ACTA APOSTATICAE SEDIS : come, cambiando un po' qua e un po' la, si può cambiare tutto...

lunedì 31 agosto 2020

Raschiando il fondo del barile

Che fatica
Chissà se qualcun altro oltre a me si è domandato come facessero gli uomini delle passate generazioni a credere certe cose palesemente assurde, anche di fronte all’evidenza. Tanto per dirne una, tutta la fisica aristotelica non sta minimamente in piedi neanche ad un esame anche superficiale. I salassi, l’etere… La risposta standard è che non avevano la Scienza odierna. Ah, le età oscure.
Facciamoci però una domanda. Non è che questa risposta standard è un’altra di quelle assurdità che, se considerassimo la realtà, dovremmo smettere di credere?
Perché i fatti dicono diversamente. Basterebbe essersi guardati attorno negli ultimi mesi, dove quasi ogni frase che iniziava con “gli esperti dicono che” o “gli scienziati affermano” è stata poco dopo smentita. Ma dove sta il problema, nella Scienza? In un certo senso sì: sta nel concetto che si ha di Scienza.
Credo che l’essere umano abbia una certa tendenza a costruirsi idoli. Un idolo è qualcosa di meraviglioso: evita la fatica di pensare, di coinvolgersi. Fa risparmiare un sacco di tempo e di energie. Il bello è che funziona: se un numero sufficiente di persone crede a quell’idolo, ci si sente rassicurati, più sereni, certi di essere nel giusto. Logica di gruppo, o di gregge: tutti fanno così, quindi deve essere vero.
Anche se poi non è vero. Ma mettersi contro la convinzione comune richiede tanta energia e fatica. Pensare consuma e stressa.
Così la Scienza diventa un idolo, una divinità infallibile.
Ma cos’è la Scienza? Quella cosa che fanno gli scienziati. E chi sono gli scienziati? Senza eccezioni, dei poveretti proni all’illusione e all’inganno, come noi. Uomini, pure loro.
I procedimenti metodici e rigorosi che dovrebbero stare alla base? Tirati via, o basati a loro volta su fallacie. La sperimentazione? Rarissima, spesso viziata da errori formali o di concetto o statisticamente inaffidabile. Ragionamento logico? E’ più forte il “vorrei fosse così, quindi questo è”. Ci sono statistiche che dicono che la maggioranza degli articoli pubblicati su riviste specializzate (e quindi già sottoposti a vaglio, la mitica peer review) sono irriproducibili. Qualcuno si spinge ad affermare che otto ricerche su dieci siano in qualche modo errate.
Quindi, cosa crediamo? A cosa ci affidiamo davvero?
Facciamo un esempio pratico. Questo post ipotizza, citando un gran numero di ricerche, che la mascherina ospedaliera durante le operazioni non solo non sia necessaria, ma probabilmente dannosa. Figuriamoci in altri contesti. Cosa devo credere, quindi? Che la mascherina sia come il rametto di corallo medioevale, che indossato proteggeva dai malanni, o che tutte quelle ricerche siano sballate? Devo vestire la mascherina ovunque e comunque, persino da solo nel deserto, oppure è inutile e controproducente anche in mezzo ad una folla?
In altre parole: come so quello che so? Sono davvero così sicuro che i miei atti, quelli di un scientificissimo civilizzato abitante dell’industrializzato XXI secolo, siano poi così diversi da quelli di un qualsiasi selvaggio sperso nella giungla che fa così perché l’ha detto lo stregone, il capotribù o l’antenato? Come si fa a credere a cose come la catastrofe climatica, il gender, o che il bambino abortito non sia un essere umano, quando l’evidenza dice il contrario?
Sapete signori, rispondere a queste domande richiede energia e tempo. Occorre mettere e mettersi in discussione. Pensare.
Essere uomini, che fatica.

Pubblicato da Berlicche

https://berlicche.wordpress.com/2020/08/31/che-fatica/

Padre Konrad porta i clochard al mare: "Nessun contagio perché i ricchi non li toccano"

A spese del Vaticano, l'elemosiniere del Papa sta organizzando delle gite al mare per alcuni gruppi di senzatetto della parrocchia per restituire loro un po' di normalità


Anche quest'anno padre Konrad Krajewski, l'elemosiniere di papa Francesco, ha organizzato delle gite al mare per alcuni gruppi di senzatetto.
Si tratta, come spiega lo stesso cardinale ai microfoni de La Stampa di una "breve ma rigenerante vacanza" offerta dal pontefice. Il programma della giornata consiste in qualche ora trascorsa sulla spiaggia libera del litorale di Passoscuro Palidoro, reso famoso da La Dolce Vita di Fellini, e poi in una cena in pizzeria.
"Il Santo Padre desidera ridare dignità a queste persone che hanno un bisogno disperato di evadere per qualche ora dalla triste e dura realtà quotidiana, da cui non escono mai. Ecco perché Francesco mi ha chiesto di accompagnarli al mare e in pizzeria", spiega padre Konrad, il quale assicura che tutto avviene nel pieno rispetto delle norme anti-Coronavirus. È il Vaticano ad occuparsi di fornire il necessario ai clochard: donando loro costumi, asciugamani e tutto il resto. Una volta pronti, i gruppi salgono sui mezzi messi a disposizione della Santa sede, e via verso il litorale laziale per trascorrere qualche ora al mare.
"Quasi ogni giorno andiamo al mare con i poveri. Prendiamo macchine e pulmini e, nel pomeriggio verso le 16.30, quando la gente diminuisce dalle spiagge, si parte. La sera tutti in pizzeria per la pizza pontificia perché paga Francesco", racconta l'elemosiniere ad "AdnKronos". "Andiamo nelle spiagge pubbliche. Con gruppi di 13-15 alla volta soprattutto per evitare assembramenti ma anche per riuscire a dialogare insieme la sera in pizzeria". "Non sono abituati alla vita da spiaggia, non resistono tanto. Un paio di ore: c’è chi fa il bagno, chi passeggia. Poi alle 19.30 tutti in pizzeria, sempre all'aperto", precisa il prelato.
I gruppi, spiega padre Konrad, sono composti da uomini e donne. Gli spostamenti avvengono rispettando tutte le norme di sicurezza sanitaria. Le persone "provengono ogni volta da uno stesso dormitorio", dice il cardinale, che poi aggiunge: "Ma del resto non si è mai registrato nessun caso di contagio. Da quando i ricchi non li toccano...". Un'uscita che potrebbe provocare qualche polemica.
Ad ogni modo, dopo il bagno in mare e le passeggiate sulla spiaggia, la comitiva raggiunge la pizzeria "Cantinaccia" di Palidoro. A tavola si parla di tutto, riferisce il cardinale Krajewski. "Si condividono spontaneamente i rispettivi problemi, preoccupazioni, ansie, frustrazioni. Ognuno racconta la propria storia, le proprie sofferenze e i propri dolori", spiega a "La Stampa". "Ma si prova anche a scherzare. Quello è il momento più importante, che dura anche tre ore: queste persone hanno disperato bisogno di aprirsi, esprimersi, parlare e di essere ascoltati. Di sentirsi liberi. Di ricevere sguardi di affetto. Di amicizia".
Un'occasione preziosa, secondo l'elemosiniere del papa: "Ciò che più conta è che i poveri riescono ad assaporare un po' di normalità, a godersi qualche ora di svago. Sono contenti, e tornano nel dormitorio più sereni. Per loro giornate così sono un dono". Non manca neppure un leggero attacco alla politica: "Non abbiamo nessun programma come fanno i politici che parlano parlano... facciamo piccole cose, nello stile di madre Teresa". Le cose da fare sono tante, continua padre Krajewski. Oltre ai senzatetto, il Vaticano ha inoltre intenzione di regalare la medesima esperienza alle donne affette da disturbi mentali, attualmente accudite proprio dalle suore di madre Teresa.

Raschiando il fondo del barile. Ultime trovate dantesche prima di finirla con l’Inferno: l’antipianto e i morti viventi (#Dante, Inferno, canto XXXIII, vv. 91-fine)


Chiusa la cella di Ugolino, epitome del male assoluto, e sfogato in qualche modo il nostro disperato senso di oppressione maledicendo i Pisani, il canto potrebbe anche finire qui. Ma sarebbe troppo corto (Dante alle proporzioni e all’ordine ci tiene), e soprattutto abbiamo ancora un paio di pratiche da sbrigare: Cocito, infatti, di zone ne ha altre due e dopo i traditori dei parenti e della patria dobbiamo ancora vedercela con i traditori degli ospiti e quelli dei benefattori. I quali, in punta di logica dantesca, secondo la tassonomia del suo inferno, sarebbero ancora peggiori degli altri due, poiché tradiscono un amore ancor più gratuito e puro (nel senso di non necessitato dai legami di sangue e di appartenenza civica). Ma che dire di più, anzi di meno, o di peggio, dopo il “grado zero” a cui siamo giunti con Ugolino?
Bisogna inventarsi qualcosa, e il nostro poeta non si tira indietro. La prima trovata è l’antipianto. «Noi passammo oltre, là ‘ve la gelata / ruvidamente un’altra gente fascia, / non volta in giù, ma tutta riversata. // Lo pianto stesso lì pianger non lascia …» (vv.91-99). Veniamo dal pianto postumo preannunciato da Ugolino (v.9: «parlare e lagrimar vedrai insieme»), da quello imposto con cui ha ricattato Dante e noi lettori (v.42: «e se non piangi, di che pianger suoli?»), da quello assente nella torre della fame (v. 49: «io non piangëa, sì dentro impetrai» e v.52: «Perciò non lagrimai né rispuos’io») e ora siamo in un posto in cui il pianto stesso impedisce di piangere. Il pianto è non-pianto. Siamo oltre.
Poi si sente un vento freddo, che non si sa da dove venga. Dante chiede spiegazioni al maestro, che risponde evasivamente: “tra poco vedrai tu stesso”. A questo punto, accorgendosi di loro perché ha sentito lo scambio di battute, «un de’ tristi de la fredda crosta» (v.109) chiede a quelle che per lui sono «anime crudeli» di dannati che stanno andando alla Giudecca, cioè a due presunti traditori dei benefattori!, di fargli un favore: liberarlo per delle croste gelate che gli serrano gli occhi sì che, almeno per un istante, possa godere del beneficio di piangere. L’assurdità della richiesta è oltre ogni limite, come ognuno può facilmente capire.
Dante non fa una piega e, con la naturalezza istintiva di un consumato truffatore, accetta immediatamente facendogli la più farlocca delle promesse: «Se vuo’ ch’i’ ti sovvegna, / dimmi chi se’, e s’io non ti disbrigo, / al fondo de la ghiaccia ir mi convegna» (vv.115-117). L’altro abbocca e declina le generalità: è uno di Faenza, un frate godente (un altro!) di nome Alberigo Manfredi, di una famiglia che contava molto tra i guelfi della città, il quale una volta invitò a pranzo certi suoi parenti con cui ce l’avevaa morte e al momento del dessert li fece sbudellare. Niente di che: una cosa da mafiosi che abbiamo visto in tanti film e ormai non ci fa più effetto (Machiavelli, invece, andava in visibilio per questo genere di astuzie sopraffine). In effetti Alberigo ne parla in tono dimesso, quasi con un certo buonumore romagnolo, senza alcun orrore di se stesso: «i’ son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo» (vv. 119-120. Per uno delle nostre parti equivale a dire: “sì, lo so, ho fatto una patacata; ma cosa vuoi farci, è andata così”).
Ma l’ospite è sacro. Così Dante per questi traditori si inventa una cosa che non sta in piedi da nessun punto di vista (logico, teologico, antropologico …) ma che poeticamente funziona eccome. A lui, che di cose di Romagna è esperto, non risulta affatto che Alberigo sia morto. Dunque? Dunque veniamo a sapere che «questa Tolomea» ha la particolarità che appena un uomo vivente commette il peccato nefando di tradire l’ospite, la sua anima ci finsce immediatamente ed è fottuta per l’eternità. Sembra vivo, ma è morto: nel corpo che rimane “apparentemente vivo” sulla terra si installa, al posto dell’anima umana, un demonio «che poscia il governa». Questo ci spiega Alberigo, aggiungendo che di zombie come lui al mondo ce ne sono molti altri: Branca Doria, tanto per dirne uno. Nelle parole con cui Dante reagisce a questa notizia troviamo, io credo, il cuore di un’invenzione inconsistente, ripeto, dal punto di vista di qualsiasi ragionamento di teologia morale ma poeticamente vivissima: «“Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni; / ché Branca Doria non morì unquanche, / e mangia e bee e dorme e veste panni”» (vv. 139-141). Quest’ultimo verso è la sintesi geniale di ogni esistenza che sembra viva ma tale non è: «e mangia e bee e dorme e veste panni». Di quanti ci verrebbe la tentazione di dirlo! Non possiamo, ovviamente, giacché finchè l’uomo è vivo è anche libero e finché è libero può pentirsi del male e riaccogliere l’amore di Dio. Fino all’ultimo battito del cuore, l’ultimo atto respiratorio, l’ultimo barlume della coscienza. È gloria precipua di Dante averci illustrato questa verità, nel modo più affascinante e persuasivo, con i racconti dei pentiti dell’ultima ora, nel III e nel V canto del Purgatorio.
Ma qui c’è da dire un’altra verità, di ordine e rango diverso, ma pur sempre vera: il peccato mortale è una vera morte dell’anima. Chi lo commette, finché non ne risuscita con il pentimento e la richiesta del perdono a Dio, è veramente morto dentro, «e mangia e bee e dorme e veste panni». C’è qualcosa di agghiacciante, in questa diagnosi, che non dipende tanto dall’infausta prognosi quoad vitam aeternam (che, come abbiamo appena ripetuto, con buona pace di Dante non si può emettere finché il paziente è vivo) quanto dalla stessa constatazione di una condizione attuale di vita apparente. Ci viene in mente, con un brivido, la confidenza del diavolo circa Guido da Montefeltro, che «diede ‘l consiglio frodolente, / dal quale in qua stato li sono a’ crini» (XXVII, 116-117).
Uno ha il diavolo appollaiato sulle spalle e se ne torna la suo convento a dire le orazioni. Un altro è morto perché ha tradito «e mangia e bee e dorme e veste panni». Zombie. Chissà quanti ce n’è.
Post scriptum. Dopo aver detto a Dante tutto quel che voleva sapere e anche di più, frate Alberigo gli chiede di mantenere la promessa e aprirgli gli occhi: «E io non gliel’apersi; / e cortesia fu lui esser villano» (vv.149-150). Lo scatto della mossa dantesca è così brillante dispettoso e maligno che dovremmo resterne colpiti come da una puntura di vespa, ma ormai, scafati come siamo, direi che non ci fa molta impressione. Il canto finalmente finisce con una dissolvenza sul poeta che si allontana borbottando una maledizioncina contro i Genovesi, che è una sorta di ripetizione in sedicesimo di quella dedicata ai Pisani: «Ahi Genovesi, uomini diversi / d’ogne costume e pien d’ogne magagna, / perché non siete voi del mondo spersi?» (vv. 151-153).
Ora c’è Satana.
Posted by leonardolugaresi 

1 commento:

  1. Spero che ormai sia acclarato che non si può avere una cieca fiducia nella parola degli scienziati, soprattutto quando tale fiducia è usata da certi scienziati per minare la Fede Cattolica! Infatti abbiamo visto ultimamente tanti errori che sembrano essere stati fatti in malafede dai medici.
    Ma anche i fisici accademici, che normalmente sono considerati quasi come oracoli dai non addetti ai lavori e che spesso sono usati (se non si scagliano loro stessi) contro la Religione Cattolica, commettono errori madornali per cui non sono degni di una cieca fiducia da parte della gente: https://gloria.tv/post/1gskqVvkhwXfCLQw2EK7PGx2n

    RispondiElimina

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.