ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

mercoledì 13 maggio 2020

Volersi male

PERCHE' CI VOGLIAMO COSI' MALE


I casi della "rapita" Silvia Romano e del giovane carabiniere che entra in una chiesa e con arroganza interrompe una Messa: sono i volti d’una stessa mancanza di consapevolezza e di rispetto verso la propria "identità italiana" 
di Francesco Lamendola  


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L’ambasciatore Pupi d’Angieri, recentemente intervistato dal programma radiofonico La Zanzara a proposito della vicenda relativa a Silvia Romano, ha fatto, nonostante le solite, continue, petulanti interruzioni del solito Parenzo, una serie di riflessioni estremamente interessanti, che pongono una serie di domande le quali, a loro volta, esigono risposte che vanno assai oltre la vicenda specifica e le specifiche polemiche scatenate dalla conversione della ragazza all’islam, dai suoi effettivi rapporti coi rapitori, dall’abito indossato all’arrivo in Italia, dal pagamento del riscatto da parte del governo, dal ruolo svolto dai servizi segreti italiani e la mediazione di quelli turchi, dall’accoglienza ufficialmente riservatale al rientro dalle massime autorità. Domande che si possono riassumere in una sola, ma decisiva e che travalica, appunto, l’ambito specifico della vicenda: perché gli italiani si vogliono così male? 


Infatti è un volersi male spendere tempo e denari per far “liberare” una persona che non era per nulla in pericolo, che di fatto non era nemmeno più prigioniera, e che presso i suoi rapitori, o meglio presso quelli ai quali i suoi rapitori l‘avevano venduta, si trovava talmente bene, da essersi convertita alla loro religione, da essersi sposata con uno di loro (questo almeno è quanto è trapelato) e da intonarne le lodi non appena messo il piede in Italia, prima ancora di aver ringraziato quanti si sono dati da fare per riportarla a casa. È un volersi male andare ad accoglierla all’aeroporto, primo ministro e ministro degli esteri in testa, come a festeggiare una vittoria; mentre il pagamento del riscatto è un ennesimo cedimento al terrorismo islamico e un contributo al suo finanziamento, quindi una complicità indiretta nei futuri rapimenti e nei futuri attentati da parte di quei baldi signori. È un volersi male aver permesso a quella ragazza di scendere dall’aereo con atteggiamenti divistici e trionfalistici, dopo aver accettato il suo rifiuto d’indossare gli abiti italiani e la sua volontà d’indossare invece un vestito che la copre interamente, tranne la parte strettamente indispensabile del viso, e che, per le donne somale, è il simbolo di una odiosa coercizione da parte dei terroristi animati da un cieco fondamentalismo.

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Verso la distruzione della nostra economia: perché ci vogliamo così male da procurarci, con le nostre stesse mani, umiliazioni e sofferenze che potremmo, almeno in parte, risparmiarci?

Ed è un volersi male starla a sentire mentre dice: Non chiamatemi più Silvia, io sono Aisha, e vedere suo padre che, invece di abbracciarla, s’inchina davanti a lei, in un atto di sottomissione carico di simbolismo negativo e autolesionista, perché indica la sottomissione imbelle e volontaria del popolo italiano e della cultura italiana alla violenza e all’aggressività della cultura islamista, nel momento in cui quest’ultima si sta insediando in Italia sulla scia di centinaia di migliaia d’immigrati, regolari e irregolari, venuti nel nostro Paese ben decisi a non integrarsi affatto e a mantenere tutte le loro usanze e, semmai, a convertire ad esse il popolo che li ospita e che ha offerto loro casa, lavoro e una nuova prospettiva di vita, quando avrebbe potuto rifiutarli e badare unicamente al proprio interesse. Infine è un non volersi bene, e guadagnarsi il compatimento e il malcelato disprezzo degli altri Paesi occidentali, aver avviato la pratica costante di cercare, mediante il pagamento del riscatto, la liberazione di qualsiasi cooperante venga rapito nel Terzo Mondo, beninteso se appartiene alla galassia delle o.n.l.u.s. e delle o.n.g. progressiste e migrazioniste. Se invece ad essere rapiti, torturati, uccisi, sono preti o suore che in quei luoghi ci vanno per dedicarsi anima e corpo alle loro missioni e non per farsi i selfie coi bambini di colore e poi passare a riscuotere l’incasso sotto forma d’invito nei salotti televisivi radical-chic, da Fazio alla D’Urso, per vantare le proprie benemerenze filantropiche e ovviamente per inveire contro i populisti e i sovranisti, brutti, sporchi e cattivi, allora lo Stato non è così sollecito, non si dà tanto da fare e se poi il rapito, o la rapita, ci lasciano la pelle, la stampa e le televisioni se la cavano con un trafiletto in terza pagina o un breve servizio in ultima del telegiornale, e questo solo nei casi più fortunati. Forse perché quanti vanno in Africa per lavorare seriamente, e non per fare passerelle turistiche post-Erasmus, non sono poi spendibili nel salotti televisivi per portare acqua al mulino del Pensiero Unico e non servono al piano d’indottrinamento buonista e progressista del pubblico?

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La domanda è: cui prodest?, a chi conviene questa situazione?, e la risposta non è difficile: alla grande finanza internazionale, alla BCE e alle multinazionali, da un lato, e dall’altro a quella élite di parassiti, di cialtroni e traditori che è disposta a governare il Paese in conto terzi!

Allora, il problema è questo: perché ci vogliamo così male da procurarci, con le nostre stesse mani, umiliazioni e sofferenze che potremmo, almeno in parte, risparmiarci? È quel che sta accadendo in questi mesi con l’emergenza del Covid-19: anche gli altri Paesi hanno vissuto un certo grado di difficoltà; nessuno però ha voluto infliggersi un male così grande come l’Italia, fino al punto di auto-distruggere la propria economia e da trattare come potenziali delinquenti e prigionieri i propri cittadini. All’estero ci osservano e sono più sconcertati che scandalizzati: perché gli italiani si vogliono così male? Perché si stanno azzoppando e mortificando da soli, senza una reale necessità? Tralasciamo, in questa sede – del resto, ne abbiamo già parlato altrove – gli aspetti medici, politici, giuridici di quel che sta accadendo; tralasciamo la questione se l’emergenza, in se stessa, sia giustificata o no; se il virus esista e se sia modificato in laboratorio, o no; se sia così pericoloso o no (le statistiche, comunque, dicono di no: ventimila morti in meno nei primi tre mesi del 2020 rispetto al 2019: e ciò dovrebbe chiarire le idee una volta per tutte a chi ancora possiede il lume della ragione). Limitiamoci alla semplice domanda: perché ci stiamo facendo così tanto male, di fronte a un pericolo, vero o presunto, laddove nessun altro Paese ha adottato le misure suicide che ha adottato il nostro governo? E come mai ciò avviene – questa è la cosa più scioccante – col sostegno di una buona parte dei cittadini, i quali vorrebbero, se possibile, misure restrittive ancor più rigorose, e limitazioni ancor più pesanti; quelli almeno, beninteso, che non hanno un bar, un ristorante, un albergo, un negozio di parrucchiere, una piccola azienda di qualunque genere, ma uno stipendio o una pensione sicuri e possono prendersi il lusso di pensare solo alle mascherine, ai guanti e alla distanza di sicurezza da tenere, e da pretendere, quando sono in un luogo pubblico? Rispondere a queste domande significa trovare anche l’eventuale via d’uscita dal vicolo cieco nel quale da noi stessi ci siamo cacciati, e nel quale ci stiamo sempre più addentrando con perseveranza degna di una miglior causa. Fermo restando che quando si è nei guai non basta trovare una via d’uscita, bisogna poi avere anche la volontà e la forza necessaria per seguirla, costi quello che costi, fino a quando il pericolo non sia rimasto dietro le spalle.

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Perchè mentre mentre gli altri popoli tendono a sopravvalutarsi (tipici esempi: inglesi e francesi), minimizzando i propri difetti e gloriandosi delle proprie virtù, gli Italiani tendono sempre a sottovalutarsi?

Ora, per rispondere alla domanda, bisogna aver chiaro un concetto: che per avere una giusta relazione con una determinata cosa, bisogna innanzi tutto conoscerne il valore. Per fare un esempio: non si può avere una giusta relazione con un oggetto prezioso, se non si sa che è prezioso; se si pensa che una collana di perle sia falsa, la si può tranquillamente gettare nel cestino della spazzatura: solo se si è certi che  è autentica la si tiene da conto, la si custodisce in un luogo sicuro o, se si vuole, la si regala a qualcuno, o la si espone ad una mostra. E se il centurione romano che nel 212 a. C. s’imbatté nel matematico Archimede in Siracusa appena conquistata, avesse immaginato di trovarsi davanti a un genio, la cui intelligenza avrebbe potuto risultare utile ai vincitori, così come era stata utile ai difensori, probabilmente non lo avrebbe ucciso, ma si sarebbe attenuto agli ordini del comandante Marcello, che erano di catturarlo vivo. Il ragionamento vale anche nei confronti di se stessi: se una persona non conosce il proprio valore, non potrà mai relazionarsi nella giusta maniera né con gli altri, né con se stessa. Ad esempio se una persona buona, intelligente e di sani principi  è però affetta da un grave complesso d’inferiorità, non riuscirà a vedersi per ciò che è realmente e, magari, si metterà in situazioni false e dolorose nei confronti di persone che valgono molto meno di lei, ma che sopravvaluta, e che la terranno, sfruttandola e maltrattandola, in uno stato di soggezione psicologica e affettiva. È triste vedere un uomo di valore che si umilia davanti a una donna che non vale nulla (o viceversa) e che rovina la propria esistenza a causa di quel legame morboso, originato da una fondamentale ignoranza di sé. Se quella persona avesse una giusta percezione di sé, non si lascerebbe umiliare e, invece di sprecare le sue energie affettive in una relazione sbagliata, si guarderebbe intorno e riconoscerebbe di poter instaurare rapporti felici con persone ben più degne, che la sappiano apprezzare. Ebbene: qualcosa del genere accade al popolo italiano nei confronti di se stesso. Mentre gli altri popoli tendono a sopravvalutarsi (tipici esempi: inglesi e francesi), minimizzando i propri difetti e gloriandosi delle proprie virtù, magari anche esagerandole, gli italiani sono portati a sottovalutarsi, a commiserarsi, a denigrarsi sistematicamente, anche in presenza degli stranieri, cosa questa che essi non fanno mai, per nessuna ragione al mondo. E se gli italiani si auto-disprezzano e non si ritengono meritevoli di un destino migliore; se, per dirne una, non riescono a immaginarsi guidati da una classe dirigente seria e onesta, ma sono rassegnati ad averne una men che mediocre, se  non pessima; se non hanno fiducia in se stessi, se non credono in se stessi, perché mai dovrebbero aver fiducia in loro, e credere in loro, gli altri? Se vogliamo fare una similitudine sportiva, possiamo paragonare ogni popolo e ogni nazione a una squadra di calcio (o di ciclismo, o di pallacanestro, o quel che si vuole): per ottenere buoni risultati, bisogna che i suoi membri siano legati dalla consapevolezza di dover fare gioco di squadra e non gioco individuale, e inoltre devono credere in se stessi, come singoli ma soprattutto come gruppo. La condizione fondamentale per essere dei vincenti è credere nella propria capacità di vincere, di essere degni della vittoria: perché, come diceva Machiavelli, la fortuna è femmina, e cede volentieri a chi la sa prendere con decisione; mentre chi non ha tale fiducia, chi non si ritiene meritevole di vincere, sicuramente non vincerà.

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La percezione negativa e pessimistica di se stessi è stata coltivata negli italiani da chi è interessato a ostacolare la loro unione, la loro concordia, la loro compattezza! Gli altri ci temono, perché sanno che potremmo essere forti, tanto è vero che abbiamo sfiorato la posizione di quarta potenza economica mondiale in anni non lontani; e poiché ci temono, fanno di tutto perché noi coltiviamo il disprezzo di noi stessi!

Perché ci vogliamo così male? 
di Francesco Lamendola

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