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venerdì 5 giugno 2020

Paganesimo di ritorno

Come siamo ridiventati pagani. E come possiamo tornare cristiani


Cari amici di Duc in altum, ricevo da Gian Pietro Caliari questo contributo, che volentieri condivido.

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Venient dies quando desideratis videre unum diem
“Verrà un tempo in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell’uomo, ma non lo vedrete. Vi diranno: Eccolo là, o: eccolo qua; non andateci, non seguiteli” (Luca 17, 22-23).
L’evangelista riporta questo monito del Salvatore, al termine di un breve colloquio fra Gesù e i farisei, sul tempo della venuta del Regno di Dio, dopo che, in realtà, il Cristo aveva già fornito una precisa indicazione: “…infatti il Regno di Dio è fra/dentro di voi” (Luca 17, 21).
Sappiamo che l’espressione Regno di Dio ricorre 122 volte nei testi del Nuovo Testamento e che i Padri della Chiesa hanno interpretato questa espressione in tre dimensioni.
La prima, strettamente cristologia, indica appunto l’auto-basileia di Cristo stesso, vale a dire la piena e completa rivelazione di Dio e del suo Regno in Cristo stesso.
Una seconda, più mistica, indica la presenza della Verità di Cristo nell’interiorità stessa dell’uomo credente.
La terza, ecclesiologica, indica nella Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” l’attuarsi del Regno di Dio nella Storia.
Pur non oscurando o tralasciando affatto le prime due accezioni dell’espressione neotestamentaria – anzi riaffermandole! – fu proprio la terza e ultima dimensione che il Concilio Vaticano II volle riaffermare in senso dogmatico, come dottrina da credersi e credere certa per chiunque sia realmente cattolico: “Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa predicando la buona novella, cioè l’avvento del regno di Dio da secoli promesso nella Scrittura […] La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l’inizio” (Lumen gentium, 5).
Questa scelta fu profetica perché, a ben vedere, forse qualcuno aveva previsto che dopo la stagione del “Cristo sì, Chiesa no!” sarebbe giunta quella, ben più drammatica, del “Cristo e il suo Regno no!”. Il tempo, vale a dire, del paganesimo di ritorno o del neopaganesimo all’interno stesso della Chiesa cattolica e come nucleo centrale della contemporanea predicazione.
Scriveva nell’inverno del 1958 – sic! – un allora giovane prete e teologo: “L’immagine della Chiesa moderna è caratterizzata essenzialmente dal fatto di essere diventata e di diventare sempre di più una Chiesa di pagani in modo completamente nuovo: non più, come una volta, Chiesa di pagani che sono diventati cristiani, ma piuttosto Chiesa di pagani che chiamano ancora sé stessi cristiani ma che in realtà sono diventati da tempo dei pagani. Il paganesimo risiede oggi nella Chiesa stessa e proprio questa è la caratteristica della Chiesa dei nostri giorni come anche del nuovo paganesimo: si tratta di un paganesimo nella Chiesa e di una Chiesa nel cui cuore abita il paganesimo” (Joseph Ratzinger, Die neuen Heiden und die Kirche, in Hochland, LV, 51, 1958-1959, p. 1).
Che cosa poteva intendere, già nella seconda metà del secolo scorso, quel giovane teologo? Per comprenderlo, dobbiamo occuparci del significato del paganesimo moderno o neopaganesimo.
Si tratta, secondo W. Doniger e M. Eliade, di “diversi movimenti spirituali che, pur distinguendosi dai rituali magici propri degli antichi lottano per far rivivere autentici pantheon e rituali di antiche culture, spesso attraverso un approccio deliberatamente eclettico e ricostruzionista, e attraverso un particolare atteggiamento contemplativo e celebrativo” (in Merriam-Webster’s Encyclopedia of World Religions, Merriam-Webster, 2000, pp. 794-795 ).
Ancor più indicativa e precisa la definizione che ne dà il filosofo italiano Salvatore Natoli per il quale, benché si tratti di un movimento che ha distinte visioni teologiche, cosmologiche e antropologiche, siamo in presenza di un comune e preciso approccio naturalistico, umanistico e relativistico (cfr. La salvezza senza fede, Torino, 2007).
Molti cattolici, e giustamente, si sono scandalizzati e infuriati quando hanno dovuto assistere al disgustoso e satanico rituale di frati e suore allegramente prostrati in atto d’apostatica adorazione della Pachamama e di un idolo fallico, nei giardini vaticani e alla presenza del successore di Pietro e vicario di Cristo. O alla lugubre processione di vescovi che, non curanti di essere tali perché successori degli apostoli, dall’altare della Confessione portarono a spalla le stesse effigi idolatriche fino all’aula del sinodo. E non si trattava di semplice folclore panamazzonico!
Troppi cattolici, invece e ingiustamente, non s’indignano per una martellante, dilagante e sempre più disonesta predicazione che ha del tutto espunto, se non addirittura escluso, l’annuncio di Cristo e del suo Regno per imporre, al contrario, un neo-dogma pagano il cui contenuto è sfacciatamente naturalistico, umanistico e relativistico.
Proprio questo è, a ben vedere, il nucleo centrale della “Chiesa in (libera) uscita”, che deve evitare ogni “autoreferenzialità” in nome “dell’ecologismo integrale”, “del neoumanesimo”, della “situazione concreta” e della “fraternità universale”.
Che fare, allora, per chi non vuole, da cattolico, cadere nella trappola del neopaganesimo?
Tre elementi appaiono essenziali.
Primo. Il recupero, innanzi tutto, della sacralità liturgica di fronte alla banalizzazione del Sacrum, cioè di Dio stesso Trinità Santissima! Anche perché proprio in questo si è manifestato il totale fallimento della riforma liturgica post-conciliare.
“Il fondamento dell’unione dell’uomo con Dio è la piena distinzione tra l’uomo e Dio. Per questo la pienezza dell’unione è data dalla Rivelazione cristiana, che pone l’unione tra Dio e l’uomo a partire dalla piena distinzione tra Dio e l’uomo. L’atto redentore è un atto unico, l’atto del solo Cristo: un atto intertrinitario in cui il Figlio offre la sua umanità e l’umanità del mondo in sacrificio al Padre in un atto di assoluta adorazione. Qui solamente il Mistero trinitario è manifestato nella sua verità” (G. Baget Bozzo, L’Anticristo. Il principe delle tenebre opera nella storia da piccole fessure, Milano, 2001 p.46).
Nella liturgia, infatti, è stata ed è ancora inferta la ferita più grave e letale alla fede e al popolo cattolico, nella sua dimensione più originaria e imprescindibile di Mysterion, cioè il Sacrum.
Secondo. Il non conformismo, poi, come dimensione essenziale della fede cattolica: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Romani 12, 2).
L’ammonimento dell’Apostolo delle Genti era così commentato dall’allora cardinal Ratzinger: “Dobbiamo riscoprire il coraggio del non conformismo davanti alle tendenze del mondo opulento. Invece di seguire lo spirito dell’epoca dovremmo essere noi a marchiare di nuovo quello spirito con l’austerità evangelica. Noi abbiamo perduto il senso che i cristiani non possono vivere come vive chiunque. L’opinione stolta secondo cui non esisterebbe una specifica morale cristiana è solo una espressione particolarmente spinta della perdita di un concetto base: la differenza del cristiano rispetto ai modelli del mondo” (Vittorio Messori, Rapporto sulla fede, Roma, 1985, p. 64).
È questa la necessaria riscoperta di un’identità cattolica, nutrita della semplice ma radicale gioia di aver incontrato Colui che solo è “Via, Verità e Vita”, (Giovanni 14, 6) ma anche di umile fierezza di essere ancora “una patria dell’anima” per coloro che sono “affaticati e oppressi” dall’oppressione sempre più pervasiva ed esiziale del neopaganesimo dominante.
Terzo. Riscoprire, infine, il carattere martiriologico-missionario della nostra fede senza infondate e sospettose remore di proselitismo.
Scriveva ancora Ratzinger: “La cultura atea dell’Occidente moderno vive ancora grazie alla libertà dalla paura dei demoni portata dal cristianesimo. Ma se questa luce redentrice del Cristo dovesse spegnersi, pur con tutta la sua sapienza e con tutta la sua tecnologia il mondo ricadrebbe nel terrore e nella disperazione. Ci sono già segni di questo ritorno di forze oscure, mentre crescono nel mondo secolarizzato i culti satanici” (V. Messori, cit, p. 79).
Non è sufficiente, insomma, farsi prossimo al prossimo nel nome di un neo-umanitarismo integrale e caritatevole, infarcito di Gaudium et Letitia. “Ciò resta sempre insufficiente – scriveva infatti Paolo VI – perché anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata – ciò che Pietro chiamava dare le ragioni della propria speranza – esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù. […] Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati” (Evangelii nuntiandi, 22).
Si tratta, in fin dei conti, di tre punti apparentemente banali, e non siamo proprio certi che bastino a evitare “l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele” (Matteo 24, 15).
Di una cosa siamo, tuttavia, certi: non sono temi per masse osannanti e festose, ma per un parvulus grex forte, gioioso e fiero del suo Signore che ancor oggi lo rinfranca e lo invita a non disperare: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo Regno” (Luca 12, 32).
Gian Pietro Caliari

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