Il Natale: Dio occupa uno spazio!
“Il Verbo si è fatto carne”, si legge nel prologo del vangelo giovanneo (Gv 1,14). E la lettera agli Ebrei, citando con una modifica importante un famoso versetto salmico, scrive: “Entrando nel mondo Cristo dice: Non hai voluto offerte e sacrifici, un corpo mi hai preparato (…) Allora ho detto: Ecco io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Eb 10,5.7). La carne, un corpo, due modi per indicare la concretezza fisica dell’umanità assunta dal Figlio di Dio. Ma non c’è carne né corpo senza spazio. Il corpo fisico di Gesù, manifestazione spaziale della sua divino-umanità, come tutti i corpi ha occupato una porzione di spazio, come ogni cosa nel mondo ha bisogno di fare per poter esistere ed esprimersi.
Questo corpo noi ce lo portiamo dietro sempre, come la lumaca il suo guscio, è la nostra casa terrena, ci permette di abitare il mondo e insieme ci impedisce di essere contemporaneamente a Londra e a Tokyo, in Europa o in America, in casa o per la strada. E’ limite, ma anche possibilità. Senza un corpo noi non possiamo essere al mondo e neanche Dio avrebbe potuto “abitare in mezzo a noi” senza un corpo di carne come il nostro.
Il corpo umano è dunque spazio, perimetro circoscritto, che lega a un luogo e che non può essere dappertutto in qualunque momento. Il “tempo che ci vuole” per spostarsi, viaggiare, lavorare ecc., indica quanto il tempo dipenda dallo spazio e dai mezzi che adoperiamo per attraversarlo.
Anche Dio col suo Natale ha occupato col corpo un luogo e non un altro, la Giudea e non la Samaria, la Palestina e non il Tibet, l’ambiente mediterraneo e non quello tropicale. E un territorio segna i caratteri, la mentalità, la cultura di un popolo. Scegliendo quella terra, per abitarvi con quel corpo – lì e non altrove, ebreo e non greco o latino – la rivelazione del Figlio di Dio ha scelto una tradizione, una cultura e l’ha resa tramite per trasmettere l’universalità della sua salvezza. Noi siamo obbligati a passare da questa lingua corporale e territoriale, per poterla comprendere. Senza quel corpo l’evento sarebbe informe, un’astrazione uguale per ogni latitudine o sempre diversa per ogni epoca.
Ma accanto ai tempi di Dio, ci sono anche i luoghi di Dio, dove egli ha operato in modo unico e inconfondibile, una volta per tutte. Questa spazialità territoriale ci obbliga, ancora oggi, a chinarci su questa porzione circoscritta di terra – la “Terra Santa” – per capire meglio, in quella geografia, in quella archeologia, in quella tradizione spazialmente segnata, la lingua che Dio ha voluto usare per cambiare il senso del tempo e della storia. Lo spazio vincola, caratterizza, determina e àncora in mezzo ai mutamenti più diversi. Il tempo, da solo, potrebbe anche stravolgere ogni identità. Ma il corpo, pur cambiando, rimane lo stesso; così il luogo dove sorge un’esperienza, come quella cristiana, non può essere cambiato. La Giudea e il corpo di quell’Ebreo di 2000 anni fa è la “lettera” che non permette all’interpretazione continua e necessaria di stravolgerne lo spirito.
Tanto importante è stato lo spazio, che Dio ha voluto occupare col corpo del suo Figlio, che per farlo tacere fu avviato un “processo”, per cancellarlo, condannarlo e seppellirlo, un processo avviato per farlo sparire da questo mondo. Per negargli uno spazio!
Per questo il compito dei cristiani, nel tempo, è stato quello di creare sempre nuovi spazi in cui quel Corpo nato, crocifisso e risuscitato potesse diventare evento, contemporaneo, crescere ed essere accolto e riconosciuto nei suoi sacramenti e nella Chiesa, anch’essa corpo di Cristo. I missionari si sono spostati verso nuove terre e si sono così moltiplicate le chiese, i santuari, i monasteri, le diocesi, le edicole, le cappelle, le opere d’arte, le liturgie e i riti, che hanno costellato i continenti, permettendo ai popoli di sentire e capire che Dio era vicino a loro, che Dio era ed è ancora “il Dio con noi”, venuto ad abitare fra gli uomini, in mezzo alle loro case, come nella Tenda durante l’esodo di Israele nel deserto, alla ricerca della Terra promessa. La storia è stata così riorientata, grazie a luoghi che punteggiavano lo spazio e formavano una mappa, e il tempo stesso ha acquisito un “senso”, grazie a queste costellazioni territoriali.
Ora che ciminiere e grattaceli nascondono chiese e santuari, ora che si chiudono conventi e monasteri, ora che gli spazi sono privati dei segnali di via che indicavano la strada e la meta (e dicevano: oltre lo spazio e il tempo c’è l’eterno), non si comprende se la storia abbia un senso o un fine e il succedersi degli eventi e dei cambiamenti, sempre più vertiginosi, si è fatto vuoto. Dove la tecnica rende lo spazio planetario sempre più uniforme e immanente, il tempo diventa angosciante.
Diamo spazio a Dio che chiede spazio! E’ Natale. C’è bisogno di luoghi in cui possa nascere di nuovo per renderli dei varchi aperti verso il cielo.
di Giulio Meiattini
Dom Giulio Meiattini, monaco presso l’abbazia della Madonna della Scala di Noci (Ba), è professore di teologia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo, un’istituzione universitaria cattolica con sede a Roma, dipendente dalla Santa Sede.
“Il Verbo si è fatto carne”, si legge nel prologo del vangelo giovanneo (Gv 1,14). E la lettera agli Ebrei, citando con una modifica importante un famoso versetto salmico, scrive: “Entrando nel mondo Cristo dice: Non hai voluto offerte e sacrifici, un corpo mi hai preparato (…) Allora ho detto: Ecco io vengo, o Dio, per fare la tua volontà” (Eb 10,5.7). La carne, un corpo, due modi per indicare la concretezza fisica dell’umanità assunta dal Figlio di Dio. Ma non c’è carne né corpo senza spazio. Il corpo fisico di Gesù, manifestazione spaziale della sua divino-umanità, come tutti i corpi ha occupato una porzione di spazio, come ogni cosa nel mondo ha bisogno di fare per poter esistere ed esprimersi.
Questo corpo noi ce lo portiamo dietro sempre, come la lumaca il suo guscio, è la nostra casa terrena, ci permette di abitare il mondo e insieme ci impedisce di essere contemporaneamente a Londra e a Tokyo, in Europa o in America, in casa o per la strada. E’ limite, ma anche possibilità. Senza un corpo noi non possiamo essere al mondo e neanche Dio avrebbe potuto “abitare in mezzo a noi” senza un corpo di carne come il nostro.
Il corpo umano è dunque spazio, perimetro circoscritto, che lega a un luogo e che non può essere dappertutto in qualunque momento. Il “tempo che ci vuole” per spostarsi, viaggiare, lavorare ecc., indica quanto il tempo dipenda dallo spazio e dai mezzi che adoperiamo per attraversarlo.
Anche Dio col suo Natale ha occupato col corpo un luogo e non un altro, la Giudea e non la Samaria, la Palestina e non il Tibet, l’ambiente mediterraneo e non quello tropicale. E un territorio segna i caratteri, la mentalità, la cultura di un popolo. Scegliendo quella terra, per abitarvi con quel corpo – lì e non altrove, ebreo e non greco o latino – la rivelazione del Figlio di Dio ha scelto una tradizione, una cultura e l’ha resa tramite per trasmettere l’universalità della sua salvezza. Noi siamo obbligati a passare da questa lingua corporale e territoriale, per poterla comprendere. Senza quel corpo l’evento sarebbe informe, un’astrazione uguale per ogni latitudine o sempre diversa per ogni epoca.
Ma accanto ai tempi di Dio, ci sono anche i luoghi di Dio, dove egli ha operato in modo unico e inconfondibile, una volta per tutte. Questa spazialità territoriale ci obbliga, ancora oggi, a chinarci su questa porzione circoscritta di terra – la “Terra Santa” – per capire meglio, in quella geografia, in quella archeologia, in quella tradizione spazialmente segnata, la lingua che Dio ha voluto usare per cambiare il senso del tempo e della storia. Lo spazio vincola, caratterizza, determina e àncora in mezzo ai mutamenti più diversi. Il tempo, da solo, potrebbe anche stravolgere ogni identità. Ma il corpo, pur cambiando, rimane lo stesso; così il luogo dove sorge un’esperienza, come quella cristiana, non può essere cambiato. La Giudea e il corpo di quell’Ebreo di 2000 anni fa è la “lettera” che non permette all’interpretazione continua e necessaria di stravolgerne lo spirito.
Tanto importante è stato lo spazio, che Dio ha voluto occupare col corpo del suo Figlio, che per farlo tacere fu avviato un “processo”, per cancellarlo, condannarlo e seppellirlo, un processo avviato per farlo sparire da questo mondo. Per negargli uno spazio!
Per questo il compito dei cristiani, nel tempo, è stato quello di creare sempre nuovi spazi in cui quel Corpo nato, crocifisso e risuscitato potesse diventare evento, contemporaneo, crescere ed essere accolto e riconosciuto nei suoi sacramenti e nella Chiesa, anch’essa corpo di Cristo. I missionari si sono spostati verso nuove terre e si sono così moltiplicate le chiese, i santuari, i monasteri, le diocesi, le edicole, le cappelle, le opere d’arte, le liturgie e i riti, che hanno costellato i continenti, permettendo ai popoli di sentire e capire che Dio era vicino a loro, che Dio era ed è ancora “il Dio con noi”, venuto ad abitare fra gli uomini, in mezzo alle loro case, come nella Tenda durante l’esodo di Israele nel deserto, alla ricerca della Terra promessa. La storia è stata così riorientata, grazie a luoghi che punteggiavano lo spazio e formavano una mappa, e il tempo stesso ha acquisito un “senso”, grazie a queste costellazioni territoriali.
Ora che ciminiere e grattaceli nascondono chiese e santuari, ora che si chiudono conventi e monasteri, ora che gli spazi sono privati dei segnali di via che indicavano la strada e la meta (e dicevano: oltre lo spazio e il tempo c’è l’eterno), non si comprende se la storia abbia un senso o un fine e il succedersi degli eventi e dei cambiamenti, sempre più vertiginosi, si è fatto vuoto. Dove la tecnica rende lo spazio planetario sempre più uniforme e immanente, il tempo diventa angosciante.
Diamo spazio a Dio che chiede spazio! E’ Natale. C’è bisogno di luoghi in cui possa nascere di nuovo per renderli dei varchi aperti verso il cielo.
di Giulio Meiattini
Dom Giulio Meiattini, monaco presso l’abbazia della Madonna della Scala di Noci (Ba), è professore di teologia al Pontificio ateneo Sant’Anselmo, un’istituzione universitaria cattolica con sede a Roma, dipendente dalla Santa Sede.
Il Natale nei Sermoni di Sant’Antonio da Padova
di Silvio Brachetta
Ci voleva il genio teologico di sant’Antonio da Padova per fare la radiografia al Natale. Questo santo ha la capacità di scarnificare la Sacra Scrittura e arrivare al midollo. È come tuffarsi nell’oceano e scendere negli abissi. Sembra non vi sia un segreto che sant’Antonio non possa cogliere tra le parole del testo: e non si smentisce neppure nel Sermo in Nativitate Domini dove, dagli eventi di Betlemme, sa trarre una pressante esortazione alla penitenza. Nel testo è assente il tono dell’angoscia e in nulla somiglia alla lamentazione veterotestamentaria. Al contrario, i concetti sono spiegati con sapienza e il lettore viene introdotto ai misteri nella purezza delle parole.
Le lacrime della penitenza
Dietro al «censimento» di tutta la terra, ordinato da Cesare Augusto, sant’Antonio vede la figura del peccatore, che descrive e fa l’elenco dei propri peccati, per confessarli e abbandonarli. Non a caso il mondo è l’«orbe», il cerchio, simile alla vita dell’uomo, che nasce dalla terra e vi ritorna. Il circolo indica che l’uomo «deve descrivere», davanti a Dio, «i peccati commessi con il cuore, con la bocca, con le azioni», nonché «i peccati di omissione e le loro circostanze». Lo stesso nome di Maria è un simbolo, che s’interpreta «mare amaro», nel senso che il penitente è colui che piange lacrime amare e cerca la confessione, per estinguere la tristezza e la contrizione del cuore. Come Maria era incinta, anche colui che piange contrito «impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca lo spirito di salvezza».
Non che Maria abbia avuto bisogno della confessione, ma si fa registrare per il censimento assieme a Giuseppe, in obbedienza ein umiltà al volere di Dio e per indicare ai peccatori la strada della salvezza. La Vergine, dunque, partorì il suo figlio unigenito, che però è chiamato «primogenito» dalla Scrittura, non perché Gesù ebbe altri fratelli di sangue, ma perché il Cristo è «il primogenito tra i morti» (Col 1, 18) e il «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).
Il Bambinello fu avvolto in fasce – osserva Antonio – così come le medesime fasce lo avvolsero nella tomba, dopo il supplizio della croce. Le fasce sono il simbolo dell’«innocenza battesimale»: è beato chi rimarrà avvolto in fasce fino alla fine della propria vita. E così la Sacra Famiglia, nella povertà, non avendo trovato posto nell’albergo, dovette rifugiarsi in una stalla, sulla strada – in latino «diversorium» – proprio perché in essa «si arriva da diverse strade».
L’umiltà e la povertà del Bambinello
Sant’Antonio continua poi a superare il senso letterale del Vangelo e s’immerge nel senso allegorico del passo di Luca 2, 8: «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte e custodivano il loro gregge». Le «veglie» dei pastori qui menzionate possono essere una similitudine delle «vigiliae», i quattro turni di guardia con cui i romani dividevano il tempo notturno. Le quattro veglie sono altrettante «stazioni», allegorie cioè della nostra nascita impura, della nostra malizia attuale, della miseria del nostro pellegrinaggio terreno e del pensiero della morte. Per la salvezza è necessario, allora, che durante le veglie i pastori (gli uomini tutti) umilino se stessi, si mortifichino, piangano e ottengano il timor di Dio. Sarà bene anche che i pastori veglino sul gregge (buoni pensieri), perché non sia rubato dal predone (il diavolo) o assalito dal lupo (la concupiscenza della carne).
Da questi atti di pentimento, sgorga la gioia per la nascita di Colui che ci salva «dalla schiavitù del diavolo e dall’ergastolo dell’inferno». Il Bambinello giace «in fasce, dentro una mangiatoia», ovvero nell’«umiltà» e nella «povertà»: i due segni che corrispondono, nell’uomo peccatore e penitente, alla «fede» e alle «opere», senza le quali si va in rovina. Gesù, inoltre, ama essere chiamato «bambino», poiché se al bambino gli fai un’ingiuria, basta portare a lui un fiore e subito si dimentica del male e corre ad abbracciarti.
Allo stesso modo, il penitente porta a Gesù il fiore della contrizione e subito Dio lo perdona. Come dice Isaia: «Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la sua mano nel covo del serpente velenoso» (11, 8-9). Il lattante è il Bambinello che strappa Satana, il serpente, dal cuore dell’uomo, «con la potenza della sua divinità».
Consolazione e gloria beata
Nel Sermone insomma sant’Antonio compendia l’arco intero dell’incarnazione del Cristo, che riunisce la discesa a Betlemme e la salita al Calvario. Quanto più Antonio scruta la sofferenza del Figlio di Dio, tanto più centrale si fa la vicenda del peccatore pentito, a cui è rivolto l’amore della Ss Trinità e il sacrificio del Salvatore. Il bambino è la figura del «penitente convertito», in tutto simile a Gesù. E Gesù è adombrato in Issacar, nono figlio di Giacobbe, del quale si dice: «È un asino robusto, sdraiato entro i confini. Ha visto che il riposo era bello e che la terra era ottima. Ha piegato le spalle a portare pesi» (Gn 49, 14-15). Come Issacar – dice il santo di Padova – il penitente somiglia all’«asino robusto» dell’Ecclesiastico (33, 25), a cui spettano «cibarie, bastone e soma»: ovvero il cibo umile, «il bastone della povertà,perché non insolentisca e non recalcitri» e la soma, che è «il peso dell’obbedienza affinché non si disabitui alla fatica». Ebbene, sono questi i «tre rimedi» che preparano «la medicina per il penitente».
Il Natale, dunque, prima che poesia, vuole essere medicina e cura. Gesù bambino è Messia e Dottore. Egli non si limita a somministrare la mirra del dolore, ma si fa mirra e dolore per l’uomo. E il frutto di tanto patimento non è la tristezza, né la disperazione, ma la poesia, la neve candida, il presepe, le lacrime commosse e liberatorie. I due «confini», tra i quali è sdraiato Issacar il penitente, «sono l’ingresso alla vita e l’uscita da essa, la nascita e la morte». Lo stolto impenitente, al contrario, non sta trai confini, ma se ne fugge al centro, che «è la vanità del secolo, di questo tempo», dice Antonio. Qui è tenebra. Là, tra i confini, è luce e consolazione, «riposo e gloria beata», prima ancora che il Signore ritorni.
I figli ereditano tutto dal Padre
Non solo di Gesù – qua è la sostanza del Sermone – è detto in Isaia: «E sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio, forte, padre del secolo futuro, principe della pace» (9, 6). Tutti questi titoli, dice sant’Antonio, sono interamente applicabili anche all’uomo, convertito e penitente. La penitenza, quindi, rende l’uomo «ammirabile», poiché «nel diligente esame e nella frequente revisione di se stesso» vede «cose meravigliose nel profondo del suo cuore», come Giobbe, ammirato da tutto il mondo per la sua pazienza. L’umiltà, poi, fa l’uomo «consigliere nelle necessità corporali e spirituali del prossimo».
All’uomo, per quanto possa sembrare sorprendente, è pure applicabile il termine «Dio», nel senso che «è chiamato “dio” solo di nome, in quanto fa le veci di Dio», come le fece Mosè, costituito «dio» del Faraone – «Ecce constitui te deum Pharaonis» (Es 7, 1). Non deve stupire che all’umiltà segua la divinità. È scritto nel Salmo 81: «Io ho detto: voi siete Dei». E il Padre infatti non vuole negare nulla ai suoi figli. Neppure la divinità.
Il penitente, inoltre, è «forte nel combattere le tentazioni». Quando l’uomo si fa umile, somiglia a Sansone, che fece a pezzi il leone infuriato, come si fosse trattato di un capretto (Cf. Gdc 14, 5-6). In altre parole – spiega sant’Antonio – quando lo spirito della contrizione «investe il penitente, questi squarta lo spirito di superbia simboleggiato nel leone, e fa a pezzi lo spirito di lussuria». Il convertito è, infine, «padre del secolo futuro» e«principe della pace», al pari di Gesù Cristo. Questo accade perché il destino di chi si salva è la vita eterna, dopo essere riuscito a pacificare anche le passioni della carne.
Il presepe e lo scriba
Il santo indica in Giuseppe «il vero penitente», della stirpe del re Davide, cioè di colui che «veramente si pentì». Lo sposo di Maria accompagna sua moglie incinta, nel senso che partecipa con essa ai dolori del parto. Il peccatore pentito è simile alla partoriente di cui parla Isaia: «O Signore, abbiamo concepito, abbiamo sofferto i dolori del parto, abbiamo partorito lo Spirito di salvezza» (26, 17-18). Per questo motivo «il volto di Cristo, che verrà per il giudizio, impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca» questo Spirito altissimo.
La partoriente è nella grotta, povera e al freddo, ma non è sola. Sta muta con lo Spirito, che è una luce potente fra le stelle, ma tremula e fumigante tra gli alberi notturni. Tutto appare debole, caduco e leggero, come la neve. Tutto è bianco e non rosso come il fuoco. Tutto è freddo e anche il tempo sembra quasi congelato in una sospensione che fa pensare al sonno e alla vecchiaia. Il pastore si accosta appena appena a una porta e, senza troppo rumore, guarda l’interno da una finestra. Intravvede uno chino che scrive. E riprende la strada, assieme al suo gregge, dopo che il sole è calato ed è sorta la prima stella della sera.
di Silvio Brachetta
Ci voleva il genio teologico di sant’Antonio da Padova per fare la radiografia al Natale. Questo santo ha la capacità di scarnificare la Sacra Scrittura e arrivare al midollo. È come tuffarsi nell’oceano e scendere negli abissi. Sembra non vi sia un segreto che sant’Antonio non possa cogliere tra le parole del testo: e non si smentisce neppure nel Sermo in Nativitate Domini dove, dagli eventi di Betlemme, sa trarre una pressante esortazione alla penitenza. Nel testo è assente il tono dell’angoscia e in nulla somiglia alla lamentazione veterotestamentaria. Al contrario, i concetti sono spiegati con sapienza e il lettore viene introdotto ai misteri nella purezza delle parole.
Le lacrime della penitenza
Dietro al «censimento» di tutta la terra, ordinato da Cesare Augusto, sant’Antonio vede la figura del peccatore, che descrive e fa l’elenco dei propri peccati, per confessarli e abbandonarli. Non a caso il mondo è l’«orbe», il cerchio, simile alla vita dell’uomo, che nasce dalla terra e vi ritorna. Il circolo indica che l’uomo «deve descrivere», davanti a Dio, «i peccati commessi con il cuore, con la bocca, con le azioni», nonché «i peccati di omissione e le loro circostanze». Lo stesso nome di Maria è un simbolo, che s’interpreta «mare amaro», nel senso che il penitente è colui che piange lacrime amare e cerca la confessione, per estinguere la tristezza e la contrizione del cuore. Come Maria era incinta, anche colui che piange contrito «impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca lo spirito di salvezza».
Non che Maria abbia avuto bisogno della confessione, ma si fa registrare per il censimento assieme a Giuseppe, in obbedienza ein umiltà al volere di Dio e per indicare ai peccatori la strada della salvezza. La Vergine, dunque, partorì il suo figlio unigenito, che però è chiamato «primogenito» dalla Scrittura, non perché Gesù ebbe altri fratelli di sangue, ma perché il Cristo è «il primogenito tra i morti» (Col 1, 18) e il «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).
Il Bambinello fu avvolto in fasce – osserva Antonio – così come le medesime fasce lo avvolsero nella tomba, dopo il supplizio della croce. Le fasce sono il simbolo dell’«innocenza battesimale»: è beato chi rimarrà avvolto in fasce fino alla fine della propria vita. E così la Sacra Famiglia, nella povertà, non avendo trovato posto nell’albergo, dovette rifugiarsi in una stalla, sulla strada – in latino «diversorium» – proprio perché in essa «si arriva da diverse strade».
L’umiltà e la povertà del Bambinello
Sant’Antonio continua poi a superare il senso letterale del Vangelo e s’immerge nel senso allegorico del passo di Luca 2, 8: «C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte e custodivano il loro gregge». Le «veglie» dei pastori qui menzionate possono essere una similitudine delle «vigiliae», i quattro turni di guardia con cui i romani dividevano il tempo notturno. Le quattro veglie sono altrettante «stazioni», allegorie cioè della nostra nascita impura, della nostra malizia attuale, della miseria del nostro pellegrinaggio terreno e del pensiero della morte. Per la salvezza è necessario, allora, che durante le veglie i pastori (gli uomini tutti) umilino se stessi, si mortifichino, piangano e ottengano il timor di Dio. Sarà bene anche che i pastori veglino sul gregge (buoni pensieri), perché non sia rubato dal predone (il diavolo) o assalito dal lupo (la concupiscenza della carne).
Da questi atti di pentimento, sgorga la gioia per la nascita di Colui che ci salva «dalla schiavitù del diavolo e dall’ergastolo dell’inferno». Il Bambinello giace «in fasce, dentro una mangiatoia», ovvero nell’«umiltà» e nella «povertà»: i due segni che corrispondono, nell’uomo peccatore e penitente, alla «fede» e alle «opere», senza le quali si va in rovina. Gesù, inoltre, ama essere chiamato «bambino», poiché se al bambino gli fai un’ingiuria, basta portare a lui un fiore e subito si dimentica del male e corre ad abbracciarti.
Allo stesso modo, il penitente porta a Gesù il fiore della contrizione e subito Dio lo perdona. Come dice Isaia: «Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la sua mano nel covo del serpente velenoso» (11, 8-9). Il lattante è il Bambinello che strappa Satana, il serpente, dal cuore dell’uomo, «con la potenza della sua divinità».
Consolazione e gloria beata
Nel Sermone insomma sant’Antonio compendia l’arco intero dell’incarnazione del Cristo, che riunisce la discesa a Betlemme e la salita al Calvario. Quanto più Antonio scruta la sofferenza del Figlio di Dio, tanto più centrale si fa la vicenda del peccatore pentito, a cui è rivolto l’amore della Ss Trinità e il sacrificio del Salvatore. Il bambino è la figura del «penitente convertito», in tutto simile a Gesù. E Gesù è adombrato in Issacar, nono figlio di Giacobbe, del quale si dice: «È un asino robusto, sdraiato entro i confini. Ha visto che il riposo era bello e che la terra era ottima. Ha piegato le spalle a portare pesi» (Gn 49, 14-15). Come Issacar – dice il santo di Padova – il penitente somiglia all’«asino robusto» dell’Ecclesiastico (33, 25), a cui spettano «cibarie, bastone e soma»: ovvero il cibo umile, «il bastone della povertà,perché non insolentisca e non recalcitri» e la soma, che è «il peso dell’obbedienza affinché non si disabitui alla fatica». Ebbene, sono questi i «tre rimedi» che preparano «la medicina per il penitente».
Il Natale, dunque, prima che poesia, vuole essere medicina e cura. Gesù bambino è Messia e Dottore. Egli non si limita a somministrare la mirra del dolore, ma si fa mirra e dolore per l’uomo. E il frutto di tanto patimento non è la tristezza, né la disperazione, ma la poesia, la neve candida, il presepe, le lacrime commosse e liberatorie. I due «confini», tra i quali è sdraiato Issacar il penitente, «sono l’ingresso alla vita e l’uscita da essa, la nascita e la morte». Lo stolto impenitente, al contrario, non sta trai confini, ma se ne fugge al centro, che «è la vanità del secolo, di questo tempo», dice Antonio. Qui è tenebra. Là, tra i confini, è luce e consolazione, «riposo e gloria beata», prima ancora che il Signore ritorni.
I figli ereditano tutto dal Padre
Non solo di Gesù – qua è la sostanza del Sermone – è detto in Isaia: «E sarà chiamato ammirabile, consigliere, Dio, forte, padre del secolo futuro, principe della pace» (9, 6). Tutti questi titoli, dice sant’Antonio, sono interamente applicabili anche all’uomo, convertito e penitente. La penitenza, quindi, rende l’uomo «ammirabile», poiché «nel diligente esame e nella frequente revisione di se stesso» vede «cose meravigliose nel profondo del suo cuore», come Giobbe, ammirato da tutto il mondo per la sua pazienza. L’umiltà, poi, fa l’uomo «consigliere nelle necessità corporali e spirituali del prossimo».
All’uomo, per quanto possa sembrare sorprendente, è pure applicabile il termine «Dio», nel senso che «è chiamato “dio” solo di nome, in quanto fa le veci di Dio», come le fece Mosè, costituito «dio» del Faraone – «Ecce constitui te deum Pharaonis» (Es 7, 1). Non deve stupire che all’umiltà segua la divinità. È scritto nel Salmo 81: «Io ho detto: voi siete Dei». E il Padre infatti non vuole negare nulla ai suoi figli. Neppure la divinità.
Il penitente, inoltre, è «forte nel combattere le tentazioni». Quando l’uomo si fa umile, somiglia a Sansone, che fece a pezzi il leone infuriato, come si fosse trattato di un capretto (Cf. Gdc 14, 5-6). In altre parole – spiega sant’Antonio – quando lo spirito della contrizione «investe il penitente, questi squarta lo spirito di superbia simboleggiato nel leone, e fa a pezzi lo spirito di lussuria». Il convertito è, infine, «padre del secolo futuro» e«principe della pace», al pari di Gesù Cristo. Questo accade perché il destino di chi si salva è la vita eterna, dopo essere riuscito a pacificare anche le passioni della carne.
Il presepe e lo scriba
Il santo indica in Giuseppe «il vero penitente», della stirpe del re Davide, cioè di colui che «veramente si pentì». Lo sposo di Maria accompagna sua moglie incinta, nel senso che partecipa con essa ai dolori del parto. Il peccatore pentito è simile alla partoriente di cui parla Isaia: «O Signore, abbiamo concepito, abbiamo sofferto i dolori del parto, abbiamo partorito lo Spirito di salvezza» (26, 17-18). Per questo motivo «il volto di Cristo, che verrà per il giudizio, impregna di timore l’anima, affinché concepisca e partorisca» questo Spirito altissimo.
La partoriente è nella grotta, povera e al freddo, ma non è sola. Sta muta con lo Spirito, che è una luce potente fra le stelle, ma tremula e fumigante tra gli alberi notturni. Tutto appare debole, caduco e leggero, come la neve. Tutto è bianco e non rosso come il fuoco. Tutto è freddo e anche il tempo sembra quasi congelato in una sospensione che fa pensare al sonno e alla vecchiaia. Il pastore si accosta appena appena a una porta e, senza troppo rumore, guarda l’interno da una finestra. Intravvede uno chino che scrive. E riprende la strada, assieme al suo gregge, dopo che il sole è calato ed è sorta la prima stella della sera.
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