Indigeni nella foresta
di Pierluigi Pavone
  • 1. La prigione del tempo
Alcuni – influenzati dalla cultura New-Age e dalla teologia della liberazione – hanno l’idea che Adamo sia stato un ingenuo e innocente buon selvaggio. In linea col pensiero illuminista di Rousseau, quando determina la storia come corruzione dell’uomo nella sua santità naturale, a causa della famiglia e della proprietà. Rispetto ad una situazione idilliaca di armonia e nomadismo.
In realtà Adamo era tutt’altro, nella pienezza della sua facoltà, in uno stato di santità preternaturale dovuta alla Grazia divina. Aveva cioè sia il pieno e corretto uso della sua ragione e quindi la sottomissione degli istinti, sia i doni dovuti dalla Grazia. Quindi possedeva i doni naturali, in termini di anima immortale, razionalità, volontà e libertà. Rispetto a ciò si distinguono i doni sovrannaturali, disposti da Dio per conseguire il fine della sua stessa creazione. Non era infatti destinato a rimanere nel paradiso terrestre. Ma era stato creato per la beatitudine celeste.
Al contrario, il buon selvaggio non è mai esistito. Ed è un concetto anti-cattolico. Il buon selvaggio è infatti l’utopia del passato remoto.
L’utopia moderna si sviluppa infatti in tre modi. È essenzialmente un’idea. Una fantasia, una astrazione della ragione. Una trovata letteraria per criticare la relativa contemporaneità sociale. Solitamente la sensibilità è comunistica, cioè senza proprietà privata. Tutti sono felici, in perfetta armonia. Non esiste la dimensione temporale. Non c’è storia. Si tratta di un’istantanea immutabile. Nessuno si ribella, ma tutti sono conformati liberamente e spontaneamente ad un pensiero unico. In santità naturale senza Dio, senza Grazia. O come nella Città del Sole (scritta dal domenicano Tommaso Campanella, quattro secoli prima dell’ideologia ambientalista), in cui “cristianamente” si nega la colpa del peccato originale e si sostituisce – sull’altare – il crocifisso con un Mappamondo!
Rispetto a questa astrazione a-storica, dall’illuminismo in poi l’utopia viene storicizzata e contestualizzata nel progresso. Non come speranza o illusione. Ma come programma reale. I rivoluzionari americani, i giacobini, i bolscevichi credono nell’avvento certo del nuovo ordine mondiale. Nell’età definitiva per l’uomo, sulla terra. Nel momento di auto-redenzione, di liberazione assoluta. Per Marx, l’oligarchia del capitale, la proletarizzazione delle masse, la saturazione del mercato avrebbero garantito – senza ombra di dubbio – la sovversione dell’internazionale proletaria. Per i capitalisti della finanza internazionale, dopo la caduta del Muro di Berlino, non c’è più ostacolo alla globalizzazione.
Questa contestualizzazione dell’utopia nel futuro ha una eredità gnostica.
Nella misura in cui – dal XVII secolo (il secolo della formazione delle logge massoniche) – viene recuperata l’antica dottrina del mondo-prigione, il concetto di prigione viene modificato da prigione spaziale (il mondo creato dal Dio malvagio) a prigione temporale: il passato e il presente diventano il male, il secolo da distruggere, per costruire sulle sue macerie il mondo nuovo. Questo slittamento da prigione spaziale a prigione temporale, legittima la rivoluzione. Prima quella inglese alla fine del 1600, quindi per tutto il 1700 nelle colonie inglesi e in Francia. Da qui alla Nuova Europa, fino alla I Guerra Mondiale (in cui si verifica la rivoluzione comunista). Quindi con la prospettiva internazionalista di stampo socialista e capitalista.
  • 2. Il mito del selvaggio buono
Prima di questa generale contestualizzazione, un illuminista sui generis – Rousseau – colloca l’utopia sempre nel tempo, ma nel passato. Leggendo la storia come regresso e corruzione, suppone che l’uomo sia stato innocente e naturalmente santo. Non crede che l’uomo sia cattivo per natura, come crede Hobbes. Rousseau è convinto che la cattiveria sia un prodotto sociale, l’effetto della rivoluzione agricola, della famiglia e della proprietà. Prima di Marx e prima della rivoluzione sessuale del 1968, si pongono famiglia e proprietà come elementi corruttivi.
E così Rousseau inventa il mito del buon selvaggio. Un’idea totalmente anti-cattolica. Apparentemente simile al racconto biblico. Subdolamente perversa. Da qui l’idea che la stessa evangelizzazione sia un’opera di profanazione di questa naturale e santa innocenza selvaggia.
È certamente vero che l’uomo è l’unico animale che trascende se stesso. Differisce dalla bestia per la sua essenza religiosa. Ad affermarlo non è un cristiano. È Feuerbach, colui che ha ricondotto la religione a creazione inconscia dell’uomo. L’uomo – proprio per la sua dimensione religiosa – si rapporta all’infinito, ponendolo come Dio, quando in realtà non è altro che se stesso. L’umanità intera. L’uomo, relazionandosi con se stesso, con le proprie paure e speranze, avendo coscienza e percezione dell’infinito, infinitizza caratteristiche umane e le proietta in divinità che lui stesso crea.
Perché?
Adamo è stato creato da Dio con peculiarità previste dalla sua stessa natura umana. Contro quello che pensa l’umanesimo gnostico-cabalistico, Dio crea l’uomo con una essenza data, definita e orientata. In quanto uomo, cioè, Adamo ha un’anima immortale, l’uso della ragione e della volontà. È un essere libero. Non basta. Dio dona all’uomo anche doni preternaturali. Vale a dire, Adamo possiede per Grazia dei doni che lo rendono capace di accedere al Paradiso Celeste, cioè il fine per cui è stato creato: la scienza infusa, il dominio delle passioni, l’immunità dalla morte e dal dolore. Per mezzo della Grazia, può raggiungere la visione beatifica. Ovvero, è stato creato nel paradiso terrestre, dotato di peculiarità proprie della sua natura e con doni sovrannaturali, perché potesse accedere al Paradiso Celeste.
Con il peccato originale ha perso la Grazia e ha corrotto la sua stessa natura.
Quindi, non solo non può risiedere nel paradiso terrestre e ovviamente non può più accedere al Paradiso celeste, ma – ora – la sua ragione è ferita. Intuisce l’esistenza di Dio, cerca la verità. Ma il disordine del peccato accompagna i suoi ragionamenti e la sua spiritualità.
Non è costretto al male e la sua ragione non è serva di satana come vuole Lutero. Tuttavia, se sul piano della razionalità conserva la possibilità logica, come la filosofia greca dimostra (ma a ben guardare è l’unica eccezione), sul piano della religiosità la situazione è ancora più compromessa. Sul piano della religiosità infatti, specialmente in questo ambito, la presenza e il dominio satanico è più acuto, più sensibile, più generale. Satana attacca soprattutto le passioni, la concupiscenza. E la spiritualità. Proprio perché l’uomo si apre all’infinito, lì Satana deforma, illude, fino a farsi adorare in culti pagani. Fino a creare o incentivare false religioni, superstizioni spirituali.
 A causa del peccato, religiosamente non raggiunge più Dio. I suoi culti sono pratiche superstiziose, che non hanno elementi di verità da conciliare o purificare. Hanno elementi falsi da rinnegare. O addirittura da esorcizzare. Il selvaggio, allora, nel suo paganesimo è totalmente in errore. Cristo non legittima queste religiosità, aggiungendo un di più. Esattamente come la Grazia non si aggiunge ad una natura incontaminata. Certamente la Grazia presuppone la natura. E quindi la ragione umana è restata aperta alla ricerca di Dio. Ma è altrettanto vero che la Grazia guarisce la natura dal peccato.
Chi guarirà il peccato del selvaggio? Chi lo convertirà facendolo rinnegare il suo paganesimo e la sua falsa religione? Chi esorcizzerà l’intero popolo e l’intera cultura a cui appartiene? Forse bisognerebbe chiederlo ai martiri canadesi. Ma perché versare il sangue se bastava armonizzare i culti pagani con quelli cattolici? Perché la Croce se basta la fratellanza? Perché pagare il debito antico, “scomodando” la seconda Persona della Trinità, se in fondo non c’è colpa, ma santa innocenza?
Il buon selvaggio è la contraddizione del Sacrificio sulla Croce. Allo stesso modo Cristo, unica via, verità e vita è la contraddizione delle false alienazioni religiose e dei culti demoniaci.