ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 11 dicembre 2019

La "banalità del razzismo"

L'assessore invita a fare il presepe a scuola, ma scoppia la polemica: "Violenza inaudita"

Giordano si scaglia contro Montanari che aveva definito razzista e violenta l'idea dell'assessore del Piemonte, che chiedeva di valorizzare le tradizioni natalizie

Il presepe associato a una "inaudita violenza" e diventato il simbolo della "banalità del razzismo".
A sostenerlo è lo storico d'arte Tomaso Montanari, che sul Fatto Quotidiano si scaglia contro l'assessore all'Istruzione del Piemonte, Elena Chiorino, di Fratelli d'Italia.
A scatenare la polemica è una lettera, scritta dalla Chiorino alle scuole della Regione, per chiedere di "valorizzare presepi e recite di Natale" e "tutelare e mantenere vive l'identità culturale e le tradizioni". L'assessore aveva spiegato che "la ricorrenza natalizia e le conseguenti tradizioni come il presepe, l'albero di Natale e le recite scolastiche ispirate al tema della Natività sono parte fondante della nostra identità culturale e delle nostre tradizioni". E Montanari dietro quelle parole ci vedrebbe "una violenza inaudita", nei confronti delle scuole, della Costituzione, dei cattolici "che credono davvero" e nei confronti dei migranti.
Ma a prendere le difese della Chiorino è arrivato Mario Giordano, che sulla Verità difende l'idea dell'assessore e critica il testo di Montanari: "L'accostamento piuttosto ardito tra il presepe, il cotechino (con o senza lenticchie) e il razzismo si fonda sull'assunto che rivendicare la propria identità significa commettere un'inaudita violenza'". Poi ironizza: "È noto che invitare (si badi bene: invitare) una scuola a fare il presepe è un atto di prevaricazione inaccettabile", così come è noto che la Costituzione "dice che l' Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e sulla negazione del presepe".
Infine, Giordano critica Montanari, che vedeva nell'invito a valorizzare il presepe un'offesa nei confronti dei migranti. E a finire nel mirino del critico d'arte sono le parole "chi proviene da altre realtà" (contenute nella lettera dell'assessore alle scuole), che sarebbero sinonimo di "migranti, islamici, ne(g)ri e pure gli ebrei". Ma Giordano fa notare che nella proposta dell'assessore non c'è nessuna violenza contro i migranti, perché "un conto è obbligare uno straniero a fare il presepe per integrarsi, cosa che non sta nella testa di nessuno e un conto è chiedere alle scuole di difendere le proprie tradizioni perché da qui (e solo da qui) può partire una vera integrazione".
La differenza sembrerebbe ben chiara, a detta di Giordano: "Se io vado in un Paese che non è il mio e voglio integrarmi, la prima cosa che faccio è cercare di conoscere le tradizioni locali, la fede, la storia, la cucina. Ma se quel Paese non mi fa conoscere nulla di tutto questo, perché se ne vergogna, perché lo considera 'inaudita violenza', come faccio a integrarmi? Con che cosa mi integro? Con il nulla".
La gioia del presepe tornante


Il giorno dell’Immacolata, a casa mia, facevamo il presepe. Era un rito domestico di edilizia sacra che da bambino mi dava gioia. Riprendevano vita dopo un anno di latenza i personaggi, il bue, l’asino, le pecore e le oche, la grotta e la stella cometa. Si rianimava di luce la casa, gremita di angeli, pastori, sacra famiglia, montagne di cartapesta, fiocchi d’ovatta a mo’ di neve, ciuffi di muschio, specchietti rubati alla vanità femminile per fungere da laghetti. Era un work in progress, il presepe. All’inizio non era visibile il Bambino nella culla e i Re Magi erano fuori inquadratura, lontani dalla meta. Due venivano col cammello, uno era a piedi ma con un cappotto di cammello. Gesù sarebbe planato nella culla la notte di Natale, previo processione domestica. E i Re Magi sarebbero arrivati alla grotta solo alla Befana seguendo il navigatore stellare, il giorno prima che il presepe fosse smantellato.
Gli angeli appesi sulla grotta con un fil di ferro pendevano serafici e minacciosi, a volte cadevano dalla precaria sospensione facendo strage di pastori e papere. Era un piccolo incanto, e mi piaceva essere assunto da mia madre, direttrice dei lavori, come operaio del presepe. Riprendevano le loro postazioni i personaggi, di ognuno di loro sapevo la storia che mia madre si era inventata (utile ripasso fu da adulto quando mia madre raccontò le loro storie pure ai miei figli). Alcuni erano pellegrini, altri vendevano latte, merci e perfino cocomeri e a me sembrava strano che a Natale, con la neve sui monti, ci fosse pure quel frutto estivo. Ma tutto era miracoloso nel presepe, estate e inverno, oriente e occidente, vistosi anacronismi nei vestiti convivevano nel prodigio. Dava euforia il presepe, più dell’albero; con le sue luminarie intermittenti e le sue palle sgargianti mi ricordava più l’Upim o le vetrine che la nascita di Gesù.
Un anno però io tradì il presepe. Era l’8 dicembre, potevo avere dodici anni. A un tratto il telefono nero, appeso al muro, squillò per me. Ricevetti la prima telefonata di una ragazza. Era Maria Vittoria, andava nella sezione femminile, perché in quel tempo “sessista” le femmine erano in classi separate dai maschi. Mi chiese cosa stessi facendo e mi prese in giro quando candidamente confessai che stavo facendo il presepe. Mi disse perché non esci anziché fare il babbonatale. Snidato nella mia infanzia, abbandonai il lavoro sacro a metà dell’opera, e andai in piazza dove di solito ci sfioravamo col gruppo delle ragazzine. Ma lei non venne, forse perché pure a lei toccava fare il presepe. Tornai sconfitto come un disertore e un peccatore. Persi allora l’innocenza presepista, fu l’iniziazione alla pubertà.
Ma la passione del presepe restò anche da adulto e da genitore, nella nuova casa. Era però un presepe di pura rappresentanza, una sede distaccata. Il presepe vero, originale, si faceva sempre a casa dei miei, e così è stato fino a che mia madre visse; e anche oltre, con mia sorella. Tuttora facciamo nascere là il Bambino, previo processione in casa, non senza qualche ironia, con nipoti novizi che rimpiazzano i nonni; ma quel rito, oltre il miracolo di quella Nascita, evoca il ricordo degli assenti che in quei momenti sentiamo presenti. Col presepe tornano anche loro. In processione, il più piccolo porta il Bambinello. Quest’anno però i più piccoli sono gemelli e per evitare lotte fratricide si è pensato di riattivare anche un Bambinello di riserva. Ma avere un Gesù doppio dopo un Papa doppio, un Bambinello bis come il Conte bis, mi pare troppo.
Destò qualche raccapriccio anni fa la confessione di Umberto Eco: da ragazzo faceva la Madonna nel presepe vivente del suo paese. Spero che non avesse già la barba all’epoca della Santa Vergine. Ma non lo faceva per devozione o spirito natalizio, ammise; solo per vanità e privilegio, per stare al centro dell’attenzione e dietro le quinte del presepe. A questo punto meglio i presepi senza attori, così non si montano la testa.
Il presepe ha subito negli anni un paio di assalti. Il primo fu quando fu trasformato in una specie di congresso dell’ONU, in cui il messaggio non era più la nascita di Gesù, la santa maternità, la famiglia ma la società multirazziale fusa; pace pace, no al razzismo, accoglienza global, amnesty international. Anche gli angeli apparivano un incrocio tra i caschi blu e il gay pride.
Il secondo è invece ancora più radicale e mira ad abolire il presepe perché, dicono, offende chi è di altra religione. C’è sempre un insegnante idiota che propone ogni Natale di cancellare il presepe. Continuo a non capire cosa ci sia di offensivo in un presepe, quale nazionalismo e integralismo susciti, e perché non ci ha mai chiesto di abolirlo nessun islamico o buddista, anzi piace un sacco ai bambini di altre religioni e ai figli d’atei. Il presepe è un momento tenero che evoca una nascita, un dono, una comunità che si raccoglie intorno a una famiglia. Anche a non dare un significato religioso o confessionale è un evento lieto e armonioso intorno a una natività. Lo dice pure il Papa, anche nel nome del suo inventore, san Francesco.
Ho scritto più volte sul presepe (l’ultima volta in Ritorno a sud) considerandolo un caldo momento affettivo e comunitario, a casa come a scuola. Avrò lampi natalizi d’imbecillità ma quel rito ancora m’illumina d’incanto. Quel buio punteggiato dalle candele, quel calpestio domestico di nonni, padri, figli e nipoti in corteo come in un albero genealogico dal vivo, quelle voci stonate e vere, quelle stanze di sempre visitate con la luce tremula delle candele, quella famiglia intera che interrompe la vita consueta per seguire con dolcissima demenza un Bambino e cantare insieme Tu scendi dalle stelle, quegli auguri veri davanti alla grotta di sempre. La poesia semplice delle gioie durevoli che ti riconciliano col mondo, a partire dai tuoi cari.
MV, La Verità 8 dicembre 2019
http://www.marcelloveneziani.com/articoli/la-gioia-del-presepe-tornante/


La devozione a Gesù Bambino

(Roberto de Mattei) Tra le tante devozioni della Chiesa cattolica una delle più belle e profonde è quella al Bambino Gesù o della Santa Infanzia. Questa devozione è stata praticata per secoli all’interno di famiglie religiose come i carmelitani e i teatini, ma non ha ancora avuto la diffusione che merita. Eppure mai come in questo momento essa sembra attuale ed urgente. Il neomodernismo, che dilaga all’interno della Chiesa a tutti i livelli, nega in maniera esplicita o indiretta la divinità di Gesù Cristo. Gesù viene presentato come un profeta, un modello, un uomo straordinario, ma non l’uomo-Dio.
La tesi è questa: «Gesù è il Figlio di Dio, ma non Dio stesso». Secondo questa dottrina, il Verbo nell’Incarnazione cessò di essere Dio, perdendo la coscienza della sua Divinità e cominciando a sentirsi puramente uomo, fino a diventare capace di errore e di peccato. Solo dopo la morte sulla croce egli riassunse la sua natura divina e immortale. La parola «Figlio di Dio» per i modernisti non significa altro che Messia, senza che peraltro Gesù fosse pienamente consapevole della sua missione terrena.
Sono gli errori di eresie antiche, come l’apollinarismo, l’eutichianesimo, il nestorianesimo, il socinianesimo, che riaffiorano e vengono addirittura attribuiti da Eugenio Scalfari al cardinale Martini e a papa Francesco (Il Dio unico e la società moderna. Incontri con papa Francesco e il cardinale Carlo Maria Martini, Einaudi, Torino 2019, p. 24 e passim).
La conseguenza di questi errori è che Gesù deve essere ammirato per la sua predicazione e per la sua capacità di soffrire durante la Passione, che fu l’espressione più alta della sua umanità, ma la sua vita privata, a cominciare dalla sua infanzia, non ha alcun interesse. Maria fu madre di un uomo, non di un Dio e di conseguenza deve considerarsi indebita l’adorazione che a quell’uomo fu prestata dalla Beatissima Vergine, da san Giuseppe, dai Magi e dai Pastori. Il divino Infante, in questa prospettiva, non era diverso dai bambini del suo tempo ed, anche nella sua vita pubblica, Gesù fu un uomo come gli altri, eccezionale, ma non privo di passioni e di difetti. Ben diverso è l’insegnamento della fede cattolica. La Chiesa insegna che Gesù Cristo, seconda persona della Santissima Trinità, fu Dio prima, durante e dopo la sua Incarnazione nella Santa Casa di Nazaret e, come tale, infinitamente perfetto.
Il padre Frederick William Faber lo spiega bene. Gesù è il Verbo eterno. Questo Verbo fu proferito da tutta l’eternità e non c’era spazio dentro il quale potesse essere pronunciato, né tempo all’interno del quale potesse essere raccolto, perché nulla esisteva prima di Lui o al di fuori di Lui. La sua eterna dimora non ha confini nello spazio e nel tempo, perché essa è nel seno del Padre, tra le fiamme della Divinità. Nell’eternità – e non nel tempo – avviene la sua inesplicabile generazione. A ogni istante il Figlio è generato dal Padre e a ogni istante lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. «Come non vi fu un istante, nel quale il figlio non era ancor nato, così non ci potrà mai essere un momento, nel quale egli cessarà di nascere». È il mistero ineffabile della Santissima Trinità (Betlemme, SEI, Torino 1950, p. 12 e sgg.).
È la fede che ce lo dice, nelle parole del Credo: «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre». La sua generazione, incomprensibile da mente umana, è avvenuta e avviene nell’eternità e non nel tempo. Dal Padre procede il Figlio che è il Verbo; dal Padre e dal suo Verbo procede lo Spirito Santo; tutte e tre le Persone sono uguali tra loro, coeterne e consustanziali. Lo afferma il Concilio di Nicea contro gli ariani, che volevano negare l’eternità del Verbo. Lo ribadisce il Concilio di Calcedonia contro i nestoriani, definendo che Gesù Cristo è una sola Persona divina in due nature, divina e umana. L’unione tra il Verbo e la natura umana è ipostatica in quanto il Verbo ha comunicato il suo essere divino alla natura umana, ma Gesù Cristo resta una sola persona, quella del Verbo, nata ab aeterno dal Padre e nata nel tempo da Maria, secondo la natura umana fatta propria.
La mente divina concepì e decretò che la natura creata si unisse al Verbo increato, la parola del Padre, la sua espressione, la sua immagine. Tutti gli angeli, tutta l’umanità, tutti gli animali e tutta la materia furono chiamati all’esistenza per causa di Gesù Cristo, la seconda Persona della Santissima Trinità, che assunse la Natura umana, e perciò fu l’Uomo-Dio, il Verbo Incarnato. Il Verbo, prima ancora della creazione di Adamo ed Eva, scelse una donna, Maria, per essere la Madre di Dio e nel sistema solare scelse la terra come teatro dell’Incarnazione.
L’apparizione del Verbo Incarnato sulla terra è il punto culminante della rivelazione divina e di tutta la storia umana, che da questo evento, come ricorda Dom Guéranger, viene divisa in due grandi epoche: prima e dopo la nascita di Gesù Cristo. «Prima di Gesù Cristo un’attesa di molti secoli; dopo Gesù Cristo una durata il cui segreto è ignoto all’uomo, perché nessun uomo conosce l’ora della nascita dell’ultimo eletto; ed è per gli eletti, per i quali il Figlio di Dio si è incarnato, che il mondo è conservato».
L’Incarnazione si compì a Nazaret e si manifestò a Betlemme. Ma Gesù non nacque né a Nazaret né a Betlemme, perché al momento in cui nacque aveva un’età eterna. Tutte le perfezioni divine dell’eternità, infinità, immensità, semplicità e unità di Dio noi le adoriamo nel Bambino Gesù che riposa nella mangiatoia. Per questo la devozione alla Santa Infanzia è legata alla devozione dei divini attributi di Dio, che ci introduce profondamente nel mistero della Santissima Trinità. Attraverso questa devozione noi riaffermiamo che chi vede la luce non è un semplice bambino, è un uomo-Dio, è il Salvatore e Redentore dell’umanità, perfettamente cosciente della propria missione. Ma questo Bambino avvolto nelle fasce è anche l’Essere perfettissimo, creatore del Cielo e della terra, davanti a cui tutto l’universo si inchina.
Tra tutte le devozioni, la più profonda è quella che non perde mai di vista la divinità di Nostro Signore. Dalla divinità e dall’umanità di Cristo, unite in una sola Persona divina, scaturisce la Regalità di Cristo fondata, come spiega Pio XI nell’enciclica Quas primas, su quell’unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Da essa segue «che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature». Oggi si vuole scoronare Gesù della Sua divinità. Prostrati davanti a Gesù Bambino nel Santo Presepio, noi vogliamo adorare non solo la sua umanità, ma anche la sua divinità, restituendogli la corona che ogni giorno, gli viene sottratta.(Roberto de Mattei, Radici Cristiane n. 149 di dicembre) 

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