Ecco la causa ultima della nostra debolezza. Il caso paradigmatico del liceo Marco Polo: quando le cose prendono una brutta piega anche i "Compagni" chiamano in aiuto polizia e carabinieri benché li detestino con tutto il cuore
di Francesco Lamendola
Probabilmente nel resto d’Italia non ne è arrivata neppure un’eco, e anche nel Veneto, dove il fatto è accaduto, non se n’è parlato molto, complici, come al solito, i mass media di regime: così solleciti a dare e ingigantire le notizie quando sono gradite alla sinistra, e così restii, per non dire reticenti, quando si tratta di notizie che a quella parte politica potrebbero dispiacere. Pure si è trattato, a nostro avviso, di un caso addirittura paradigmatico, che dice assai più cose di quel che potrebbe parere di primo acchito: spiega, a ben guardare, le ragioni ultime e profonde della nostra debolezza come Paese, della nostra inconsistenza come nazione, della nostra incompiutezza come popolo.
E non si venga a dire che, nella fase storica attuale, questo è il destino di quasi tutti gli Stati, tranne le superpotenze; perché Stati che hanno una popolazione e un peso economico pari al nostro – la Francia, per esempio - difendono, con coerenza e risolutezza, i loro interessi vitali e il loro posto nel mondo, si fanno rispettare e godono di una considerazione ben superiore alla nostra: quindi la ragione della nostra insignificanza politica sul piano internazionale, e della nostra estrema fragilità politica e sociale sul piano interno, hanno a che fare con le nostre divisioni, con i nostri feroci antagonismi, e specialmente con la frattura, ormai divenuta voragine, fra la cultura delle classi dirigenti e il modo di vedere e di sentire della stragrande maggioranza delle persone comuni. Frattura che si è ben vista, del resto, lo scorso 27 ottobre, nelle elezioni amministrative della regione Umbria, dove i due partiti di governo, ideologicamente orientati a sinistra, hanno registrato un flop di dimensioni clamorose e gli elettori, che da mezzo secolo votavano per la sinistra, hanno dato un formidabile segnale di discontinuità, orientandosi verso la Lega e Fratelli d’Italia, due partiti che la cultura dominante, in Italia come in Europa, descrive come sovranisti, populisti, xenofobi, e quindi politicamente pericolosi e moralmente discutibili, nonché incompatibili – dicono il signor Bergoglio e la sua corte di sedicenti vescovi e preti di strada, in una strana identità di vedute con Soros, Juncker, Moscovici – con il vero cristianesimo.
Il liceo classico oggi? I frutti deleteri del '68 e del sei politico sono giunti fino a oggi, sotto forma di professori poco preparati nelle loro discipline, ma in compenso fin troppo imbottiti di ideologia progressista, i quali, occupano il tempo delle loro lezioni parlando sempre meno di greco, latino e filosofia e sempre più di migranti, diritti omosessuali e lotta alla discriminazione e agli stereotipi di genere!
In breve, il fatto è questo. Al liceo classico veneziano Marco Polo, in prossimità della ricorrenza del 4 novembre, giornata dell’Unità nazionale e delle Forze Armate, il preside aveva invitato a parlare, per le classi dell’ultimo anno, due ufficiali appunto delle Forze Armate, uno della Marina e uno della Guardia di Finanza. Apriti cielo, i professori di sinistra hanno sobillato i loro alunni e tutti insieme hanno levato vibrate proteste contro l’iniziativa guerrafondaia, appellandosi all’articolo 11 della Costituzione, nel quale si afferma che l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Che cosa c’entra l’articolo 11 della Costituzione con il fatto che due militari si rechino in una scuola statale per parlare agli studenti delle Forze Armate, del loro ruolo e della loro storia, e in che cosa la loro presenza recherebbe offesa al suddetto articolo, o ne violerebbe la lettera o lo spirito, non si capisce molto bene. Del resto, è palese quale sia il vero nodo della questione: l’insofferenza, l’antipatia, diciamo pure l’avversione, se non proprio l’odio atavico e viscerale, delle persone semicolte di sinistra nei confronti delle Forze Armate e delle Forze dell’Ordine: come si vede dai commenti che rilasciano a caso ogniqualvolta queste si trovano al centro di drammatici fatti di cronaca e pagano il loro tributo di sangue sul campo del dovere.Chi non ricorda lo slogan Dieci, cento, mille Nasssiriya, scanditi nei cortei della sinistra all’indomani dell’attacco terroristico in Iraq del 12 novembre 2003, nel quale morirono 25 italiani fra soldati, carabinieri e civili.? E chi non sa che dopo l’uccisione del carabiniere Cerciello, a Roma, la notte fra il 25 e il 26 luglio scorso, subito c’è stato chi ha commentato con soddisfazione il fatto suisocial? Sia come sia, vista la presa di posizione di un gruppo di professori e degli studenti di una classe, il preside ha fatto parzialmente dietrofront e ha precisato che assistere all’incontro con i due ufficiali non era obbligatorio, bensì facoltativo. Risultato: l’incontro medesimo è stato sostanzialmente snobbato dalle scolaresche. Soddisfazione dei professori di sinistra e dei loro alunni, i quali si sono fatti schermo della tesi che l’incontro non sarebbe stato in linea con le finalità educative dell’istituto; rabbia dell’assessore scolastico regionale, che ha preannunciato l’invio di ispettori e ha bollato con parole di fuoco i docenti che si sono resi protagonisti dell’episodio.
Chi non ricorda lo slogan Dieci, cento, mille Nasssiriya, scanditi nei cortei della sinistra all’indomani dell’attacco terroristico in Iraq del 12 novembre 2003 e fu il poliziotto Calipari a sacrificare la vita per salvare la giornalista di sinistra Giuliana Sgrena: quando le cose prendono una brutta piega, anche i "Compagni" chiamano in aiuto la polizia o i carabinieri, benché li detestino con tutto il cuore...
Questo, in estrema sintesi, il fatto. Abbiamo detto che esso è profondamente rivelatore di una debolezza di fondo della società italiana e di un divario incolmabile fra classe dirigente e popolo. Il liceo classico, da più di un secolo, è il laboratorio principe della futura classe dirigente, la cinghia di trasmissione fra le generazioni di chi detiene il potere. Quasi tutti i politici di carriera, e gran parte dei giornalisti e degli intellettuali che contano, provengono dai banchi del liceo classico. È quindi assai significativo che il rifiuto di ascoltare i militari in una scuola statale sia venuto da un liceo classico e non da un istituto tecnico o commerciale: è lì che i bravi figli di papà, quelli che nel ’68 si sono immaginati di aver fatto una quasi rivoluzione, mentre hanno fatto solo un caos vergognoso, i cui frutti amari continuano a provocare danni ancora oggi, a cinquant’anni di distanza, covano i loro sogni di palingenesi universale; ed è lì che contraggono, o rafforzano mirabilmente, quella odiosa puzza sotto al naso per cui si credono una spanna al disopra di chiunque altro, non solo intellettualmente ma anche moralmente; è lì che i signorini di sinistra apprendono a disprezzare il popolo, anche se, a parole e in teoria, sono dalla sua parte e vogliono prenderne le difese.
Sinistri post-sesantottini in caduta libera? Laura Boldrini e papa Bergoglio ormai vengono percepiti dalla gente comune come ininfluenti strumenti dei poteri forti della finanza internazionale: le elezioni Europee e quelle in Umbria lo stanno ampliamente a dimostrare!
Non si sono peraltro accorti che la Guerra fredda è finita da trent’anni, che il comunismo è caduto per sempre nella polvere, che l’egemonia culturale della sinistra poggia ormai sul nulla ed è fatta di aria fritta; e che la sinistra stessa, a livello politico ma anche a livello intellettuale, ha scelto di trasformarsi nel volonteroso strumento dei poteri forti della finanza internazionale, e di passare dalla difesa dei lavoratori più deboli contro il capitale, alla difesa dei diritti civili, specie in ambito sessuale, contro le discriminazioni e gli stereotipi, nonché quella degli invasori afroislamici fatti passare per profughi, che è di fatto diretta, contro gli italiani poveri e sempre più impoveriti, dei quali ha praticamente smesso di occuparsi, se non per stigmatizzare i loro rigurgiti neofascisti e addirittura neonazisti e la loro intolleranza omofoba e razzista. E infatti l’ultima trovata di questa sinistra, in ordine di tempo, è la recentissima proposta di legge presentata dall’onorevole Laura Boldrini contro l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’istigazione all’odio e alla violenza: una legge che, qualora venisse approvata dal Parlamento, verrebbe usata come uno strumento di repressione contro chiunque si azzardi a difendere l’Italia dall’invasione africana o contro chiunque si permetta di dire che un bambino ha bisogno di una mamma e un papà e non di due papà o due mamme, ossia come strumento di repressione ideologica.
Liceo Classico alla deriva? Altro che greco, latino o filosofia: oggi, molti docenti "ideologizzati", portano le loro scolaresche in viaggio d’istruzione a Lampedusa, per far vedere agli studenti i luoghi dell’invasione fatta passare per accoglienza umanitaria!
La signora Boldrini, sia detto per inciso, si è diplomata, come del resto la maggioranza dei suoi colleghi parlamentari, presso il liceo classico; salvo poi lavorare alcuni anni presso le Nazioni Unite, nello specifico alla F.A.O., dove ha ricevuto l’ultima mano di vernice europeista, internazionalista, mondialista, acquisendo una mentalità che è lontana mille miglia da quella del cittadino italiano comune, in particolare da quella dell’artigiano, del piccolo commerciante o del piccolo imprenditore, i quali non riescono a capire perché lo Stato si occupi e si preoccupi sempre di qualcun altro, finanche dei clandestini che delinquono sul nostro territorio, e mai degli italiani che lavorano, producono, creano occupazione, pagano le tasse, rispettano le leggi, ma sono lentamente strangolati da una politica economica che li tratta con sospetto, diffidenza, malanimo o, nel migliore dei casi, con perfetta indifferenza. Valga per tutti il caso della recente proposta del governo giallo-fucsia di varare misure draconiane contro gli evasori fiscali, individuati come il nemico pubblico numero uno, laddove codesti terribili evasori non sono i grandi capitalisti che impunemente trasferiscono all’estero i loro capitali, ma il macellaio, il panettiere, l’idraulico o il muratore, cioè quei commercianti e quegli artigiani che per il solo fatto di esistere fanno montare in furore i signori della sinistra, come quando si agita un panno rosso davanti al toro nell’arena. Qualcuno, infatti, ricorda che il governo italiano abbia chiesto al signor Marchionne, quando la FIAT trasferì all’estero sia le fabbriche sia la sede legale, andando così a pagare le tasse altrove, la restituzione all’Italia delle fortissime somme devolute dallo Stato a favore dell’industria torinese nel corso di anni e decenni? Questo è quel che intendevamo quando abbiamo detto che altri Stati, bene o male, pur nell’ottusa ottica neocapitalista attuale, cercano di fare almeno un poco l’interesse nazionale; da noi, i governi (specie di sinistra) si distendono come lacchè sui comodi e gli interessi delle grandi banche private e della grande industria privata. E tanto peggio per quel che rimane dell’industria pubblica e delle casse di risparmio che non hanno finalità speculative: vale a dire tanto peggio per i lavoratori e per i risparmiatori italiani, le cui egoistiche preoccupazioni non hanno a che fare coi diritti dei clandestini o degli omosessuali, ma con la piatta, banale, prosaica necessità di sopravvivere.
Perchè i mass media di regime sono così solleciti a dare e ingigantire le notizie quando sono gradite alla sinistra, e così restii, per non dire reticenti, quando si tratta di notizie che a quella parte politica potrebbero dispiacere!
Ecco la causa ultima della nostra debolezza
di Francesco Lamendola
continua su:
http://www.accademianuovaitalia.it/index.php/contro-informazione/lo-smemorato-siberiano/8035-la-causa-della-nostra-debolezza
https://www.sabinopaciolla.com/il-risveglio-canadese-di-moloch/
Ragazza sana chiede a 23 anni l’eutanasia
di Giorgia Brambilla
Manco a farlo apposta, nel giorno in cui fanno festa streghe, zombie e vampiri, apprendiamo la notizia (qui) di una legge mostruosa, che prende le sembianze di un moderno Moloch, che permetterà l’eutanasia dei bambini disabili.
Già da un anno l’eutanasia in Canada è legale; ora la scelta di farla finita viene messa in mano ai genitori che possono decidere della vita del figlio (in fondo, è una loro proprietà, no?) disabile (parola che da sola può comprendere un pantone di sfumature infinite) che soffre terribilmente (e come si fa a “misurare” la sofferenza?).
Però queste sono le leggi del mercato: se sulla morte aumenta la domanda (così avrebbero dichiarato i pediatri canadesi), aumenta anche l’offerta. E poiché nel caso dei bambini non si può parlare ancora di “libera scelta”, quale può essere il criterio se non la disabilità?
In realtà, sull’eliminazione del figlio “imperfetto” si sta lavorando da parecchio tempo.
Già nel 1992, dal rapporto “Fare o omettere” dell’Associazione Pediatrica Olandese, risultò che un certo numero di pediatri considerava lecito porre fine alla vita di neonati in ragione della possibilità che la qualità della vita dopo un intervento intensivo potesse essere minacciata da anomalie.
Nel 2004, Eduard Verhagen, primario del reparto di pediatria dell’Ospedale Universitario di Groningen, elaborò un protocollo per regolamentare l’intervento per abbreviare la vita dei neonati in tre casi: 1. bambini che non hanno la possibilità di sopravvivere e che moriranno poco dopo la nascita; 2. bambini con una diagnosi negativa che sono dipendenti da una terapia intensiva (possono sopravvivere con una terapia intensiva, ma posseggono prospettive sfavorevoli riguardo la vita futura); 3. bambini con una prognosi disperata e che, secondo l’opinione dei genitori e dei medici, “soffrono in modo insopportabile”.
Ci concentriamo sul terzo punto. È questo il caso di neonati che non hanno bisogno di una terapia intensiva, ma che avranno, con forte probabilità, una qualità di vita ridotta, anche a seguito di numerose operazioni. Nell’articolo di Verhagen-Sauer (The Groningen Protocol. Euthanasia in Severely Ill Newborns, in “New England Journal of Medicine”, 352/2005, pp.959-962.) veniva citato uno studio effettuato su 22 casi di soppressione della vita di infanti di età inferiore ai sei mesi nei Paesi Bassi. In tutti i casi si trattava di neonati con spina bifida e i motivi della soppressione riguardavano la sofferenza e la mancanza di autosufficienza (totalità dei casi), la mancanza di comunicazione verbale e non verbale (18 casi), la dipendenza dall’ambito medico per ricoveri e interventi chirurgici frequenti (7 casi) e la previsione di una breve durata della vita (13 casi).
Sintetizzando di molto il problema etico, dovremmo chiederci: il medico che si trova a porre fine alla vita di un determinato neonato è nella circostanza di un “conflitto di doveri”, tale da poter invocare la “situazione di necessità”? Poiché, se non è così, ci troviamo di fronte al caso di chi per eliminare la sofferenza elimina il sofferente. Del resto l’espressione “soppressione caritatevole” del bambino nato con malformazioni ci era già nota dopo che nel 1938 Hitler ordinò a Karl Brandt di recarsi in Lipsia per esaminare la richiesta di una coppia di genitori di consentire l’uccisione del figlio malformato che poi divenne un vero e proprio programma per l’eliminazione dei bambini handicappati.
Non solo. Cosa significa “sofferenza insopportabile e senza prospettive”? Qui si sta prendendo una decisione irreversibile come quella di porre fine alla vita di un neonato, in virtù sia di una concezione soggettiva di vita umana accettabile, sia di un calcolo di costi psicologici e perfino economici. Ogni individuo umano, infatti, vive e percepisce la sofferenza, sia quella fisica, sia quella morale, in modo del tutto unico e personale. Così anche un medico sarà portato a giudicare la sofferenza in base a propri vissuti e ancor più lo farà un genitore che in quella situazione è in tutto e per tutto coinvolto.
Diciamocelo, siamo davanti a una vera e propria “handicap-fobia”: il motivo per porre termine alla vita di un neonato in queste condizioni non è la sofferenza insopportabile e senza prospettive del bambino, ma l’incapacità dei medici, dei genitori e della società di accettare l’handicap.
Scriveva Chesterton (Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena, 2008, pp.103-104.):
Anche se potessi condividere il disprezzo eugenico per i diritti umani, anche se potessi imbarcarmi allegramente nella campagna eugenica, io non comincerei col togliere di mezzo le persone deboli di mente. Ho conosciuto molte famiglie (..) e non ricordo di essermi imbattuto in mostruose sofferenze umane derivanti dalla presenza di questi individui insufficienti e negativi (..). [Essi] sono lungi dall’essere l’impedimento peggiore alla felicità domestica; non mi risulta che facciano un gran danno (..) e non solo sono considerati con umanità e affetto, ma possono essere adibiti a certe limitate attività umanamente utili.
Utili, appunto. Ricordiamo come si era espresso l’esponente più emblematico della bioetica utilitaristica, Peter Singer (qui) sull’eutanasia dei bambini disabili; secondo lui, la vita non ha valore di per sé, anzi, il suo valore va ponderato con altri “beni”, come ad esempio quelli economici, riferiti ad un concetto astratto di collettività. Quindi, per il bioeticista, se il disabile porta alla società più “costi” che “benefici”, visto che oltretutto non è nemmeno in grado di affermare da sé il suo valore, è “giusto” che si ponga fine alla sua vita.
Ritenere che la società sia compromessa dalla presenza dei disabili è segno di grave forma di discriminazione – quella dei forti e dei sani contro i deboli e i malati –, ed è anche fortemente diseducativo per le nuove generazioni. In primo luogo, la qualità di una società o di una civiltà si misura dal rispetto che essa manifesta verso i suoi membri più deboli. Una società tecnicamente perfetta, nella quale sono ammessi solo i membri pienamente produttivi, è permeata da una discriminazione non meno condannabile della discriminazione razziale. In secondo luogo, abbandonare i genitori facendo sì che essi si carichino da soli, socialmente ed economicamente, della situazione, per non gravare sulla società, non potrà che indurre le persone – come in parte sta già avvenendo – a volersi “liberare” di un tale “fardello”, acconsentendo alla soppressione “pietosa” del figlio, seminando nel pensiero comune una concezione materialistica che calcola il valore di una vita umana in base ai suoi costi.
Come non ricordare, allora, il monito sempre attuale di Giovanni Paolo II a riguardo (No alla legalizzazione dell’eutanasia neonatale, in “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, vol. XI/1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1988, pp.888-890, nn.3-4):
Il grado di rispetto alla vita nascente in tutte le sue fasi di vita nel seno materno è la premessa di quel rispetto che deve proseguire nella fase neonatale anche e soprattutto verso gli immaturi gravi e i neonati malformi. È la logica di morte, insita nella legittimazione dell’aborto, che spinge oggi in qualche parte alcuni a chiedere la legalizzazione della eutanasia neonatale e ad avviarne la pratica a carico dei feti portatori di handicap e di quelli la cui esistenza neonatale, a causa della loro nascita prematura, risulta, anche se possibile, non priva di qualche difficoltà e di qualche rischio. Si avanza, da parte di alcuni, il presunto “diritto al figlio sano” e si colloca la così detta “qualità di vita” come criterio dirimente perché venga accettata la vita. Occorre riaffermare con chiarezza che ogni vita è sacra e che l’esistenza di una eventuale malformazione non può costituire motivo di condanna a morte, neppure quando siano i genitori stessi, presi dall’emotività e colpiti nelle attese, a chiedere l’eutanasia attraverso la sospensione delle cure e dell’alimentazione.
Ragazza sana chiede a 23 anni l’eutanasia
Una ragazza belga di 23 anni di nome Kelly, ha dichiarato al Daily Mail che vuole porre fine alla sua vita con l’eutanasia, a causa di alcuni problemi mentali da cui è affetta. La ragazza infatti, «ha tentato il suicidio, è stata ricoverata in ospedale, ha sofferto di disturbi alimentari ed ha iniziato a praticare l’ autolesionismo».
Lei stessa ha affermato: «Era più sopportabile il dolore da autolesionismo che il dolore alla testa. Almeno il dolore da autolesionismo scompare, a differenza del dolore all’interno che è sempre presente».
Sempre secondo il Daily Mail: «I pazienti con problemi mentali rappresentano circa il tre per cento delle 17.000 persone uccise da quando la legge è stata modificata in questo paese di 11 milioni di cittadini. Ci sono stati 2.357 decessi l’anno scorso – dieci volte in più rispetto al primo anno in cui l’eutanasia era legale in Belgio…».
Kelly apprese che era possibile richiedere l’eutanasia da uno psicologo dell’ospedale dove si trovava in cura. Nonostante i suoi piani già definiti, non ha mai raccontato ai genitori con cui vive, alla sorella gemella o ai fratelli più piccoli, di voler porre fine alla sua vita, fino a quando non ha trovato psichiatri che le hanno confermato che il suo dolore mentale è “insopportabile e incurabile”.
Quando finalmente lo disse alla sua famiglia, racconta: «Mio padre era molto scioccato, piangeva e l’ho stretto a me. Stavo quasi piangendo anch’io. Era molto commovente ma anche doloroso vederlo così».
Come hanno sottolineato molti psichiatri, le condizioni delle persone che soffrono di problemi di salute mentale può migliorare nel tempo con le cure. Offrire la morte come “soluzione” alla sofferenza, non allevia l’angoscia mentale del malato, ma semplicemente pone fine alla sua vita.
Non c’è da stupirsi sull’impennata di persone che richiedono la “dolce morte”: una volta che un Paese (come il Belgio, in cui per di più non si fa distinzione tra dolore mentale e fisico) accetta l’idea che alcune vite non sono degne di essere vissute, ecco che la morte si manifesta come volontà delle persone più fragili, che soffrono molto e lo Stato preferisce “toglierle di mezzo” piuttosto che curarle. Un caso simile era capitato a Noa Pothoven, di cui avevamo parlato in un articolo precedente. Non a caso, Noa Pothoven aveva denunciato il fatto che nel suo Paese non esistevano cliniche specializzate nel curare disturbi mentali nell’età adolescenziale.
A queste povere vittime, la morte dunque appare come unica soluzione. (Chiara Chiessi)
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.