ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

sabato 9 novembre 2019

Tempus miserendi

Pace per la Chiesa
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/b2/Rembrandt_Balaam%27s_Ass.jpg/220px-Rembrandt_Balaam%27s_Ass.jpg(immagine aggiunta)

Propter fratres meos et proximos meos, loquebar pacem de te (Sal 121, 8).Deus in medio eius, non commovebitur; adiuvabit eam Deus mane diluculo(Sal 45, 6).


Il vescovo del nostro tempo è come Balaam seduto sopra l’asina: essa vedeva l’angelo, mentre Balaam non poteva vederlo. Balaam s’interpretache precipita la fraternità, oppure che turba la gente, o anche che divora il popolo. Un vescovo scandaloso è un tronco inutile: con il suo cattivo esempio precipita la fraternità dei fedeli prima nel peccato e poi nell’Inferno; con la sua stoltezza, giacché è anche inetto, sconcerta i fedeli; con la sua avarizia divora il popolo. Costui, assiso sopra l’asina, non solo non vede l’angelo, ma vi dico che vede il diavolo pronto a precipitarlo all’Inferno. Invece il popolo semplice, che ha una fede retta e si comporta onestamente, vede l’Angelo del sommo consiglio, riconosce e ama il Figlio di Dio (sant’Antonio di Padova, Sermone per la Domenica delle palme, III, 11).


Non era certo molto tenero con il clero dell’epoca il taumaturgo francescano originario di Lisbona, uno dei più straordinari predicatori di tutti i tempi. Aveva evidentemente buoni motivi per paragonare i vescovi al profeta Balaam, il quale, chiamato da un re pagano a maledire il popolo d’Israele, si era trovato la strada sbarrata da un angelo inviato a fermarlo, ma, non essendo in grado di avvedersene, se l’era presa con la povera cavalcatura. Anche oggi quella parte della gerarchia cattolica che, aderendo al pensiero e ai programmi del mondo, reca danno alla comunità dei fedeli è completamente cieca di fronte al baratro dell’eterna dannazione, in cui si sta gettando, e sorda ai richiami dei messaggeri suscitati per farla rinsavire. Anziché ascoltarli per il bene proprio e altrui, quegli insensati Pastori, a cominciare dal vertice, si accaniscono contro gli “asinelli” che tentano, come possono, di frenarli davanti alla spada sguainata di san Michele. Volesse il Signore aprire loro gli occhi e la mente! Ma per ricevere queste grazie è necessario che l’uomo vi acconsenta…


Balaam è simbolo dei sacri ministri che abusano del dono e del potere ricevuti da Dio mettendoli a servizio di interessi particolari. Le prerogative di cui dispongono a vantaggio del loro gregge, che hanno il compito di far crescere nella verità che salva e nella grazia che santifica, sono piegate a scopi estranei: l’asservimento mentale e operativo dei fedeli a progetti di dominio perseguiti da nemici. Così quelle potestà che sono state stabilite per il loro bene sono invece utilizzate a loro danno, mentre i doni spirituali connessi all’ufficio non giovano neppure a chi li detiene: il profeta, nonostante i suoi carismi, non è in grado di scorgere l’angelo che, per evitargli il castigo, cerca di farlo desistere dalla sua disobbedienza; egli si irrita invece con l’asina che, spaventata, devia dal sentiero. Alla fine, però, l’angelo gli si manifesta visibilmente, ordinandogli di proferire unicamente le parole che udrà da lui. Allora Balaam, obbedendo finalmente alla volontà divina, in luogo della maledizione richiesta pronuncerà tre solenni benedizioni, scatenando così l’ira del committente, che tuttavia non oserà punire l’uomo di Dio e lo rimanderà indietro incolume (cf. Nm 22-24).


«Quand’anche Balak mi desse la sua casa piena d’argento e d’oro, non potrei trasgredire l’ordine del Signore per far cosa buona o dannosa di mia iniziativa: ciò che il Signore dirà, quello soltanto dirò» (Nm 24, 13): il profeta aveva inizialmente dato agli ambasciatori del re la risposta corretta, ma di fronte alla sua insistenza, per ambizione o per timore, se l’era poi rimangiata. Il Signore aveva rispettato la libera scelta dell’uomo, ma nella Sua impagabile misericordia, per non doverlo punire, si era degnato di inviargli un messaggero celeste che lo riconducesse alla ragione. Ora, quali scuse potremo mai accampare noi, visto che, per farci rinsavire, l’eterno Re ci ha mandato addirittura Sua Madre? Quanti, nelle fila del clero, han preso davvero sul serio il messaggio di Fatima, attuandolo di persona e divulgandolo fra i fedeli? Quanti si applicano con zelo alla preghiera e alla penitenza? Quanti si son fatti ripetitori di ciò che ordina il Cielo, piuttosto che di quel che pretende il mondo? Quanti riconoscono l’inevitabilità del castigo imminente e si rifugiano invece in sicurezze umane apparentemente inattaccabili, ma in realtà puramente illusorie?


Il clero – almeno in Italia – è una vera e propria casta, cioè un sistema chiuso nel quale, a sua difesa e conservazione, vigono regole tacite, ma ferree. Qualunque sia il grado di corruzione morale di alcuni dei suoi membri (fossero pure una buona percentuale), non se ne deve assolutamente parlare, se non bisbigliando nei ristretti circoli dei bene informati; qualunque scandalo si verifichi, dev’essere prontamente insabbiato o, qualora avvenga una fuga di notizie, dimenticato il prima possibile, con buona pace delle vittime di abusi, rovinate per sempre. Tutti hanno interesse a far sì che il sistema si perpetui con i suoi numerosi vantaggi e privilegi; perciò l’omertà – se non l’attiva copertura reciproca – si impone tacitamente come un sacro dovere, a protezione di tutta la casta: nemmeno le inchieste giornalistiche valgono a indurre a resipiscenza la sua sfrontata sicumera. Con chi contravviene a tale categorica consegna, certi suoi membri si rivelano di una cattiveria e di un’intransigenza senza pari, spesso acuite dall’isterica irritazione scaturente dal narcisismo e dalla permalosità caratteristici degli effeminati, presenti in gran numero nella categoria.


A questo punto, la coscienza dei buoni viene a trovarsi davanti a un bivio: o persistere nell’accanirsi in denunce senza tregua che non sortiscono alcun effetto, se non quello di demoralizzare sempre più i fedeli e di screditare ulteriormente la Chiesa all’esterno; o ascoltare la voce di Dio, che continua a parlarci mediante la Sacra Scrittura e i cuori aperti allo Spirito Santo. Nel Salmo 121, il Signore ci esorta ad auspicare la pace di Gerusalemme a motivo dei nostri fratelli e vicini, cioè a parlare per il suo bene e la sua prosperità. Nel suo mistero soprannaturale, la Città di Dio è indefettibile, poiché Egli stesso abita in essa e la soccorrerà al mattino, ai primi albori dell’alba (cf. Sal 45, 6). Ciò che, in generale, la Bibbia dice della Chiesa si applica poi, in senso particolare, anche alla singola anima in stato di grazia, dimora della Trinità santissima. Ognuno di noi deve perciò imparare ad attendere, attivamente e fiduciosamente, il mattino dell’intervento divino, sia per sé che per tutto il Corpo di cui è membro: il nostro Sposo non può mentire né deluderci.


Il diavolo trova oggi abbondantissimo materiale per tentarci contro la speranza, ma non dobbiamo certo prestarci al gioco, bensì rinnovare continui atti di fede che corroborino l’attesa, infiammino il desiderio e alimentino la carità. Un vivo amore di Dio e del prossimo, concretamene praticato nella preghiera e nell’intercessione, rafforza a sua volta la fede e la speranza: «Mio Dio, io credo, adoro, spero e Ti amo. Ti chiedo perdono per coloro che non credono, non adorano, non sperano e non Ti amano». Quant’è attuale ed efficace la preghiera insegnata dall’angelo ai pastorelli di Fatima! La sua urgenza non si spiega adeguatamente se non al pensiero dell’ultimo giudizio, dell’eterna dannazione che rischiano increduli e peccatori. Pro anima res est illis (1 Mac 12, 51): per loro si tratta dell’anima. L’osservazione dei nemici di Israele, che si ritirano di fronte a un esercito meno potente, ma molto determinato, può esser trasposta sul piano spirituale: è questione di vita o di morte, ma, in questo caso, per tutta l’eternità. Pur non potendo soffocare la giusta indignazione di fronte al turpe spettacolo del tradimento che devasta la Chiesa, non dobbiamo fermarci lì, ma farne uno sprone a combattere, con le suppliche e le penitenze, per la salvezza delle anime.


Propter fratres meos et proximos meos, loquebar pacem de te: augurare la pace a Gerusalemme a beneficio dei fratelli consiste in una valida collaborazione, in parole e azioni, all’opera redentrice del Salvatore, la quale, pur essendosi compiuta una volta per tutte, deve estendersi ovunque e applicarsi ad ogni singolo uomo. La purificazione, il rinnovamento e l’espansione della Chiesa richiedono, da parte nostra, una luminosa testimonianza di vita, accompagnata da un aperto annuncio della verità immutabile, ispirato a carità e prudenza. Imitiamo come possiamo il Poverello di Assisi, che papa Innocenzo III, in sogno, vide sorreggere una vacillante basilica di San Giovanni in Laterano, emblema di quella Chiesa romana che è caput et mater omnium ecclesiarum. Il resto, non sta a noi risolverlo, dato che supera le forze umane, per quanto elevate dalla grazia; ma siamo certi che il Signore non può abbandonare la Sua Sposa e interverrà quindi a tempo debito, tenuto conto delle preghiere (che, nella sua prescienza, conosce da sempre) volte ad affrettarlo. Grazie al Cielo, c’è ancora un «popolo semplice che ha una fede retta e si comporta onestamente, […] riconosce e ama il Figlio di Dio».


Tu exsurgens misereberis Sion, quia tempus miserendi eius, quia venit tempus (Sal 101, 14).
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