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La crisi – dovuta alla diffusione del coronavirus – cui siamo oggi confrontati è anche una crisi della globalizzazione, nel senso dell’abbattimento planetario di ogni frontiera con l’intento di sfruttare al meglio ogni occasione di maggiore libertà, guadagno e conseguente benessere. Sotto il segno di una sorta di pensiero unico, di una simil- religione universale fondata su pace, giustizia, cura dell’ambiente. Mirando alla creazione di un Paradiso in terra.
Questa crisi però fa capire a tutti che l’uomo è un essere limitato. Il suo corpo può essere distrutto da una particella piccolissima chiamata coronavirus. Il suo spazio – come si nota ormai in molti Stati del mondo – può essere limitato all’appartamento di casa. Il suo sapere dipende dalle opinioni spesso divergenti di virologi e altri scienziati, che di fatto guidano molti governi. I suoi diritti elementari (tipici di una democrazia) di libertà, come quella di movimento, di aggregazione, di culto, di manifestazione sono soggetti a restrizioni di notevoli dimensioni e di tempi indeterminati.
Eh, la faccia negativa della globalizzazione (ce n’è una anche positiva, ma non è questa la sede per approfondirne le caratteristiche)! Basti guardare alle conseguenze imprevedibilmente tragiche della delocalizzazione in Cina di molte piccole e medie imprese lombarde, soprattutto nelle zone di Bergamo e di Brescia, insieme a quelle di Lodi, Cremona, Piacenza tra le più ferocemente colpite dalla pandemia.
E’una crisi globale, perché affligge tutto il mondo: al momento in cui scriviamo il Covid-19 ha già contagiato ufficialmente (ma le cifre potrebbero essere molto più alte) oltre un milione e mezzo di persone e i morti sono circa centomila. Se consideriamo nei dettagli il bilancio di ogni singolo Stato noteremo che la pandemia - nata in Cina e probabilmente tenuta nascosta dal regime comunista per presunte ragioni di opportunità politico-economica per qualche mese – tocca oggi nell’ordine Stati Uniti, Spagna, Italia, Francia, Germania, mentre la Cina è solo al sesto posto (almeno se restiamo ai dati ufficiali). Poi l’Iran, la Gran Bretagna, la Turchia, il Belgio, la Svizzera (penalizzata dal fatto di confinare in particolare con l’Italia lombarda e piemontese, la Francia, la Germania).
Come si noterà è maggioritaria in questa classifica la presenza di Paesi europei e, salvo la Svizzera e – da poco – la Gran Bretagna, di Paesi proprio dell’Unione europea.(UE)
Ci si può chiedere allora che cosa hanno fatto fin qui gli organismi dell’UE per porre un argine comunitario alla diffusione del virus e per sostenere finanziariamente i Paesi più direttamente coinvolti. La risposta è desolante. L’UE fin qui, come tale, ha fatto pochino. Miserello il frutto delle interminabili riunioni che gli Stati dell’Eurozona (19, quelli che hanno adottato l’euro come moneta) e quelli dell’Ue al completo (27 Stati, dopo l’abbandono della Gran Bretagna) hanno fatto per settimane. Dopo giorni di contrapposizioni forti tra il fronte dei Paesi del Sud (guidato da Italia, Spagna, Francia e Portogallo) e quelli del Nord (capeggiati dalla Germania, ma con un’Olanda molto aggressiva, l’Austria e la Finlandia) si è trovata nella notte sul 10 aprile una sorta di compromesso al ribasso per cui duecento miliardi euro del Fondo Salva-Stati (detto Mes) potranno essere utilizzati dai membri bisognosi di aiuto, ma solo se impiegati per coprire le spese sanitarie legate alla diffusione del covid-19. Altre misure sono annunciate in ambito economico, per un totale di altre 300 miliardi, mentre già dal 20 marzo la Commissione europea ha deciso di sospendere le regole severe del cosiddetto ‘Patto di stabilità’, permettendo a ogni governo dell’UE di “pompare nella sua economia tutto quello che occorre” per fronteggiare la crisi.
Al di là delle misure annunciate dopo un parto molto faticoso, quello che impressiona è che quasi tutti i Paesi coinvolti si sono chiusi in se stessi per istinto di sopravvivenza. Bloccate le frontiere, ristretti i diritti di libertà fondamentali. E ogni Paese è tornato, per così dire, sovrano, mirando a difendere in primo luogo il suo benessere.
Si dirà: ma questa non era l’Unione europea, scatenata per mesi – anzi per anni – contro lo spauracchio dei partiti sovranisti, identificati spesso con populismo, fascismo, xenofobia, razzismo? Non era questa l’Unione europea che si è voluta far guidare da una maggioranza babelica, comprendente socialisti, verdi, liberali, larga parte dei popolari, pur di non lasciar spazio ai “sovranisti”? Sì, proprio questa, anche fino a qualche giorno fa, perché a Bruxelles si voleva assolutamente giungere a un accordo sul sostegno agli Stati più in difficoltà per la pandemia motivandolo tra l’altro con l’affermazione: “Non dobbiamo fallire, poiché altrimenti i sovranisti se ne approfitteranno per attaccarci con le loro campagne”. Da notare qui l’assenza di ogni tipo di sensibilità e solidarietà umana nelle decisioni di Lor Signori.
In questa contingenza purtroppo l’Unione europea ha fin qui dimostrato, come e più di sempre, di essere un’alleanza di pura convenienza e di aver abbandonato gli ideali originari impersonati da politici come Jean Monnet, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Konrad Adenauer. Che guardavano sì ai benefici effetti di un’unione economica, ma in primo luogo alla creazione di uno spirito di solidarietà europea sorretto dai valori cristiani. In realtà già la penosa vicenda del non riconoscimento delle radici giudaico-cristiane del Continente, sedici anni fa, testimoniava di un degrado del senso di solidarietà comunitaria.
Richiudendosi ogni Stato nel suo guscio, evidentemente l’immagine di una vera e concreta comunità europea di ideali e di prassi rischia di svanire sempre più. Sul continente predomina oggi un vento che spinge a ripensare intensamente alle proprie radici, alla propria appartenenza, alla propria patria. Il che di per se stesso non è certo negativo. L’Europa delle patrie è quella delle identità forti. E’ l’Europa del patriottismo, che è però diversa da quella del nazionalismo. Il patriottismo è amore per la patria e non implica di sentirsi superiori al mondo circostante e neppure di disprezzarlo, ma di interagire con esso in senso positivo. Il nazionalismo, specie se aggressivo, invece rischia di trasformarsi in un prodotto puro dell’egoismo di un popolo. Con tutti i rischi conseguenti.
Fa specie che l’Europa comunitaria sia stata costretta dalla pandemia a rivalorizzare sentimenti di appartenenza identitaria che erano stati messi al bando dalle sue élites politiche, amministrative, culturali, mediatiche. Quando si avvierà (se si avvierà) la ripresa – e sarà lunga e faticosa – si può pensare che niente sarà più come prima. E forse, in questo tempo di inquietudine e di dolore, anche i politici-burocrati di Bruxelles avranno avuto modo di riflettere profondamente sul destino del continente, traendone quelle conclusioni che renderebbero l’Unione europea più umana e dunque più vicina alle esigenze e alle speranze dei popoli che la compongono. Abbandonando così anche quelle politiche insensate di omogeneizzazione culturale che all’uomo invece strappano cuore e mente, riducendolo a individuo debole, pronto per essere schiavizzato. C’è dunque l’opportunità per i leader dell’UE di una ri-conversione ai veri valori umani: sprecarla sarebbe un delitto di cui i nostri figli e nipoti pagherebbero le pesanti conseguenze.
CORONAVIRUS E UNIONE EUROPEA: CONSTATAZIONI E OPPORTUNITA’ – di GIUSEPPE RUSCONI – www.rossoporpora.org – 27 giugno 2020
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