ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 29 giugno 2020

Temerario atto d’accusa?!

L'arcivescovo Viganò sull’orlo dello scisma. 
La lezione inascoltata di Benedetto XVI


Benedetto XVI nel 2011 lo promosse a nunzio apostolico negli Stati Uniti. Il mite papa teologo non poteva certo immaginare, nove anni fa, che l’arcivescovo Carlo Maria Viganò – dal 2016 tornato a vita privata ma tutt’altro che nascosta – l’avrebbe oggi incolpato d’aver “ingannato” la Chiesa intera dando a credere che il Concilio Vaticano II fosse immune da eresie e, anzi, andasse letto in perfetta continuità con la vera dottrina di sempre.

Perché proprio questa è la vetta a cui è arrivato Viganò in questi giorni, in capo a un crescendo martellante di denunce delle eresie della Chiesa di questi ultimi decenni, con alla radice di tutto il Concilio, da ultimo in un botta e risposta con Phil Lawler, direttore di CatholicCulture.org.
Attenzione: non il Concilio male interpretato, ma il Concilio in quanto tale e in blocco. Nei suoi ultimi interventi pubblici, infatti, Viganò ha respinto come troppo timida e vacua persino la pretesa di alcuni di “correggere” il Vaticano II qua e là, nei suoi testi a loro giudizio più smaccatamente eretici, come la dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa. Perché ciò che deve essere fatto una volta per tutte – ha ingiunto – è “lasciarlo cadere ‘in toto’ e dimenticarlo”.
Naturalmente con la parallela “cacciata dal sacro recinto” di tutte quelle autorità della Chiesa che, identificate come colpevoli dell’inganno e “invitate ad emendarsi”, non si ravvedessero.
Secondo Viganò, ciò che dal Concilio in poi ha snaturato la Chiesa è una sorta di “religione universale di cui fu prima teorizzatrice la Massoneria”. E il cui braccio politico è quel “governo mondiale fuori da ogni controllo” perseguito dai poteri “senza nome e senza volto” che ora piegano ai loro interessi anche la pandemia del coronavirus.
Lo scorso 8 maggio, a un appello di Viganò contro questo incombente “Nuovo Ordine Mondiale” hanno incautamente apposto le loro firme anche i cardinali Gerhard Müller e Giuseppe Zen Zekiun.
Così come a una successiva lettera aperta di Viganò a Donald Trump – da lui invocato come guerriero della luce contro il potere delle tenebre che agisce sia nel “deep state” che nella “deep Church” – ha risposto entusiasta lo stesso presidente degli Stati Uniti, con un tweet divenuto virale.
Ma tornando al temerario atto d’accusa sferrato da Viganò contro Benedetto XVI per i suoi “fallimentari tentativi di correzione degli eccessi conciliari invocando l’ermeneutica della continuità“, è doveroso ridare la parola proprio all’accusato.
L’ermeneutica della continuità – o con più esattezza: “l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa” – è infatti la chiave di volta dell’interpretazione che Benedetto XVI ha dato del Concilio Vaticano II, nel memorabile suo discorso alla curia vaticana della vigilia di Natale del 2005, primo anno del suo pontificato.
È un discorso che va assolutamente riletto per intero:
Ma ecco per sommi capi come papa Joseph Ratzinger sviluppò quella sua esegesi del Concilio Vaticano II.
Esordì ricordando che anche dopo il Concilio di Nicea del 325 la Chiesa fu scossa da conflitti accesissimi, che fecero scrivere a san Basilio:
“Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede…”.
Ma perché anche le ripercussioni del Vaticano II sono state così conflittuali? La risposta di Benedetto XVI è che tutto è dipeso “dalla sua ermeneutica”, cioè dalla sua “chiave di lettura e di applicazione“.
Il conflitto è nato dal fatto che “due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro”.
Da una parte c’è stata una “ermeneutica della discontinuità o della rottura”. Dall’altra una “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa”.
A detta della prima ermeneutica “occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito”, dando spazio agli “slanci verso il nuovo” che sarebbero sottesi ai testi, “nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili”.
Ma con ciò – obiettò il papa – “si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova”. Quando invece “la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore” e i vescovi semplicemente devono esserne gli “amministratori” fedeli e saggi.
Fin qui, Benedetto XVI sembrò dunque attribuire l’ermeneutica della discontinuità alla sola corrente progressista della Chiesa. Ma più avanti nel discorso, nell’analizzare a fondo la volontà del Concilio di “determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna”, egli prese di petto proprio la questione su cui non i progressisti ma i tradizionalisti si sono impuntati di più, fino a rompere con la Chiesa come hanno fatto i seguaci di Marcel Lefebvre e oggi sembra sul punto di fare Viganò.
È la questione della libertà religiosa, su cui si è pronunciata la dichiarazione conciliare “Dignitatis humanae”. Una dichiarazione alla quale anche Viganò imputa le cose peggiori, fino a scrivere che “se la Pachamama ha potuto esser adorata in una chiesa, lo dobbiamo a ‘Dignitatis humanae’”.
In effetti, è innegabile che sulla libertà religiosa il Concilio Vaticano II abbia segnato una netta discontinuità, se non una rottura, con l’insegnamento ordinario della Chiesa dell’Ottocento e del primo Novecento, fortemente antiliberale. Benedetto XVI lo riconobbe esplicitamente in quel suo discorso e ne spiegò anche le ragioni storiche, che proprio perché storiche sono mutate nel tempo e hanno consentito al Concilio, “riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno”, di riprendere nuovamente “il patrimonio più profondo della Chiesa”, quello “di Gesù stesso” e “dei martiri della Chiesa primitiva”, che “sono morti per la libertà di professione della propria fede, una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza”.
“È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”, disse papa Ratzinger in quel discorso. “Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità”.
C’è quindi una “ermeneutica della discontinuità” che anche Benedetto XVI disse di approvare, perché “è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma”.
Ma a questo punto tanto vale lasciare a lui la parola e riprodurre qui di seguito la parte finale di quel suo discorso sul Concilio, in cui egli argomentò in forma distesa quanto sopra è stato riassunto in poche battute.
I controargomenti di Viganò sono anch’essi a disposizione nei siti che gli danno eco. Ai lettori il confronto.
*
“In questo processo di novità nella continuità…”
di Benedetto XVI
[…] Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra. La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna.
Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio.
Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna.
Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà.
Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare.
Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta.
Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato.
In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione.
Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele. Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto.
È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione.
È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare.
Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza.
Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento.
Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza.
Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.
Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr “Lumen gentium” 8).
Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo.
Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo papa Giovanni Paolo II, ancora da cardinale, aveva dato questo titolo agli esercizi spirituali predicati nel 1976 a papa Paolo VI e alla curia romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza.
Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme.
La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta, “apo-logia”, a chiunque avesse loro chiesto il “logos”, la ragione della loro fede (1Pt 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio.
Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.
La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento.
Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.
Roma, 22 dicembre 2005
—————
Sull’inquadramento storico dei documenti del Concilio Vaticano II, per una loro giusta interpretazione, è esemplare questa recente conferenza del cardinale Walter Brandmüller, già presidente del pontificio comitato di scienze storiche:

> Il Concilio Vaticano II: le difficoltà dell’interpretazione
Settimo Cielo
di Sandro Magister 29 giu

3 commenti:

  1. Viganò ha ragione al 1000 %. Ratzinger e Wojtyla sono due bastardi giudei marrani che hanno fatto peggio di Paolo VI. Chiunque non si limiti ad essere un Cattolico pateticamente " conservatore ", come sono gli apostati wojtyliano-ratzingeriani, ma un Cattolico e basta, cioé un Vero Cristiano, vede bene l'immondo giudaizzare del liberalconservatore e fornicatore e adultero notorio Karol Jozef Wojtyla da Wadowice, come pure l' americanismo occidentalista e criptocalvinista dell' androgino Joseph Alois Ratzinger da Marktl-am-Inn. Marrano al calor bianco pure lui, l'ex-pseudo Arcivescovo di Monaco di Baviera-Frisinga. Giovanni Paolo polacco e Benedetto bavarese: due non-Papi da buttare nell'immondizia con tutto il loro magistero da giudei mal divisati da " Cattolici". E con loro il marrano calvinista Raymond Leo Burke, il marrano luterano Gerhard Ludwig Muller, gli impostori ciellini e opusdeisti, americanisti e perciò cripto-giudei. Tutta la mia solidarietà a Padre Carlo Maria Viganò.

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    1. Ritengo che lei si debba vergognare per aver schizzato contro i due Papi tutto questo veleno senza uno straccio di argomentazione (!).

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  2. Dopo mezzo secolo di poco virili (per così dire) minuetti verbali sul CVII per tentare di salvare la capra, i cavoli, i remi, la barca, il barcaiolo e chissà cos'altro, è pacifico che una presa di posizione salda, vera e virile come quella di mons. Viganò non poteva che sconvolgere.

    Ma, a mio avviso, a meno di questa presa di verità si continuerà a rimanere a mollo in palude, col la melma fino al collo.
    Poiché ancora vivono molti dei protagonisti, che vissero in prima persona quell'evento, e che SANNO BENE quel che successe e CHI MANOVRO' verso il protestantesimo e l'eresia, l'unica soluzione è che essi si cospargano il capo di cenere e confessino prima di morire.
    Disinfettata la piaga, la guarigione potrà FINALMENTE INIZIARE. Tutta la vera Chiesa ne ha sacrosanto diritto, E NON ATTENDE ALTRO!

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