Lettera di don Augusto al suo Autore
Reverendissimo Confratello,
la raggiungo con questa mia lettera nel giorno del suo importante genetliaco, un traguardo meritevole d’attenzione: correggendo per eccesso potrei dire che lei è giunto “nel mezzo del cammin della sua vita”. Ma cerchiamo di essere ottimisti, io ho ben superato la somma raddoppiata dei suoi anni!
So bene che, come me, non è interessato a questioni mondane, ma che gradisce attenzioni qualora facciano contenti chi si prodiga a esprimerle. Non ama le feste, se non quelle segnate sul calendario liturgico, ma, come ogni uomo, le fa piacere ricevere dei sinceri auguri anche solo per sentire vicino le persone a cui è interiormente legato. Se poi osserviamo in che anno particolare cade il suo speciale compleanno non c’è che da trarne qualche riflessione.
Il virus ha costretto a un ritiro forzato. Sono certo che per lei tale periodo non sia stato vissuto solo come una fatica, anzi, al contrario, sia stato un’opportunità per avere più tempo per pregare, studiare, scrivere e stare spiritualmente vicino, per quanto possibile, alle persone affidate alle sue cure pastorali. Una vita monastica che in fondo non le dispiace affatto. Immagino abbia tentato timidamente di farlo notare a coloro con cui entrava in contatto: un momento propizio per aprirsi al proprio mondo interiore, riscoprendone il valore. Insomma, una possibilità per fermarsi un attimo in una società – e quante lamentazioni in passato per questo! – che obbliga a correre sempre più velocemente. Era ed è un tempo di riflessione, quello passato ma ancora presente, per comprendere come sia caduca la nostra fugace esistenza. Per molta gente, però, è stato ancora un periodo di discorsi inutili. Quante occasioni sprecate per fare silenzio e avvicinarsi all’Infinito… Abbiamo bisogno di silenzio: non vuoto, ma riempito di senso, “contemplativo”, mi vien da dire. Lo so, ora resterà un poco deluso perché i suoi inviti probabilmente non sono stati accolti, se non da pochi, mentre sono state incentivate le chiacchiere, spesso nocive allo spirito. Tuttavia, c’è un fondamento buono: ogni uomo ha, infatti, l’esigenza di comunicare e anche lei avverte tale necessità. Ma non voglio offenderla: per lei non basta l’adagio che dice: “Dico quel che penso”, ma ama di più quel che precisa: “Penso quel che dico”. Sì, concordiamo: bisogna esprimere ciò che abbiamo nel profondo, ma con raziocinio! Nel nostro ambito, invece, ognuno reagisce a tutto, sentendosi in diritto di poter esprimere un giudizio su qualsiasi argomento, indignandosi o commuovendosi nel giro di pochi secondi come i teatranti di uno sceneggiato. Ed ecco! Quanto sarebbe importante il silenzio, il misurare le parole, il far crescere dentro di noi le emozioni per poi essere in grado di verificarle, valutarle, controllarle… Sono, quindi, persuaso che una tale lezione non sia stata appresa… È un fatto culturale: ci pensiamo onnipotenti, piccoli dèi con tutte le risposte eppure tanto incapaci di prendere decisioni che possano cambiare – per davvero! – il corso della vita. E la nostra società è astuta a farci credere indispensabili, mentre alla fine ci dissolviamo nella massa.
La “funzionalità”, termine a lei caro se non erro, la “funzionalità” può trasformarsi in una nefasta piaga. Sì, anche nelle comunità cristiane ha spesso prevalso: anziché dire: “Signore abbiamo bisogno di Voi solo!”, abbiamo lottato come se la Storia fosse in mano nostra. Niente da rimproverare quando si sono ideate strategie per aiutare i più poveri, per stare vicino alle persone, ma quanta commiserazione nel momento in cui il sociale ha prevalso sullo spirituale e quando quest’ultimo è divenuto niente più che funzionale a un’idea o, peggio, a un sentimento. Manifestazioni oscene non sono mancate: chiese trasformate in set cinematografici, sacerdoti nei panni di “showman”, abomini di ogni genere tra cui – ora – distribuire la comunione con i guanti in lattice! Mancanza di fede? Sì, ne sono sempre più convinto… soprattutto dei preti e posso scriverglielo perché facciamo entrambi parte della categoria. Come può un sacerdote dire che senza popolo non celebra l’Eucaristia così da identificarsi coi sentimenti di chi non può partecipare? Ma come? Certo che il sacerdote officia per il popolo, ma il popolo non è soltanto la gente che partecipa fisicamente alla Messa, ma prima e soprattutto la Chiesa intera! E la Chiesa intera è sia quella pellegrina sulla terra sia quella già in Cielo! Chi celebra una Messa non è mai solo! Noi presbiteri, inoltre, siamo destinatari di un dono e non padroni di esso! Noi siamo chiamati innanzitutto a celebrare “per” il popolo ed è secondario a ciò l’essere “con” il popolo, tant’è vero che ogni celebrazione è “per” ma può essere in determinati casi “senza” la partecipazione dei battezzati. Non riesco a decidermi, invero, se è mancanza di fede o carenza di una sana teologia. Forse, però, è la visione funzionale in cui anche il Rito diviene, appunto, funzionale a un ruolo. E si tratta l’Eucaristia come un oggetto nelle nostre mani. Rimango basito quando mi sovviene (parliamo di pochi mesi orsono) il fatto di aver subito le notizie di un Sinodo globale dove si auspicava di portare (a volte con propositi illeciti) la Messa in luoghi in cui non c’era per assenza di clero. Sono stranito osservando la situazione attuale: là si voleva a ogni costo un presbiterio per poter presiedere l’Eucaristia e poco dopo a chi si lamentava di non poter fare la comunione eucaristica si diceva che non era la cosa più importante… E stupisce che gli stessi soggetti si contradicessero nello spazio di qualche ora! È vero, molti sacerdoti si sono convinti che questo desiderio di Eucaristia fosse la presa di posizione di tanti fanatici che volevano solo lamentarsi. Non si sono accorti (come io ho potuto constatare ma anche lei, ne sono sicuro), invece, del vivo desiderio di ricevere il Corpo di Cristo in quanto sostegno per la vita spirituale e quindi per poter affrontare le fatiche e le gioie di tutti i giorni. Anche in questo caso non so decidermi se è mancanza di fede o altro… e da chi dovrebbe amare l’Eucarestia sopra ogni cosa! No, quei preti non hanno capito il legame vitale con la comunione eucaristica e di nuovo hanno ridotto tutto alla funzionalità, confondendo “fraternità” con “salvezza”. La fraternità è necessaria alla Chiesa, ma la salvezza è costitutiva; di più: senza la salvezza non si può vivere da veri fratelli! E la salvezza è il dono di Cristo – non del sacerdote – che si offre in riscatto. Ma se non si crede…
Che anno strampalato è questo! Lo so, lo so, lei ne è già al corrente, ma ne sono sempre più convinto: è la mancanza di verità (una cosa è vera quando lo è per tutti) che si accompagna a una fede debole. Nell’odierno questo basilare concetto sembra esser stato vaporizzato. Purtroppo, però, senza un retto ragionare la fede diviene superstizione, vago sentimento o ideologia. Le divisioni, di qualsiasi segno, la dicono lunga sulla cosa… Ogni professione della fede deve essere credibile sul piano dell’intelletto e deve toccare il soprannaturale. Ma come è possibile che la fede sia ragionevole, mi diranno i senzadio? La fede potenzia la ragione, non la sopprime: se manca la ragione non c’è vera fede. La fede è sempre ragionevole: non produce oracoli (ma si fonda su princìpi) né si forma su assiomi esoterici stravaganti (ma si spinge laddove il mistero lo consente e si fida della Rivelazione). La fede è il portale per entrare nell’arcano divino.
Caratteristica decisiva per il cristiano è, in definitiva, l’“umiltà”: nessuno può scrutare Dio in tutta la sua ampiezza, ma possiamo conoscerlo nonostante le nostre imperfezioni di creature. Allora dobbiamo fidarci sempre e in ogni situazione. Chiedere in ogni momento: “Signore cosa Volete che io faccia? Signore apritemi la mente alla Vostra parola”. Il messaggio soprannaturale non è, quindi, un enigma insoluto. Si può, dunque, conoscere la volontà divina, che non è difficile, ma che semplicemente tante volte non piace, non soddisfa il nostro gusto, non ci si confà. E, pertanto, si è cercato in tutti i modi di abbassarlo o, quantomeno, di trasformarlo secondo le mode del momento. Malauguratamente le mode cambiano, gli uomini mutano parere, il contesto culturale ci spinge a dire oggi una cosa e domani esattamente il suo contrario senza farci arrossire. Ciò che può venirne fuori non è altro che divisione e ben sappiamo chi è “colui che divide”.
Mi scusi le riflessioni per lei ovvie. Ecco, infine, il mio augurio: continui a mantenere vivo il desiderio di comunicare la verità anche quando non è più di moda, perché la verità non è frutto (solo) del suo ingegno ma anzitutto dono che viene dall’alto (ed è difficile scorgerla solo per chi ha occhi e cuore ottenebrati).
Continui ad amare il silenzio così carico di parole soprannaturali e non si preoccupi se risulterà allo sguardo dei suoi contemporanei alquanto pittoresco, anche perché – si ricordi – l’unico vero contemporaneo è Cristo, “lo stesso ieri, oggi e nei secoli”. Sorrido quando sento discettare dell’uomo moderno (come se noi si vivesse nel Medioevo): l’unico uomo moderno è Gesù, perché l’unico vero uomo: per essere veri uomini moderni, pertanto, non possiamo fare altro che imitare lui!
Continui, dunque, ad amare le creature in quanto in loro c’è un riflesso del Creatore, pure quando deludono o fanno soffrire.
Continui ad amare la Chiesa e non la confonda con le persone che la dirigono, conscio che hanno il loro fardello da portare e che di ogni tradimento perpetuato alla candida Sposa gli sarà chiesto conto. Non discuta con i suoi confratelli di cose che non vogliono capire: proprio perché ha il dono di “vedere”, si consideri umile tanto da accettare con compassione le storture umane… ah, certo, non ne divenga mai complice: sia umile non “cieco”! Il silenzio, poi, non divenga assenso! Predichi la buona novella come può e non si lasci scandalizzare dalla mancanza di fede di chi dovrebbe sostenerla.
Continui, pur con tutti gli errori che è in grado di commettere, a non pensare al ministero come qualcosa di funzionale. Non lo faccia semplicemente, ma sia prete! E quando commette qualche peccato si penta, non si giustifichi! In ciò sta la misericordia divina: un amore che cambia e converte il cuore, non che fa finta di non vedere il male. Dia la vita per la verità, che per noi cattolici coincide con Cristo! Non sia mai il suo pensiero a primeggiare, ma il pensiero di Cristo che si ottiene mediante la preghiera, la meditazione della parola di Dio e, soprattutto, con i Sacramenti.
Continui a misurare le parole: meglio essere umiliati che portare ancor più divisione; semmai si allontani da chi considera empio. Non si creda mai Gesù: non dica di saper agire come lui neppure quando ne è convinto: lei non è il Messia! Cerchi di imitarlo con la vita, già questo sarebbe un successo provvido. Eviti, inoltre, di proclamare cosa farebbe Gesù in una determinata situazione, perché lei non è il Redentore! Chieda piuttosto di essere illuminato e faccia lei il primo passo, dia l’esempio! Se è sicuro di essere mosso dallo Spirito agisca senza nessuna rivendicazione, perché non porta nulla alla sua causa e Dio sa già se c’è del merito in quel che fa.
In una parola, non perda la gioia anche se è difficile sperimentarla in profondità, a meno che uno si accontenti di una felicità superficiale, epidermica, capace di durare poco, molto poco. Oggi è difficile vivere la gioia cristiana perché gli attacchi non sono più solo esterni ma provengono pure all’interno dei titolari delle strutture della Chiesa “in via”. Coraggio! Non si disanimi: il Signore ha vinto! Forse, però, desidera anche il suo sacrificio… chieda la forza di poter essere suo testimone.
Caro Confratello, mi sono lasciato prendere la mano e le ho fatto una sorta di predica, ma so che lei sa ascoltare come pochi quanto alberga nel mio cuore di vecchio sacerdote.
Prego, allora, perché in questo suo compleanno possa sentire di nuovo l’amore unico che il Signore nutre per lei!
Suo devotissimo in Cristo,
don Augusto
5 giugno 2020, nella memoria di san Bonifacio, vescovo e martire
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