A seguito della sottrazione delle statue della dea Pachamama dalla chiesa di Santa Maria in Traspontina, buttate poi nel Tevere, Papa Francesco, come vescovo della diocesi di Roma, ha chiesto perdono alle persone che sono state offese da quel gesto. A tal proposito, dom Giulio Meiattini, monaco benedettino e teologo, già noto su questo blog, mi ha inviato la seguente riflessione che volentieri pubblico.
di Giulio Meiattini
E’ ben nota la posizione di S. Paolo riguardo all’atteggiamento verso il culto agli idoli abbondantemente venerati in tutta l’estensione dell’Impero Romano, con commistioni di ogni tipo. Egli, su questo punto, non fa che riprendere e confermare uno dei punti centrali della tradizione giudaica, che condannava recisamente ogni pratica di carattere idolatrico in nome di un monoteismo che si era affermato progressivamente e non senza fatica nella storia di Israele. S. Paolo, dunque, aderendo a questa lunga tradizione anti-idolatrica, ai Corinzi comanda, senza mezzi termini:
“Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria. Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?” (1 Cor 10,14-22).
Dopo aver chiarito il punto dottrinale in modo categorico, l’Apostolo affronta una questione di carattere pratico, con un approccio che noi oggi chiameremmo di teologia morale o di pastorale, relativamente a un caso che poteva presentarsi frequentemente in un contesto ancora del tutto pagano. Il problema riguardava la commercializzazione delle carni degli animali che erano stati prima sacrificati agli déi durante i riti a loro dedicati. Queste carni venivano poi immesse, almeno in parte, sul mercato. La minoranza cristiana poteva così trovarsi a comprare anche carne proveniente da questi culti oppure un cristiano, invitato a pranzo da un conoscente pagano, poteva vedersi servita a tavola della carne di questo genere. Cosa fare in questi casi?
Senza addentrarci in tutti i dettagli dei capp. 8-10 della prima lettera ai Corizi, diciamo semplicemente che S. Paolo ritiene che in tali circostanze i cristiani possano mangiare liberamente di queste carni, perché la loro assunzione viene fatta al di fuori di ogni contesto cultuale pagano e dunque non è in contraddizione con la professione di fede nell’unico Dio e nell’unico Signore Gesù Cristo: “Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio” (8,8). E ancora: “Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare (la provenienza) per motivo di coscienza, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza” (10,25-27).
Tuttavia S. Paolo pone un limite a questa libertà (libertà non di partecipare ai sacrifici, ma al consumo delle carni che ne derivavano). Se qualcuno, dalla coscienza un po’ più scrupolosa, si sentisse turbato o scandalizzato vedendo un fratello mangiare questo tipo di cibo, allora è preferibile astenersene, sebbene l’azione, in se stessa, non sia contraria alla fede: “Ma se qualcuno vi dicesse: “È carne immolata in sacrificio”, non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza” (10,28-33).
In altre parole, l’Apostolo pur lasciando libertà in questo campo, si preoccupa di non creare confusione. Qualcuno, di fede meno forte e di coscienza più debole, avrebbe potuto essere tratto in inganno dal comportamento più libero di alcuni “che hanno la conoscenza”, giungendo a pensare che si possa ancora partecipare ai culti pagani; oppure, indotto a consumare di quelle carni dall’esempio altrui, ma con una coscienza non certa ed esitante, avrebbe potuto sentirsi poi colpevole di aver commesso qualcosa di non lecito, cadendo in confusione. A motivo di questi e altri rischi, S. Paolo dà un’importante direttiva: è meglio astersi da questi comportamenti, in sé non sbagliati, ma che potrebbero indurre nell’errore o nello scandalo.
“Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello” (8,9-13).
Da qui il principio generale che in questo contesto viene formulato: anche qualora un comportamento fosse in sé lecito, perché non idolatrico, bisogna avere ogni precauzione di evitarlo se può confondere la coscienza di alcuni fratelli. E a coloro che rivendicavano la “liceità” della loro libertà di comportamento in merito, l’Apostolo dice: «“Tutto è lecito!”. Sì, ma non tutto giova. “Tutto è lecito!”. Sì, ma non tutto edifica» (10,23).
Alla luce di questa lunga premessa biblica (cose arcinote, ma qui necessariamente richiamate) merita un breve commento quanto il Santo Padre Francesco ha detto, pochi giorni fa, a proposito della rimozione operata da ignoti (ma di cui è chiara la fede cristiana) delle statue lignee della dèa Pachamama dalla chiesa di S. Maria in Traspontina e del loro tuffo nel Tevere. Rivolgendosi ai padri sinodali egli ha detto: “Vi vorrei dire una parola sulle statue della Pachamama che sono state tolte dalla chiesa nella Traspontina, che erano lì senza intenzioni idolatriche e sono state buttate al Tevere. Prima di tutto questo è successo a Roma e come vescovo della diocesi io chiedo perdono alle persone che sono state offese da questo gesto”.
Il papa dunque chiede perdono a certe persone per le quali, evidentemente, queste raffigurazioni hanno un valore particolare, di carattere religioso e simbolico. La domanda che sorge, a questo punto, è se il Santo Padre ha riflettuto sul fatto che la collocazione delle statuette, dopo adeguata processione a sfondo devozionale, in una chiesa cattolica aperta al culto, ha dato dispiacere anche e soprattutto a moltissimi cattolici in tutto il mondo, oltre che nella sua diocesi romana. Non solo, ma dato il carattere pagano o paganeggiante delle immagini e dei riti di contorno, c’è chi ne ha dedotto che adesso la Chiesa accoglie immagini e riti pagani nei suoi spazi di culto o comunque approva chi li compie.
A queste sorelle e a questi fratelli disorientati o sbigottiti o indotti in errore, chi chiederà perdono? E da dove verrà una parola chiara e insieme attenta a non scandalizzare e a ribadire che idolatria e politeismo non sono compatibili col cristianesimo? Si meditino bene le parole dell’Apostolo delle genti: “Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo” (8,12).
Di Sabino Paciolla
https://www.sabinopaciolla.com/a-questi-fratelli-e-a-queste-sorelle-disorientati-o-sbigottiti-o-indotti-in-errore-chi-chiedera-perdono/
Una certa mentalità, diffusa nella Chiesa, pretende di assorbire ogni elemento, che proviene dalle religioni e dalle culture, come buono e utile al progresso umano. Ma in molte delle tradizioni culturali e religiose sono ancora presenti sensibilità pagane, che introducono prassi idolatriche e dannose alla fede.
«Neque figuras aliquas in cute incidetis», «né vi farete segni di tatuaggio», ordina Dio per mezzo di Mosè, in Levitico 19, 28. Questa pericope non è isolata, ma è parte delle prescrizioni dei capitoli 18 e 19: in esse Dio intende affrancare Israele dal paganesimo. E, specialmente, dall’idolatria e dalle pratiche sessuali dei pagani: «Non farete come si fa nel paese d’Egitto dove avete abitato, né farete come si fa nel paese di Cànaan dove io vi conduco, né imiterete i loro costumi» (Lev 18, 3).
E quali sono i costumi pagani d’Egitto e di Cànaan, in abominio al Signore? L’accoppiamento sessuale al di fuori del matrimonio – con fratelli, sorelle, consanguinei, genitori, parenti, o l’omoerotismo – e la promiscuità in genere (cap. 18). Quanto alla morale e all’idolatria: fabbricazione degli idoli e loro culto, furto e menzogna, odio e vendetta, truffe commerciali, divinazione, magia, negromanzia, incisioni e disegni sul corpo (tatuaggi), prostituzione sacra (cap. 19).
È in abominio, specialmente, la trasgressione del primo comandamento del Decalogo: «[…] non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Es 20, 2-5).
Sarebbe in errore chi pensasse che tutto ciò riguardi solo alcune prescrizioni transitorie, limitate all’Antico Testamento. Nel Vangelo, il Decalogo non è per nulla abolito. Gesù, rivolto a Satana, gli comanda: «Adora il Signore Dio tuo e a Lui solo rendi culto» (Mt 4, 10). E ancora, dice al ricco: «Si vis ad vitam ingredi, serva mandata» – «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17).
San Paolo, in Rom 1, 22-23, ha parole severe contro l’idolatria: «Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili». Il delitto contro il primo comandamento ha conseguenze gravi, al punto da sconvolgere tutto l’ordine della natura umana: «Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; le loro donne hanno cambiato i rapporti naturali in rapporti contro natura. Egualmente anche gli uomini, lasciando il rapporto naturale con la donna, si sono accesi di passione gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi uomini con uomini […]» (vv. 26-27).
Il problema, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, è che «l’idolatria respinge l’unica Signoria di Dio; perciò è incompatibile con la comunione divina» (n. 2113). L’idolatria è il «divinizzare ciò che non è Dio». Non solo, quindi, è idolatra chi adora le statue e i feticci, ma chi divinizza qualsivoglia creatura. In questo senso ogni cosa o persona, o situazione della nostra vita può divenire un idolo: i figli, il lavoro, il coniuge, i beni, le abitudini, le passioni. Idolatra è colui che «riferisce la sua indistruttibile nozione di Dio a chicchessia, anziché a Dio», dice Origene in Contra Celsum.
Paradossalmente, Dio stesso può diventare un idolo, come accadde nella vicenda del vitello d’oro ai piedi del Sinai, ad esempio (Esodo, cap. 32). Secondo una certa esegesi, gli israeliti (assieme ad Aronne), non credettero di fare un male, quando forgiarono il vitello d’oro e lo adorarono. Infatti, nel paganesimo, il vitello d’oro rappresenta il trono di Dio. Israele, con il vitello, voleva semplicemente fare un trono a YHWH.
Ma l’adorazione del vitello d’oro è idolatria, non per il fatto che è stata fatta un’immagine di Dio o del suo trono, ma perché il concetto che di Dio si fece Israele era del tutto errato. Un Dio, cioè, dei pagani, un Dio tra molti altri dei, un Dio che approva le orge in suo onore: qua è l’idolatria e non nell’immagine.
E, allora, l’idolatria non è soltanto l’adorazione di una divinità morta, che non è Dio, ma anche il farsi un’idea errata del Dio vero, associandolo alle proiezioni del nostro capriccio. In questo caso, il peccato consiste nel dare a Dio i connotati che scegliamo per lui, in modo arbitrario, rifiutando – allo stesso tempo – di ascoltare quanto Lui stesso dice di sé, nella Rivelazione.
Il discorso attorno alle religioni è sempre stato assai delicato, specialmente quando non sono ben chiari i concetti di “religione”, “cultura” o “inculturazione”. Un conto è investigare sui «semina Verbi» («Logoi spermatikoi»), di cui parlava San Giustino, ovvero sui giudizi di verità della filosofia o nelle religioni. Un altro conto è dimenticare che la salvezza non è conseguente ad un certo numero di giudizi veri, di cui si viene a conoscenza, ma alla pienezza della verità, che scaturisce solo da Gesù Cristo.
Romano Amerio scriveva, nel merito: «quelle che noi chiamiamo abitualmente “altre religioni”, nel Sacro Testo […] Dio insegna a chiamarle prostituzioni, indicandone il principio che le genera non tanto nella retta, buona e lodevole “ricerca di Dio”, ma nella cattiva piegatura del cuore dell’uomo sul proprio pensiero indipendente dal pensiero di Dio», cioè la «propria vanità» (Stat Veritas, Lindau, 2009).
Quanto poi all’«inculturazione della fede», come Luisella Scrosati ha spiegato, «la vera inculturazione è il seme cattolico che si innesta nella tradizione pagana, non il contrario». La fede teologale non distrugge le culture, ma nemmeno si lascia distruggere da esse. La cultura va preservata solo laddove essa non è contraria alla fede, nei suoi elementi costitutivi. Viceversa, le culture devono essere purificate da quegli elementi d’idolatria o d’immoralità, che spesso veicolano.
Se l’evangelizzazione ha un senso, questo non può essere inteso come assorbimento di ogni elemento che provenga dal mondo e dalle sue tradizioni spirituali e culturali. Se poi evangelizzare non significa distruggere il patrimonio delle culture, non significa però nemmeno farsi evangelizzare, ovvero convertirsi ad una qualche buona novella predicata dallo stregone di turno.
di Silvio Brachetta
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