di Roberto Pecchioli
Il cigno nero è una fortunata metafora descritta nel libro omonimo del 2007, all’alba della crisi economica e finanziaria che stava per scuotere il mondo. L’autore del saggio, Nassim Nicholas Taleb, analista finanziario libanese trapiantato negli Usa, teorizzò che talora, nel corso della storia, eventi del tutto imprevisti o sottovalutati assumono un rilievo enorme. Sono, appunto, i cigni neri, esemplari rarissimi in una specie dal piumaggio candido.
Il coronavirus, o virus Covid19, può effettivamente convertirsi in cigno nero per il futuro prossimo della Cina e forse della globalizzazione. E’ il secondo contagio proveniente dall’impero del Dragone in poco più di quindici anni – il primo fu la Sars, l’influenza aviaria- a dimostrazione che l’impressionante avanzata scientifica, tecnica ed economica cinese mantiene buchi neri molto pericolosi, anche a credere alla zoppicante versione ufficiale secondo cui il virus si sarebbe sviluppato in un mercato all’aperto di animali vivi. In attesa di verificare sulla nostra pelle le conseguenze di Covid19, con il suo carico di infettati e deceduti, è già possibile svolgere qualche considerazione di carattere geopolitico, oltreché commentare i primi, frammentari bilanci relativi ai costi economici. La Cina è da quasi un ventennio “la fabbrica del mondo”; gli eventi che la riguardano, in tempi di globalizzazione, si ripercuotono in tempo reale sulla vita e gli interessi dell’intero pianeta.
I precedenti storici di pandemie devastanti non mancano. Durante la guerra del Peloponneso tra le città elleniche, nel V secolo prima di Cristo, si abbatté sulla Grecia un contagio misterioso e fulmineo, descritto da Tucidide nelle Storie. Chiamato semplicemente “nòsos”, la malattia, falciò in breve buona parte della popolazione, specie nell’Attica, attorno ad Atene. La politica di Pericle, uomo politico ateniese, era quella dell’accoglienza: c’era bisogno di uomini e commerci per la guerra. La pandemia travolse tutti, fuorché Sparta, lontana dalle rotte marittime e assai restia ad aprirsi a uomini e merci. Attorno alla metà del Trecento, una terribile pestilenza uccise in pochi anni addirittura un terzo della popolazione europea. Ne è testimonianza letteraria il Decameron di Giovanni Boccaccio, il cui espediente narrativo è la fuga in campagna di un gruppo di giovani fiorentini per sfuggire alla peste.
Oggi non siamo preparati in quanto mentalmente disarmati!
Nel caso del Coronavirus, il solo esponente politico che abbia pronunciato parole all’altezza della storia è Giulio Tremonti. Esiste una relazione tra la globalizzazione, la rapidità dello sviluppo del contagio e le conseguenze economiche. Innanzitutto, l’irruzione dell’Asia ai vertici dell’economia, dell’industria e del consumo è un fatto storico di portata paragonabile alla scoperta dell’America alla fine del XV secolo. La globalizzazione, processo concreto di espansione alla totalità del globo dell’economia di mercato basata sullo scambio illimitato con i postulati produttivi indicati da David Ricardo – specializzazione, delocalizzazione, bassi salari – ha imposto per oltre un ventennio un mondo artificiale, fantasmagorico e felice, sovrapposto a quello reale. Fine della storia e una nuova geografia con baricentro a oriente.
Giulio Tremonti avverte: il corona virus segna il ritorno della natura, il passaggio dall’artificiale al reale. Il mondo senza frontiere non è più un bel sogno, una nuvola rosa planetaria, ma contiene elementi da incubo, fa riaffiorare paure ancestrali che parevano rimosse, vinte da una scienza e da una tecnologia onnipotenti. La globalizzazione è anzitutto, con la terminologia marxiana, la struttura che sostiene una sovrastruttura ideologica- il globalismo mercatista- fondata sull’esaltazione della “società aperta” (Karl Popper). L’imperativo categorico è la circolazione vorticosa e continua di merci, capitali e soprattutto degli uomini, la forza-lavoro, l’esercito di riserva che abbassa i costi e destabilizza le comunità.
Queste considerazioni non sono teorie astratte, ma spiegano lo choc immediato di queste settimane, oltre il numero di casi conclamati e dei decessi provocati dal virus. L’ossessione della porte aperte, il ripudio delle frontiere, l’erosione degli Stati nazionali – i soli a poter agire nell’ emergenza, con potere di decisione nelle condizioni di eccezione, come sapeva Carl Schmitt –fanno parte delle concause metastoriche del contagio. L’impotenza che ci pervade affonda le radici anche nell’indiscutibilità della narrazione globalista: non siamo preparati in quanto mentalmente disarmati. Il resto lo fa la natura, con le sue rivincite e la sua imprevedibilità che batte in un attimo statistiche, algoritmi, modelli matematici dell’orgoglioso homo tecnologicus.
CORONAVIRUS. IL CIGNO NERO DELLA GLOBALIZZAZIONE?
di Roberto Pecchioli
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Il gender? Non esiste, ma viene insegnato all’asilo
Non più di quattro o cinque anni fa, il discorso filosofico sul gender è approdato ad una svolta decisiva grazie al robusto argomentare di pensatrici del calibro dell’allora ministra della Pubblica istruzione Giannini e della Signora Fedeli Valeria (così firmava i documenti ministeriali) succeduta alla prima in una carica sempre ricoperta, da mezzo secolo a questa parte, da chi aveva mezzi culturali o capacità personali inversamente proporzionali alla bisogna.
Quelle signore decretarono ufficialmente, una dopo l’altra, e con la benedizione dell’autorità ecclesiastica, che “il gender non esiste” e che, non esistendo, non poteva neppure essere entrato, come si andava insinuando da più parti, nei programmi scolastici previsti dalla recente riforma firmata da Renzi e Giannini, chiamata con modestia della “Buona Scuola”.
Così la ministra si mise a sventolare come un gioiello di famiglia senza macchie una legge che invece prevedeva, come prevede, proprio l’indottrinamento continuo e trasversale alla formazione di una identità personale liberata dalla natura e dalla cultura, cioè affidata all’estro individuale. Che è appunto il cuore del gender.
Del resto la sfrontatezza è diventata la nota dominante di un costume politico nazionale e internazionale degenerato, di una intera vita politica dove, come nell’autoscontro, non vale alcuna regola di guida. Sicché è possibile negare impunemente anche l’evidenza confidando nel fatto che la massa sempre più confusa dal rumore delle parole in libertà non si accorgerà di niente, e in ogni caso non reagirà. Non per nulla la stessa massa ha potuto consegnarsi ad un guitto che sbraitava più forte di altri, e solo per questo appariva più credibile.
Così, la trovata di negare sfacciatamente l’evidenza è stata premiata. La menzogna era troppo plateale per non sembrare veritiera. Anche i genitori più sensibili e smaliziati, ma affannati da una affannata quotidianità, si sono sentiti sollevati da tanta sicumera ministeriale, scambiata per sicurezza, e hanno smorzato l’allarme, ovvero l’hanno bevuta, come direbbe Woody Allen.
Ecco dunque che una volta proclamata ex auctoritate l’inesistenza del gender, il potere occulto, ma non troppo, impegnato a distruggere definitivamente ogni identità umana, si è potuto rimettere al lavoro con l’obiettivo di annichilire le ultime generazioni “prima che sia troppo tardi”. Infatti, ai fini della omologazione globale, non basta sconvolgere i caratteri etnici attraverso la commistione immigratoria. Non basta inoculare in via televisiva l’indifferentismo sessuale in chiave pederastica, non basta attaccare gli ultimi avamposti della famiglia monogamica e la fedeltà della donna al ruolo affidatole dalla natura.
Per poter assicurare una distruzione rapida e generalizzata, bisogna distorcere le menti ancora fragili dei bambini, e dunque torna decisiva la scuola che, detenendo i piccoli per la maggior parte della giornata, può arrivare facilmente a sottrarre ai genitori e alla famiglia ogni ruolo educativo. Se un tempo il compito della scuola era quello di educare istruendo, ora l’obiettivo è che essa, dopo avere smesso anche di istruire, diventi solo un centro di rieducazione collettiva.
Intanto il gender tradotto con “genere”, ha perso per strada il significato proprio, e le famiglie e la gente comune, che pure avevano avvertito l’allarme, si sono distratte e hanno cominciato a sottostimare anche la effettiva portata eversiva di un linguaggio studiatamente ambiguo intessuto di parole politicamente corrette cioè apparentemente innocue, volte a trasformare un intero orizzonte etico e culturale.
Formule come “educazione alla parità dei sessi”, “prevenzione delle discriminazioni”, “prevenzione della violenza di genere”, et similia, a forza di essere ripetute a destra e a manca hanno allontanato a poco a poco da sé ogni significato sospetto facendo perdere anche la propria vera chiave di lettura, cioè il fine cervellotico della omologazione identitaria.
Sullo sfondo di un imbroglio ad ampio spettro, dunque, il programma eversivo è andato avanti a passi da gigante. Esso non ha subito battute d’arresto neppure per gli eventi sconvolgenti di Bibbiano e dintorni, con cui pure è strettamente imparentato. Infatti, entrambi ruotano intorno alla distruzione della famiglia attraverso la distruzione dei ruoli famigliari. E la distruzione dei ruoli famigliari converge sempre in modo mirato alla esaltazione dell’indifferentismo sessuale e in ultima battuta alla promozione della omosessualità e della transessualità.
A Bibbiano, bambini tolti ai genitori sono stati affidati a coppie omosessuali perché avessero davanti un capovolto modello identitario e famigliare. Così pure “instillando” nella mente di un piccolo di quattro anni l’idea che mamma e babbo possono comportarsi da mammo e babba, si prendono i due fatidici piccioni con la economica unica fava: si sbiadisce l’idea della famiglia naturale e si apre lo spazio radioso della indifferenza sessuale.
Ora questo demenziale progetto globalizzato si fregia e si avvale dell’apporto della cosiddetta autorità accademica, perché nella società delle parole vuote di contenuto reale, e dell’ignoranza di massa, si è fatta strada l’idea che chiunque, approdato a qualunque tipo di studi superiori, e guadagnato così il titolo di “esperto”, garantisca di fatto la bontà delle attività in cui impegna la propria scienza. Eppure già Socrate metteva in guardia dal confidare ciecamente nell’operato dell’esperto in quanto tale, perché essere esperto non implica affatto anche l’essere orientato al Bene. Ne prese coscienza, troppo tardi, anche Oppenheimer, dopo il felice debutto della bomba atomica. Ma l’osservazione può suonare oziosa in un’epoca che sembra avere perduto il senso stesso del bene e del male.
Dunque, dalla sinergia tra le fucine accademiche del più evoluto pensiero sociopsicopedagogico e il limitrofo laboratorio politico, nasce il piano di rieducazione scolastica che, forte della legge renziana, mira a demolire la famiglia e quindi la società tutta attraverso la manipolazione dei più piccoli. Il gender non esiste, ma per uno strano caso di paranormalità amministrativa, viene imposto manu militari ai bambini dall’asilo alle elementari, “perché dopo è troppo tardi”.
Lo leggiamo in un eloquente documento, qui allegato, che contiene solo l’esempio di un programma che vale per tutto il territorio nazionale. In esso si dice appunto, che “è fondamentale trattare questi argomenti il prima possibile, poiché è a partire dai quattro anni che i bambini iniziano a costruire la propria identità individuale e a interiorizzare le costruzioni sociali del femminile e del maschile, nonché eventuali stereotipi”. Il piano è applicativo della legge 107 che, d’altra parte, ha risposto a sua volta ai diktat della Unione Europea impegnata sul fronte della omologazione sessuale non meno che su quella economica e culturale.
L’efficacia del progetto è garantita: esso è già stato “sperimentato” in due asili cittadini, e dell’esperimento hanno reso conto le dotte promotrici in un “incontro di restituzione” (sic!) davanti a cinquanta insegnanti plaudenti. Per fornire la prova inconfutabile della intelligenza e oculatezza dell’esperimento, dette promotrici si sono vantate di avere creato delle favole ad hoc, buone per “instillare” nelle tenere menti infantili la falsità degli stereotipi famigliari.
Quella più significativa di queste “favole”, racconta di un tizio che lavora in un circo, è un uomo straordinariamente forte, ma ha anche la grande passione di lavorare a maglia, cosa che desta la curiosità e forse il riso dei colleghi. Ma quando un fortunale strappa via tutto il materiale del circo, tutti gli uomini si mettono a lavorare a maglia e, con i proventi di questo lavoro, ricostruiscono il circo. Ecco perché bisogna scoprire le risorse della libertà del genere, e capire quanto male facciano invece gli stereotipi. Infatti ogni ruolo imposto dalla società nuoce gravemente alla salute mentale dell’individuo.
Come si vede, lo studio e l’accademia danno i loro frutti. Le promotrici hanno stigmatizzato, scuotendo sconsolate il capo, che due genitori si fossero opposti all’esperimento e avessero tenuto i bambini a casa, sottraendoli irresponsabilmente alla immunità di gregge da stereotipo.
Del resto il ragionamento è semplice, alla portata di tutti: allo stereotipo di genere creato dalla cultura di una società oscurantista, va sostituito il diverso stereotipo della liberazione dagli stereotipi identitari. Così, se vi sono stereotipi imposti dalla società, per distruggerli ne vanno elaborati di uguali e contrari, che il bambino deve scegliere obbligatoriamente dopo averli interiorizzati, grazie alla propria sacrosanta libertà di scelta.
Abbiamo appreso che per fortuna nostra è già in elaborazione, con il decisivo apporto intellettuale di Cirinna, Boldrini e Zingaretti, un disegno di legge volto a sanzionare penalmente, sempre in omaggio alla libertà, ogni forma di transfobia, insieme a tutte le altre fobie omologhe. Così la tenaglia della libertà da natura e cultura potrà chiudersi saldamente e dalla culla alla tomba potremo essere in via definitiva liberi e uguali. A Cirinnà. Boldrini e Zingaretti. E non è cosa da poco.
Patrizia Fermani 4 Marzo, 2020
VIDEO: "VERITA' E RELATIVISMO"
Un video di Francesco Lamendola consigliato da Marco Cosmo del 10° Toro. La verità è morta nella "dittatura della menzogna": senza la verità tutto precipita nel caos, nell’anarchismo stabilito per decreto. Come il relativismo è stato eretto a sistema
Un grandissimo Francesco Lamendola, sempre più in forma. La verità è morta nella "dittatura della menzogna": senza la verità tutto precipita nel caos, nell’anarchismo stabilito per decreto. Come il relativismo è stato eretto a sistema, reso dogma e santificato come garanzia di libertà. La dittatura dei fatti è l’impero del caos: se la verità non esiste, o non è umanamente raggiungibile, chi ci garantirà contro l’illusorietà dei fatti? Non c’è niente che irriti i "vili" quanto lo spettacolo di un "coraggioso", che ha lottato da solo e senza domandare il loro aiuto.
Verità e relativismo. (consigliato dal Decimo Toro)
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