dei partecipanti, qualcosa che nascesse dalla base e non fosse semplicemente un adattamento imposto dall’alto. Nei Paesi di missione, secondo il citato padre Paul Suess, “riti e frecce indigene integrate nelle liturgie romane in genere sono soltanto dei segni di acculturazione verticale e folcloristica, ma non di una evangelizzazione inculturata”[13]. Pertanto si auspicavano cambiamenti più radicali.
Questi cambiamenti non potevano non ledere l’essenza stessa dei sacramenti istituiti da Gesù Cristo. Un esempio: due missionari europei in Africa sono stati i primi a sollevare apertamente, in nome della inculturazione, la questione – che chiamarono “delicata” – della materia del sacramento della Eucaristia.
Il gesuita Wauthier de Mahieu, nel suo libro Anthropologie et théologie africaine affermò che l’adeguamento liturgico in Africa non trattava che di aspetti secondari, perché “il simbolismo, quello che dovrebbe soddisfare in profondità la vita dell’uomo africano e la dimensione spirituale che gli dona, rimane essenzialmente occidentale e mediterraneo”. In particolare, ciò sarebbe risaputo per quanto riguarda l’Eucaristia : “I due elementi principali del rituale cristiano, il pane e il vino, non sono, per tutta la cultura mediterranea, solo simboli di nutrimento… essi incarnano tutta la vita attiva, il lavoro, la stessa lotta di una comunità per nutrirsi e mantenersi in vita… Donandosi sotto queste due specie, il Cristo ha voluto non solo significare che egli (sic) desiderava entrare nel cuore – per non dire nello stomaco (sic) – di un individuo, ma pure che c’è tutta una vita, la vita attiva di una intera comunità, con i suoi travagli e le sue pene, con le sue lotte per la giustizia e per il bene, con le sue gioie e i suoi legami affettivi, che egli desidera consacrare mediante la sua presenza. In Africa, invece, questi simboli non fanno parte della vita della gente, poiché non sono espressione delle loro vite e dunque sono incapaci di trasmettere, almeno in maniera vissuta, il messaggio teologico che dovrebbero trasmettere. (…) Vivere di un simbolismo disincarnato equivale a mettere in dubbio, se non proprio a rifiutare, il principio stesso della Incarnazione”[14].
Dal canto suo, il domenicano René Luneau nel 1972 pubblicò un articolo dal titolo Una Eucaristia senza pane e senza vino…?, in cui rammentava che il Vaticano II autorizzò la celebrazione in lingua volgare per sottolineare che “una lingua non è soltanto una maniera di dire, ma piuttosto una maniera di vivere l’esperienza umana”. Perciò, a suo parere, la logica esigerebbe che la Messa venga celebrata con elementi propri della vita di ogni popolo, altrimenti “manca qualcosa alla stessa verità della rivelazione della Pentecoste”[15].
Per quanto assurde sembrino, queste tesi non hanno impedito che i vescovi dello Zaire presentassero alla Santa Sede, nel 1973, la seguente domanda: “Una vera africanizzazione del cristianesimo deve abbracciare tutti gli ambiti, ivi compreso quello del rito; ciò non implica l’uso di una materia che sia veramente frutto della terra africana?”[16].
Di fronte alla risposta negativa della Congregazione per la dottrina della fede, due autori nigeriani protestarono. Il padre Chukwudum B. Okolo, professore di Filosofia all’Università di Nsukka, invitò gli africani a considerare che Cristo si era incarnato fra di loro: pertanto nelle celebrazioni avrebbero potuto adoperare liquore di palma o di banana[17].
Il religioso spiritano padre Elochuku Uzukwu, attualmente professore di Teologia all’Università di Duquesne, negli Stati Uniti, scrisse che la materia dell’Eucaristia è una questione di diritto ecclesiastico. Sottolineò inoltre che “il simbolismo della cena” in Africa è ostacolato, in quanto “la farina della loro terra che è il miglio, non viene impiegata per la fabbricazione del pane eucaristico” e perciò “il risultato del lavoro delle loro mani (il liquore di palma) non è offerto a Dio”. Per evitare “il pericolo di una concezione magica dell’Eucaristia”, la Chiesa in Africa “non deve rimandare la scelta di cibi e bevande appropriate per la celebrazione eucaristica”[18].
Un sacerdote zairese, don Kabasele Lumbala, professore all’Università Cattolica di Kinshasa, aggiunse un’argomentazione “terzomondista”: “Come può il Signore unire l’Africa e l’Asia all’economia del Mediterraneo attraverso una dipendenza economica così gravosa, attraverso il culto? Mangiare il pane per un uomo africano nero che importa grano significa condannarsi a morte. (…) Celebrare l’Eucaristia con pane di manioca o mais sta già iniziando questa liberazione economica”[19].
Di fronte a proposte così in contrasto con l’insegnamento e la disciplina tradizionali e ad abusi liturgici così scioccanti come quelli praticati nelle piccole comunità di base, il Vaticano si vide costretto a reagire. Nel gennaio 1994, la Congregazione per il culto divino pubblicò l’istruzione Varietates Legitimae sulla liturgia romana e l’inculturazione, che dichiara quanto segue: “Poiché la liturgia è espressione della fede e della vita cristiana, occorre vigilare che la sua inculturazione non sia segnata, neppure in apparenza, dal sincretismo religioso. Ciò potrebbe accadere se i luoghi, gli oggetti di culto, le vesti liturgiche, i gesti e gli atteggiamenti lasciassero supporre che, nelle celebrazioni cristiane, certi riti abbiano i medesimi significati di prima dell’evangelizzazione”[20]. E, in una velata allusione alle messe promosse dal cardinale Malula a Kinshasa, aggiunge: “La ripresa degli usi tradizionali deve accompagnarsi a una loro purificazione e, se necessario, a delle rinunce. La stessa cosa vale, ad esempio, per l’eventuale cristianizzazione di feste pagane o di luoghi sacri, per l’attribuzione al sacerdote delle insegne di autorità riservate al capo nella società, per la venerazione degli antenati. S’impone, in ogni caso, di evitare ogni ambiguità. A più forte ragione la liturgia cristiana non può assolutamente accogliere riti di magia, di superstizione, di spiritismo, di vendetta o a connotazione sessuale”[21].
Tuttavia in Vaticano vi erano diversi promotori di una inculturazione che naturalizzava la liturgia cristiana. Tra questi il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Piero Marini, secondo cui “se non è pertinente introdurre la danza nelle parrocchie italiane, questa ha il suo posto nelle celebrazioni missionarie”. Così, il 5 ottobre 2003, la cerimonia di canonizzazione di tre missionari (i beati Comboni, Janssen e Freinademetz) fu “arricchita” con danze e canti di gruppi africani e asiatici. Alcuni giorni dopo, il cardinale nigeriano Francis Arinze, in un viaggio negli Stati Uniti, reagì criticando quella che chiamò “creatività incontrollata” e “immaginazione troppo fertile”, senza alcuna corrispondenza con la “vera inculturazione”, che non significa incitare a relizzare “cerimonie liturgiche non autorizzate”. Monsignor Marini però non gli fece caso e, per la beatificazione di Madre Teresa, dieci giorni dopo, incluse nella cerimonia donne vestite con sari colorati che danzarono davanti all’altare prima del Padre nostro, con fiori e bastoni di incenso in mano, al ritmo di una musica india[22]. Così il cardinal Arinze durante il sinodo sull’Eucaristia dell’ottobre 2005 sentì il bisogno di ribadire che la Santa Messa non è una “ricreazione” e che “le danze stanno bene nel salone parrocchiale, ma non durante la messa”[23].
Poiché le istruzioni sul vero concetto di inculturazione non erano rispettate nemmeno nelle cerimonie del Vaticano e, soprattutto, non venivano accompagnate da sanzioni a quanti commettevano abusi liturgici – al contrario, ad essere punito fu monsignor Marcel Lefebvre, che per garantire la sopravvivenza del rito tradizionale ordinò sacerdoti e consacrò vescovi senza il dovuto permesso – le deviazioni disciplinari e dottrinali continuarono a diffondersi ampiamente nella Chiesa.
Nel 2004 la Congregazione per il culto divino si vide obbligata a pubblicare una nuova istruzione, la  Redemptionis Sacramentum, “su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la Santissima Eucaristia”, che affronta, tra l’altro, il tema della materia del Sacramento e afferma: “Il pane utilizzato nella celebrazione del santo Sacrificio eucaristico deve essere azimo, esclusivamente di frumento e preparato di recente, in modo che non ci sia alcun rischio di decomposizione. Ne consegue, dunque, che quello preparato con altra materia, anche se cereale (…) non costituisce materia valida per la celebrazione del sacrificio e del sacramento eucaristico. È un grave abuso introdurre nella confezione del pane dell’Eucaristia altre sostanze, come frutta, zucchero o miele. (…) Il vino utilizzato nella celebrazione del santo sacrificio eucaristico deve essere naturale, del frutto della vite, genuino, non alterato, né commisto a sostanze estranee. (…) Non si ammetta, poi, nessun pretesto a favore di altre bevande di qualsiasi genere, che non costituiscono materia valida”[24].

Quello dell’inculturazione della liturgia è stato uno dei cavalli di battaglia della Teologia India, che ha promosso l’inclusione di elementi dei rituali ancestrali nelle cerimonie cattoliche, come espressione della religiosità popolare. Una pratica che molti gruppi già mettono in atto. Il sacerdote indigeno messicano Eleazar López, autoproclamatosi “padre” della Teologia india, offre la presunta giustificazione teologica a tale incorporazione sincretista di elementi pagani nella liturgia cattolica:
“Con le teologie indie cristiane non pretendiamo di attuare un ritorno romantico alle religioni indigene pre-ispaniche; ma queste sono un riferimento obbligato della nostra identità più profonda. Con le teologie indie cristiane non cerchiamo di contrapporre o soppiantare i testi delle Sacre Scritture attraverso i miti della tradizione indigena; ma cerchiamo di far sì che a tali miti e credenze dei nostri popoli si dia il posto che loro spetta nella nostra vita e celebrazione della fede; non pretendiamo nemmeno di costruire una Chiesa autonoma con sacramenti e ministeri estranei alla tradizione della Chiesa, al margine o contro i legittimi pastori, in un contesto di lotta di classe; ciò che vogliamo è la vera inculturazione dei sacramenti, della liturgia e dei ministeri della Chiesa”[25].
Adottando ufficialmente tali linee pastorali della Teologia india, i vescovi che componevano il Segretariato della pastorale indigena (Sepai) del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), riunendosi a Bogotá nel 1985 dichiararono: “La Chiesa deve collaborare alla nascita delle Chiese particolari indigene con gerarchia e organizzazione autoctone, con teologia, liturgia ed espressioni ecclesiali adeguate a una esperienza culturale propria della fede, in comunione con altre chiese particolari, ma soprattutto e fondamentalmente con Pietro”[26].
La prima accettazione giuridica e magisteriale di una liturgia autoctona si ebbe nel Direttorio pastorale diocesano del Chiapas, nel cui capitolo su Liturgia nella Chiesa autoctona si auspicava che “le celebrazioni liturgiche della Chiesa autoctona si realizzino con parole, simboli e gesti propri, che partano dalla radice e dal cuore delle culture delle comunità”, affinché queste “comprendano e vivano il senso di dette celebrazioni arricchendole con i valori che hanno costituito il cuore religioso dei loro antenati”. In tal modo, garantiva il Direttorio, “nel mettersi in contatto con le celebrazioni indigene, la liturgia cattolica si arricchisce e si carica di senso religioso e spirituale”[27].
I documenti preparatori del sinodo per la regione pan-amazzonica hanno adottato apertamente queste prospettive. Il primo, intitolato Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale, afferma che i nuovi cammini che deve battere la Chiesa dal volto amazzonico “dovranno incidere sui ministeri, sulla liturgia e sulla teologia (teologia india)”[28]; segnala che i missionari devono avere una spiritualità “che permetta di celebrare la vita, la liturgia, l’Eucaristia, le feste, sempre rispettando i ritmi propri di ogni popolo”[29]; e, nel questionario inviato alle comunità, domanda: “Esistono spazi di espressione autoctona e di partecipazione attiva nella pratica liturgica delle sue comunità?”[30].
D’altra parte, l’Instrumentum laboris parte dal presupposto che “l’inculturazione della fede non è un processo dall’alto verso il basso o un’imposizione esterna, ma un arricchimento reciproco delle culture in dialogo (interculturalità)”[31]. Da qui si deduce che “l’educazione in Amazzonia non significa imporre ai popoli amazzonici parametri culturali, filosofie, teologie, liturgie e costumi estranei”, ma piuttosto che deve essere “aperta all’interculturalità”[32], promuovendo la Teologia India amazzonica e prendendo in considerazione “i miti, le tradizioni, i simboli, i saperi, i riti e le celebrazioni originarie che includono le dimensioni trascendenti, comunitarie ed ecologiche”[33].
Nel capitolo La celebrazione della fede: una liturgia inculturata si afferma che “la celebrazione della fede deve avvenire con l’inculturazione perché sia espressione della propria esperienza religiosa e del legame di comunione della comunità che celebra”[34]. Pertanto “si costata la necessità di un processo di discernimento riguardo ai riti, ai simboli e agli stili celebrativi delle culture indigene a contatto con la natura che devono essere assunti nel rituale liturgico e sacramentale”, e si suggerisce “che le celebrazioni siano di tipo festivo con la propria musica e la propria danza, nelle lingue e nei vestiti autoctoni, in comunione con la natura e con la comunità”. Più avanti, si segnala che è necessaria una “pastorale della visita”, con il fine di “riconfigurare la Chiesa locale in tutte le sue espressioni: ministeri, liturgia, sacramenti, teologia e servizi sociali”[35]. Oltre a suggerire l’ordinazione sacerdotale di indigeni sposati e di identificare nuovi ministeri ufficiali che siano affidati a donne (tema già trattato in articoli precedenti), l’Instrumentum laboris propone “di garantire alle donne la loro leadership” nella liturgia[36].
Circa i sacramenti, si chiede di “superare la rigidità di una disciplina che esclude e aliena, attraverso una sensibilità pastorale che accompagna e integra”[37]. Non stupisce che il documento suggerisca di “recuperare i miti e attualizzare i riti e le celebrazioni comunitarie che contribuiscono in modo significativo al processo di conversione ecologica” e, ancor più, un “riconoscimento formale, da parte della Chiesa particolare, dell’agente pastorale come ministero speciale che promuove la cura della Casa Comune” [38], ovvero, senza mezzi termini, il riconoscimento del supposto ruolo integratore svolto dai fattucchieri. Questo risulta molto chiaro nel documento preparatorio “Amazzonia: nuovi cammini, etc.”, in cui si dice esplicitamente che “i vecchi saggi, chiamati indistintamente – fra l’altro – payés, mestres, wayanga o chamanes, hanno a cuore l’armonia delle persone tra loro e con il cosmo”[39]. Senza citarli esplicitamente, tuttavia l’ Instrumentum laboris spiega il loro ruolo: “I rituali e le cerimonie indigene sono essenziali per la salute integrale perché integrano i diversi cicli della vita umana e della natura. Creano armonia ed equilibrio tra gli esseri umani e il cosmo. Proteggono la vita dai mali che possono essere causati sia dagli esseri umani che da altri esseri viventi”[40] (questi ultimi non sono gli animali, bensì gli “spiriti” ai quali gli indigeni attribuiscono gli sconvolgimenti naturali e le malattie, ed è per questo che, secondo il documento, “le risposte al documento preparatorio sottolineano la necessità di preservare e trasmettere i saperi della medicina tradizionale”[41], che, come sanno tutti gli antropologi, s identifica con la stregoneria).
Se a qualcuno sembra esagerato supporre che siamo di fronte al riconoscimento ufficiale, come un ministero della Chiesa, dell’opera dei guaritori, è raccomandabile leggere le dichiarazioni della religiosa indigena suor Guaracema Tupinambá, provinciale di una congregazione che lavora in Amazzonia, la quale afferma: “Non ha senso portare [alle popolazioni indigene] i ministeri o reinterpretarli, ma comprendere quali sono i ministeri esistenti tra questi popoli e come possiamo condividere i nostri ministeri e accogliere quelli che esistono tra loro. (…) Quando vado in una comunità indigena in cui vi è uno sciamano e ministri di vari tipi,  mi domando cosa dobbiamo portare ai nostri ministeri, ai ministeri che abbiamo acquisito con la Chiesa occidentale. (…) Dovremmo spogliarci di quanto abbiamo, che è chiuso nei sacramenti. Riflettere su ciò che è sacramento, su ciò che è liturgico”[42].
Un’applicazione “moderata” di questo “spogliarsi” sarebbe ad esempio sostituire il pane e il vino della “Cena del Signore” con alimenti locali, come viene implicitamente suggerito nel film L’anello di tucum, promosso dalle comunità ecclesiali di base, la cui scena finale è una celebrazione presieduta da una donna, dove vengono condivisi alcuni pasticcini di yucca e acqua di cocco mentre appare fugacemente sullo sfondo un calice sormontato da un’ostia.
Tale eventualità è stata evocata alla fine di una riunione sul sinodo, a Roma, dal teologo brasiliano Francisco Taborda, professore presso l’università gesuita di Belo Horizonte e autore di vari libri sui sacramenti. Intervistato dal giornale digitale Crux, il gesuita ha dichiarato che durante il sinodo potrebbe sorgere il tema della “possibilità di sostituire il pane usato nella consacrazione dell’Eucaristia con la yucca”, visto che a causa dell’umidità dell’Amazzonia il pane “si trasforma in una poltiglia pastosa”. Benché cambiare la materia dell’Eucaristia sia “una questione molto complessa”, padre Taborda pensa che ciò debba essere lasciato alla decisione del vescovo locale[43].
La soluzione radicale è semplicemente sostituire i nostri sacramenti “occidentali” con i segni sensibili usati dagli stessi aborigeni per entrare in “comunione” con il cosmo. Ad esempio la ayahuasca. È quanto sembra suggerire una missionaria laica polacca, suor Dominik Szkatula, che ha detto: “Nelle costituzioni della Chiesa ci viene detto che non vi è comunità cristiana senza Eucaristia. È alquanto umiliante [per gli indigeni], sostenere che [le comunità native] sono incomplete. Vi sono forme differenti attraverso le quali le gente comunica con Dio. Immagina la mia sorpresa quando, stando già da tempo qui [in Perù], un giovane indio mi ha detto: ‘Noi comunichiamo con Dio attraverso la ayahuasca’. Perché no? Attraverso le piante, sono più vicine. Nei nostri paesi [europei] diciamo: ‘Andrò a riposarmi tra la natura’. Qui invece ce l’hanno dentro, e comunicano con le piante, sulla montagna. (…) Ciò che noi contempliamo nelle cappelle, nel Santissimo, essi lo contemplano in altra forma, anch’essa buona”. E conclude affermando che se si pensa che scopo del sinodo sia rendere la Chiesa più forte in Amazzonia, “avere più seminari, clericalizzare e sacramentalizzare, sarà un fallimento”[44].
Le “mistiche” indigene che si stanno realizzando nelle riunioni preparatorie del sinodo sembrano indicare che il cammino promosso da una parte dei partecipanti sarà piuttosto quello di fare largo alla stregoneria nelle celebrazioni liturgiche cattoliche.
Viene alla mente la frase di San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (2 Cor 6,15): “Quale intesa tra Cristo e Beliar, o quale collaborazione tra un fedele e un infedele?”.
José Antonio Ureta
______________
Note
[7] Vedere Jean Mpisi, Le Cardinal Malula et Jean-Paul II: Dialogue difficile entre l’Église « africaine » et le Saint-Siège, L’Harmattan, Paris, 2005.
[11] Pp 9-10.
[12] Mauro Gandolfo, Presidenza eucaristica e presidenza della comunità nel dibattito teologico recente, tesi di laurea, Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, p. 9-10, 11.
[13]https://dspace.ups.edu.ec/bitstream/123456789/12939/1/EVANGELIZAR%20DESDE%20LOS%20PROYECTOS%20HISTORICOS%20DE%20LOS%20OTROS.pdf
[14] Jean Mpisi, op. cit. p. 228.
[15] Ibid., p. 229.
[16] Ibid.
[17] Ibid.
[18] Ibid., p. 230.
[19] Ibid,. p. 234.
[21] N° 48.
[22] Agencia DICI, 25.10.2003.
[23] Le Figaro, 14.10.2005.
[28] N° 15.
[29] Idem.
[30] III Parte, n° 3.
[31] N° 122.
[32] N° 94.
[33] N° 98.
[34] N° 125.
[35] Nn° 126 e 128.
[36] N° 126.
[37] N° 126.
[38] N° 104.
[39] N° 6.
[40] N° 87.
[41] N° 88.

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