Domenica XX del Tempo Ordinario (Anno A)
(Is 56,1.6-7; Sal 66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28)
Nel brano del Vangelo di questa domenica si direbbe che Gesù voglia aprire la mente dei suoi discepoli ad avvicinarsi alla prospettiva della “dimensione universale” di quello che dovrà essere il cristianesimo. Non una semplice più approfondita religione particolare, propria del popolo ebraico, ma l’unica universale via di Salvezza, per tutta l’umanità. Per introdurli a questa nuova prospettiva di “universalità del cristianesimo”, in un primo momento Egli si colloca nella “mentalità particolaristica” dei discepoli, non prendendo neppure in considerazione, la richiesta della donna cananea («egli non le rivolse neppure una parola»), facendo come avrebbero fatto loro. Infatti essi considerano questa donna una disturbatrice importuna della quale liberarsi al più presto («Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!»). Meglio accontentarla perché ci infastidisce e non perché meriti attenzione come persona. Gesù, facendo vedere ai discepoli le conseguenze del loro modo di pensare e di comportarsi, dice alla donna, come avrebbe fatto uno di loro: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele». Come dire non ci seccare, perché ci dobbiamo occupare di un’altra categoria di persone, del nostro popolo. Ma lei si era rivolta a Lui con rispetto e fiducia, come ci si rivolge al Signore («Signore, aiutami!») e non con la pretesa di chi avanza dei diritti con prepotenza e violenza.
C’è una bella differenza di atteggiamento tra questa donna e i cosiddetti “migranti” dei nostri giorni che, generalmente, non hanno nessuna intenzione di rivolgersi a Cristo come al Signore! E c’è una bella differenza tra l’atteggiamento di Gesù che riconosce in lei la “fede” in Lui e l’atteggiamento dei nostri politici ed ecclesiastici che sui cosiddetti “migranti” speculano per denaro e ideologia e non certo per amore del prossimo, a parte qualche raro ingenuo e poco intelligente idealista, che comunque si guarda bene dall’annunciare Cristo anche come loro Salvatore. A questo proposito la prima lettura parla in favore degli «stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi» e non di quelli che vengono per combatterlo, con ogni pretesa di impunità per le devastazioni che compiono!
La donna cananea ammette di non avere diritto di pretendere nulla dal Signore, il Messia della Casa di Israele, ma chiede almeno le briciole della Salvezza, perché di essere salvati hanno bisogno tutti (anche i cagnolini) e non solo gli appartenenti al popolo eletto («È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni»). Ella accetta perfino di essere considerata tra i cagnolini, esprimendosi con il linguaggio del popolo eletto nei confronti dei non appartenenti al popolo, pur di farsi capire, sostenendo correttamente che tutti hanno bisogno della Salvezza. Oggi noi sappiamo bene che, dietro questa scena, al di là dell’effettiva consapevolezza delle persone coinvolte, il Signore mira alla questione del peccato originale e del peccato in genere, dal quale tutta l’umanità ha bisogno di essere salvata. E la Sua missione ha lo scopo di attuare questa Salvezza a dimensione universale. Con questo episodio (questa volta si tratta di un incontro effettivo e non di una parabola come nei Vangeli delle passate domeniche) il Signore ha inteso portare i discepoli dalla loro “ottica particolaristica” all’“ottica universalistica” di Dio, del Padre e Sua, ottica che lo Spirito Santo farà loro comprendere ulteriormente. E così l’incontro si conclude con la dichiarazione di Gesù alla donna: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».
Nella seconda lettura san Paolo si qualifica come «apostolo delle genti», ovvero dei non appartenenti al popolo di Israele, ai quali si rivolge annunciando la “Salvezza universale”, possibile unicamente in Cristo. E come ha fatto Gesù nell’episodio del Vangelo di oggi, anche Paolo vuole portare quegli ebrei che non hanno riconosciuto Cristo come Messia e Salvatore del loro popolo particolare, ad arrivare a riconoscerlo anche come loro Salvatore in quanto anche loro rientrano nell’“universalità della Salvezza” di Cristo. La “parte” (Israele) rientra nel “tutto” (l’umanità) e se Salvezza c’è per il “tutto”, c’ anche per la “parte” che nel “tutto” è inclusa.
La “misericordia” consiste nel convincere che in Cristo e solo in Lui c’è questa Salvezza universale. È esattamente il contrario del chiudere gli occhi di fronte all’errore nel quale il nostro prossimo è immerso e nel quale noi stessi, per incoerenza, più di una volta cadiamo. La “misericordia” è la restituzione (“redenzione”) della “giustizia” che è stata infranta nel rapporto tra l’uomo e Dio.
Non a caso i grandi cantici contenuti nel Vangelo di Luca mostrano la misericordia come restituzione della giustizia tra l’uomo e Dio.
«Cosi egli ha concesso misericordia ai nostri padri […] di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni» (Benedictus, Lc 1,72-75).
«Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono»; e vengono poi elencate le opere di ricostruzione della giustizia che operano questa misericordia: «ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi» (Magnificat, Lc 1,50-53).
È come sempre a Maria che ci affidiamo anche oggi per domandarle di intercedere per ottenere, come la donna cananea la Grazia della fede nella Salvezza operata dal Salvatore.
Bologna, 16 agosto 2020
Fonte: albertostrumia.it
Alberto Strumia, sacerdote, teologo, già docente ordinario di fisica-matematica presso le università di Bologna e Bari.
Gesù “messo in crisi” dal mondo.
Qui di solito non si fa il commento alle letture della messa perché non è il mio mestiere, però il vangelo di oggi è così impressionante che mi permetto uno strappo alla regola perché voglio annotarne un particolare.
Vi si dice che Gesì si ritira «verso la zona di Tiro e di Sidone» (Mt 15,21). Non è ben chiaro se e quanto si inoltri in quel territorio, ma saremmo comunque in Fenicia; l’unico “viaggio all’estero” fatto da Gesù in vita sua. Un estero molto prossimo a casa, d’altro canto: proprio ai confini della Galilea. Quando parla di Tiro e Sidone, Gesù di Nazaret è come se parlasse di quelli del paese vicino o della valle accanto: stranieri ma prossimi, gente con cui si è abituati a confrontarsi. (Si veda in Mt 11,20-23 la sfuriata contro i compaesani che non si sono convertiti: «se a Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli che sono stati fatti in mezzo a voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza …»).
Lì c’è una donna cananea – una fenicia dunque, cioè una pagana (oggi sarebbe una libanese, poveretta) – che urla perché vuole che lui guarisca sua figlia, gravemente malata («crudelmente tormentata da un demonio» dice lei). Non ha garbo né discrezione, questa povera donna: ha solo una figlia malata e l’idea che Gesù può guarirla. Un bisogno e una domanda, solo questo. E glieli grida mentre lui passa.
«Ma egli non le rivolse neppure una parola» (15, 23). Scommetto che nelle omelie di oggi si sarà parato mille volte il colpo di questo “scandaloso” comportamento di Gesù. Ma perché ci dovremmo scandalizzare? Perché mai Gesù avrebbe dovuto dar retta a quella donna? “Viziati” da venti secoli di predicazione cristiana imperniata sulla misericordia di Dio, noi ci siamo ormai abituati all’idea che il nostro bisogno e la nostra domanda obblighino Dio a rispondere, e guai a Lui se non lo fa. In realtà Egli non ha alcun dovere verso di noi: la “buona notizia” è appunto che, poiché ci ama, Dio viene in nostro soccorso anche se non sarebbe tenuto a farlo; ma se la misericordia diventa un obbligo, smette di essere una buona notizia, cioè smette di essere il vangelo.
«Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: “Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”» (15,23). Così nuovi del mestiere e già così clericali: questo prendere da parte Gesù per parlare di lei senza di lei; questa richiesta di accontentarla, “così se ne va e smette di gridarci dietro”. Il greco ἀπόλυσον, che nella traduzione Cei viene reso con “esaudiscila”, significa piuttosto “congedala / lasciala andare”, al limite “mandala via”. Più che misericordia vera e propria, quella richiesta dai discepoli è l’eliminazione di un fastidio.
«Egli rispose: “Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele”» (15,24). Che è la risposta giusta. Quella che ci si aspetta che dia un profeta o un maestro d’Israele, quale Gesù – agli occhi di tutti quelli che stanno con lui – a tutti gli effetti è. A livello “intraecclesiale” (come diremmo oggi), la partita è chiusa e i discepoli l’hanno persa, come succede tutte le volte, nessuna esclusa, in cui “dicono la loro”. Non c’è mai un suggerimento o una proposta dei discepoli che Gesù segua, mai che dia ragione a loro (un tratto, questo, così marcato nei vangeli che ci si stupisce venga tanto poco valorizzato nella sua pregnanza teologica).
Tacitati gli interni, è dall’esterno che la questione viene riaperta: la donna cananea – prima tenuta lontana dagli “ecclesiastici” che parlavano per lei – si avvicina, si prostra davanti a Gesù (riconoscendo così la sua sovrumana autorità) e gli dice semplicemente: «Signore, aiutami (κύριε, βοήθει μοι)». Cioè: io però sono qui. Io ci sono, col mio bisogno e la mia domanda. Il mio semplice esserci costituisce un problema. Ne vuoi prendere atto?
Gesù le risponde allora la stessa cosa che ha già detto ai discepoli, solo con un linguaggio diverso, che può essere considerato, a scelta, o più familiare e comprensibile per chi è digiuno di termini e concetti biblici oppure semplicemente più brutale (ai limiti dell’insulto): «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» (15,26). Di nuovo, sempre nella logica del ruolo che Gesù sta svolgendo, è giusto così perché se la risposta data ai discepoli era corretta (se lo era dottrinalmente, diremmo oggi) non è che ora diventa sbagliata (pastoralmente, diremmo oggi) solo perché sta parlando con una “esterna”.
A questo punto accade l’inaudito, l’impensabile, ciò che rende così impressionante questo passo del vangelo: la donna non disarma e non batte in ritirata davanti alla risposta di Gesù (come quasi tutti fanno nei racconti evangelici) ma la sottopone a critica e ne fa un “retto uso”, riproponendo a Gesù la questione ad un livello ulteriore, cioè con uno spessore di verità più profondo. «”È vero, Signore”, disse la donna, “eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”» (15,27). Gesù pedagogicamente lascia che questa persona – una donna e una pagana! – operi nei suoi confronti una chresis cioè un retto uso delle sue parole; il tipo di giudizio che, inverando la posizione dell’altro, ne coglie il senso più profondo ricollocandola al livello di verità che le è proprio.
C’è una forte analogia, in questo senso, con l’episodio narrato in Lc 7,1-10, in cui troviamo l’unico personaggio in tutto il vangelo che susciti in Gesù un esplicito moto di ammirazione (ed è anche lui un pagano): il centurione di Cafarnao. Anche in quel caso, infatti, abbiamo dei “mediatori ecclesiastici” incaricati di perorare la causa di un “esterno”, gli «anziani dei Giudei» che pregano con insistenza Gesù di andare a guarire il servo del centurione, perché costui ha acquisito verso il popolo ebraico («è stato lui a costruirci la sinagoga»). Questa volta Gesù sembra non avere obiezioni e si incammina verso la casa del centurione, ma prima che ci arrivi il centurione lo precede inviando alcuni amici (giudei, si suppone) tramite i quali lo invita a non entrare neppure in casa sua dato che non si sente degno di accoglierlo: gli basta che dica una parola ed è sicuro che il servo guarirà. Come la donna cananea, dunque, questo centurione si rapporta con la posizione di Gesù in un modo che potremme definire – se si intende bene il senso della parola – critico. Accetta con fede la risposta di Gesù ma la rilancia, per così dire, su un piano ancora più alto. L’invito a non venire a casa sua manifesta infatti una fede talmente forte e profonda nella superiore potestà di Cristo da trascendere addirittua il modo in cui Gesù stesso aveva manifestato la propria disponibilità a guarire il servo.
Il senso pedagogico di queste situazioni in cui Gesù si lascia, per così dire, “mettere in crisi” da un uomo e una donna “del mondo”, cioè non appartenenti al “popolo dei suoi” deve essere molto chiaro per questi ultimi, cioè per noi a cui l’insegnamento è rivolto. La krisis cristiana del mondo, che resta il primo servizio che i fedeli di Gesù devono prestare agli uomini, è autentica solo se comporta la completa disponibilità a lasciarsi “mettere in crisi” da coloro che giudica. Incontrare la donna cananea o il centurione di Cafarnao non significa dar loro “la risposta giusta” che conosciamo già in precedenza, ma essere disponibili a lasciare che il rapporto conle loro domande inveri ulteriormente quella risposta.
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