Come noto, l’ultimo libro scritto a quattro mani dal Papa Emerito Benedetto XVI e dal Card. Roberto Sarah ha creato notevole rumore mediatico (vedi anche qui, e qui). Vale dunque la pena riprendere il discorso per approfondire gli importanti contenuti del libro. Lo facciamo con un monaco teologo, don Giulio Meiattini. L’autore è già noto ai lettori di questo blog, sul quale ha già pubblicato altri contributi (ad esempio qui, qui e qui).
Paciolla: Don Giulio, il recente libro nel quale Benedetto XVI e il cardinal Sarah hanno esposto i loro pensieri e le loro preoccupazioni, in sintonia di intenti, intorno al sacerdozio e al celibato, ha riservato colpi di scena e discussioni accesissime. Secondo lei come valutare, in modo più oggettivo e sereno possibile, questo episodio?
Don Meiattini: Penso che se un libro del genere, attinente al sacerdozio cattolico e alla questione del celibato sacerdotale, fosse uscito anche solo tre o quattro anni fa, sarebbe semplicemente stato accolto come un contributo autorevole su cui riflettere e discutere. Sarebbe stato percepito, cioè, come la ripresa e la conferma, pur nel modo proprio e personale con cui lo fanno gli autori, di insegnamenti e contenuti assodati, nella linea per esempio di Sacerdotalis coelibatus di Paolo VI. Ci sarebbero state ugualmente voci critiche (il celibato dei ministri ordinati è da decenni che è dibattuto, come l’identità del presbitero), ma pur sempre all’interno di un confronto urbano e lecito che poteva favorire l’approfondimento. E’ chiaro a tutti che la preparazione e lo svolgimento del sinodo amazzonico ha inaugurato una nuova atmosfera e creato delle notevoli attese, anche in merito a un possibile superamento di questa disciplina. In questo mutato contesto, l’intervento dei due autori è stato avvertito da alcuni (e ha inteso esserlo effettivamente) come un freno a questa apertura. Da qui le temperature incandescenti che purtroppo ne sono derivate. Diciamo che, a mio parere, non sono le idee contenute nel libro a essere problematiche, ma è il mutamento del contesto che può farle sentire come dissonanti. Esse esprimono, ritengo, un sentire in fondo ancora prevalente nella Chiesa cattolica, anche se forse sommerso.
Paciolla: Le pagine del libro scritte dal papa emerito quale impressione o reazione hanno suscitato in lei?
Don Meiattini: Un senso di gratitudine. Ritengo che dobbiamo essere grati a Ratzinger per la lezione di metodo che ci ha dato. Egli, nell’affrontare la questione del ministero ordinato, non si sofferma immediatamente sul dettaglio, non guarda in primo luogo all’urgenza o alla prassi, ma si pone in primo luogo in ascolto della Parola divina e della Tradizione ecclesiale. Cerca, così, di definire i contorni e porre le basi alla cui luce i singoli problemi concreti (disciplinari, pastorali, ecc.) possono trovare la loro giusta collocazione. Egli lo fa con il suo inconfondibile stile teologico: con un’esposizione limpida, comprensibile, che tutti, direi, possono intendere, ma con una robustezza e profondità dell’impianto esegetico e teologico, ricco di sfumature, che per essere colte hanno bisogno di una lettura attenta e ripetuta. Dunque, dobbiamo essergli grati, perché è proprio di questo che oggi c’è più bisogno. Indipendentemente dall’esito o dalle risposte date alle questioni sollevate, è il metodo dell’operazione in se stesso che è istruttivo: guardare il fenomeno nella sua globalità e cogliere quella che von Balthasar avrebbe definito la Gestalt, la forma o figura del ministero presbiterale a partire dal suo focus, da cui tutto il resto dipende. Se oggi un rischio c’è è quello di guardare all’urgenza, alla risposta immediata, senza il respiro di una visione ampia e profonda a partire dal centro, sulla base della Bibbia e della Tradizione. E’ questo esercizio alto della teologia come servizio ecclesiale, proprio nella sua intrinseca correttezza epistemologica, l’insegnamento che anche in questo ultimo saggio ci viene dal papa emerito. L’ascolto della storia è certo importante e necessario, ma – sembrano dirci queste pagine – subordinato all’obbedienza alla Parola di Dio, non viceversa. Anche della scottante questione del celibato (che è sotto i riflettori in questo momento) il saggio parla, certo, in modo significativo e chiaro, ma anche sobrio. E’ il quadro teologico generale che conferisce a quelle considerazioni sulla continenza sacerdotale la loro forza. L’autore cerca, infatti, di dare una visione di quello che ritiene il punto focale o la radice più profonda dell’identità del sacerdozio ministeriale nella Chiesa cattolica: la dimensione del culto, dell’adorazione di Dio. Il suo è innanzitutto un tentativo di lettura globale della crisi identitaria del presbiterato e la scaturigine di questa crisi egli la individua nella perdita o nell’indebolimento della centralità dell’aspetto cultuale.
Paciolla: Ma c’è chi sostiene che in questo tentativo di lettura globale a partire dal centro, come lei l’ha chiamata, Ratzinger si sia allontanato dalle prospettive inaugurate dal Vaticano II e addirittura abbia in fondo liquidato gli auspici dell’ultimo Concilio.
Don Meiattini: Personalmente non ho proprio avuto questa impressione. Non c’è nessun contrasto fra ciò che Ratzinger ha scritto nel suo saggio e il Vaticano II. Proprio riguardo alla dimensione cultuale del sacerdozio, alcuni passi del Vaticano II sembrano effettivamente riconoscergli un ruolo centrale di attrazione rispetto ai vari aspetti di cui si compone il ministero ordinato. In Lumen gentium n. 28 si legge, per esempio, che i sacerdoti “esercitano la loro funzione sacra massimamente nel culto o raduno eucaristico (munus sacrum maxime exercent in eucharistico cultu vel sinaxi)”. Insomma, è dall’eucaristia che il sacerdozio attinge il proprio senso ed è nella celebrazione del culto che trova la sua massima espressione. D’altra parte se la fonte e il culmine della vita della Chiesa è la liturgia, come insegna Sacrosanctum Concilium, sembra naturale che anche il sacerdozio ministeriale trovi nella dimensione cultuale il suo baricentro, che non sminuisce, ma irradia, vivifica e sostiene tutti gli altri aspetti, come la predicazione e la guida della comunità. Lo stesso si dica del celibato: il documento conciliare sulla formazione dei candidati al presbiterato, Presbiterorum Ordinis, ha chiaramente in mente un clero celibe e casto. Questo è incontestabile. I testi conciliari non hanno inteso mettere in discussione il celibato ecclesiastico. Dunque non vedo come si possa rimproverare al papa emerito un’infedeltà al Vaticano II. In proposito si vedano le pubblicazioni del vescovo Bonivento sul celibato ecclesiastico nel Vaticano II.
Paciolla: Dunque il libro di Ratzinger e del card. Sarah non è un De profundis al Vaticano II, come qualcuno ha detto…
Don Meiattini: Dipende da quale significato vogliamo dare al “de profundis”. L’espressione presa da sola viene intesa, nel parlato comune, come un riferimento al “funerale”, cioè al congedo o alla liquidazione definitivi. Questo a motivo del fatto che il salmo 129 (130) che comincia con “Dal profondo a te grido”, è usato anche nelle esequie cristiane. Ma, come è noto, questo uso dipende da due caratteristiche del salmo che non hanno a che fare con la morte: esso è un salmo penitenziale, di richiesta di perdono dei peccati, e insieme di speranza e di attesa della venuta del Signore, tanto che viene adoperato anche nella liturgia di Avvento. Nella sua interezza, il salmo De profundis è un canto che invoca con fiducia la venuta del Signore: “più che le sentinelle l’aurora, così l’anima mia attende il Signore. Speri Israele nel Signore”. In questo senso, come preghiera di speranza e di attesa vigilante del Signore, il de profundis penso che colga l’intenzione di fondo del libro del card. Sarah e di Benedetto XVI: espressione di preoccupazione, ma anche di speranza nel Regno di Cristo che avanza. Tutt’altro che un funerale!
Paciolla: Quello che dice lei è chiaro. Ma se le cose stanno così, perché l’intervento del papa emerito è stato così criticato da diverse parti?
Don Meiattini: Il problema fondamentale della teologia del sacerdozio, toccato dalle pagine del papa emerito, non è per nulla nuovo. E’ stato molto discusso nel periodo post-conciliare. Alcuni teologi o correnti teologiche hanno affermato che nel cristianesimo dei primi secoli si sarebbe operata una indebita sacralizzazione della figura dei ministri ordinati (vescovi, presbiteri, diaconi) alla luce delle categorie sacerdotali veterotestamentarie, che invece da Gesù e dal suo movimento, secondo loro, erano state superate e abbandonate a favore o della centralità del servizio alla comunità (l’anziano o pastore) o della predicazione della Parola. Diversi validi studiosi già decenni orsono hanno dimostrato che questa lettura non è fondata. Ratzinger si è collocato proprio in questo punto nevralgico, facendo notare che la ripresa delle categorie cultuali e sacerdotali veterotestamentarie per comprendere la novità del sacerdozio di Cristo e di quello ecclesiale, non solo è legittimo, ma rappresenta il punto strategico attorno a cui cercare di ricomprendere l’insieme del ministero ordinato. Certamente l’unità dei tria munera (dono di insegnare, governare, santificare) che costituiscono l’ossatura del ministero ordinato, è stato affermata dal Vaticano II, ma il loro reciproco rapporto ha ancora bisogno di essere chiarito. La teologia, nel cercare di dare una lettura sintetica e sistematica dell’identità presbiterale, ha oscillato dando la preferenza ora all’uno ora all’altro di questi tre doni e ruoli. Ratzinger nelle sue recenti pagine sembra aver optato per un’emergenza della dimensione cultuale, cioè del dono di santificare, come punto sintetico delle altre funzioni, portando delle motivazioni degne di attenzione. Una proposta del tutto legittima. Questo mi sembra coerente non tanto con presunte nostalgie passatiste, ma con una cristologia che in varie sue opere (da Introduzione al Cristianesimo fino a Gesù di Nazareth) fa della filialità di Gesù, del suo titolo di Figlio, il nucleo più profondo. Il Cristo Figlio, il Cristo che sta al cospetto del Padre invocandolo come “Abbà”, per il teologo Ratzinger rivela l’atto orante e cultuale, perché responsoriale, del Logos incarnato e sta al fondamento della teologia. In alcune sue pagine (penso qui a un suo lungo saggio di molti anni fa, dal titolo Guardare al Crocifisso. Fondazione teologica di una cristologia spirituale), mette in evidenza che il cuore della cristologia, nel suo pensiero, è la preghiera filiale di Gesù, da cui germoglia tutta la restante ricchezza e multiformità della sua missione nel mondo. Questa intuizione ha una forza notevole e da essa mi sembra che discendano anche le recenti pagine del papa emerito sul sacerdozio cattolico centrato sul gesto cultuale orante. Il ché non vuol dire che con queste pagine tutto sia detto in modo esauriente. Come ho detto mi sembra che egli abbia voluto mostrare il centro, attorno al quale tutto il resto deve essere poi articolato. Così come l’essere Figlio di Gesù non esaurisce tutta la cristologia, ma ne costituisce il fulcro.
Paciolla: E la questione del celibato come si pone in questa cornice cristologica appena ricordata?
Don Meiattini: Alla luce di questa cristologia, nella quale il Figlio è, ontologicamente, sia radicale provenienza sia radicale restituzione da e al Padre (e in ciò innanzitutto attitudine ad-orante della caritas), trova posto la correlazione fra culto cristologico ed esclusiva e indivisa appartenenza a Dio. Il celibato di Gesù è espressione di una esclusività nell’offerta-sacrificio di sé al Padre, nel circolo trinitario, che è garanzia di una dedizione massimamente inclusiva verso tutti (diremmo pastorale). Per questo, mi sembra, il papa emerito, andando un po’ oltre la classica affermazione della speciale “convenienza” del celibato per il ministero ordinato, accenna a categorie ontologiche, osando l’espressione “astinenza ontologica”. Come a dire che l’astensione da legami o relazioni coniugali è qualcosa che a che fare con l’essere del sacerdozio cristiano, e dunque non è contingente o di solo diritto ecclesiastico. La formula è discreta, ma audace, e fa pensare a un legame non di sola convenienza o opportunità fra sacramento dell’ordine e rinuncia al matrimonio. La controprova è questa: chiamando gli Apostoli a partecipare al suo sacerozio, Gesù li ha chiamati anche a quella forma tipica di sequela che è divenuta poi il modello di ogni genere di vita monastica e religiosa, in castità, povertà e obbedienza. Egli chiede ai Dodici, destinati a essere partecipi nel grado massimo del suo sacerdozio, di rinunciare alla famiglia e ai propri beni per esercitare, in obbedienza a Dio, la loro missione di evangelizzazione, che è finalizzata a condurre tutti al culto in Spirito e Verità al Padre, culto che ha in Gesù il suo inauguratore, come nuovo Tempio e vero Sacerdote.
Paciolla: In questa luce come può essere considerata la prassi affermatasi nelle Chiese orientali, che permette a uomini sposati di essere ordinati anche continuando la loro vita matrimoniale?
Don Meiattini: Come seri studi storici hanno ormai acclarato, l’accettazione di questa prassi è tardiva (fine del VII sec.) ed è dovuta a un concilio delle sole chiese orientali, che l’allora vescovo di Roma non volle approvare, perché non conforme alla disciplina universale dei primi secoli e risalente all’epoca apostolica. Disciplina che richiedeva agli ordinati o di essere e rimanere celibi o di vivere in perfetta castità per il resto della vita nel caso i candidati fossero già sposati. Oggi si sente dire che la prassi del sacerdozio uxorato presente nelle chiese orientali attesterebbe la conciliabilità di principio fra vita matrimoniale nel suo pieno esercizio e sacramento dell’ordine. Ma se proviamo a guardare alcuni aspetti di questa tradizione orientale, ci accorgiamo di alcuni punti problematici che, a mio parere, non depongono a favore di una vera compatibilità fra matrimonio e ordine. In primo luogo anche per le chiese orientali i vescovi, che detengono, in quanto successori degli Apostoli, la pienezza dell’ordine, sono sempre stati scelti fra i celibi. In secondo luogo, se chi è sposato può, a certe condizioni, essere ordinato diacono e sacerdote, tuttavia non vale il reciproco: se uno è già stato ordinato da celibe non può più sposarsi. Perché mai, viene da chiedersi, questo impedimento se matrimonio e sacerdozio sono davvero per principio compatibili? Infine, se dopo essere stato ordinato da sposato uno resta vedovo, non può risposarsi. Anche in questo caso si nota un’analoga difficoltà: perché prima dell’ordinazione il matrimonio è possibile e dopo l’ordinazione no? Ma queste incongruenze si comprendono subito non appena si va a vedere l’origine storica di tale pratica, quando ci si distaccò, con dei compromessi, dalla tradizione più antica della continenza totale, richiesta a diaconi, presbiteri e vescovi.
Di Sabino Paciolla
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